La pandemia ha bloccato i grandi appuntamenti annuali di scambio di idee e programmi tv. E il rientro è più lento del previsto, e mette in evidenza le tante contraddizioni che attraversano oggi l’industria.
Prima del Covid, i principali mercati internazionali di contenuti – il MipCom di autunno a Cannes, soprattutto, ma anche il MipTv di primavera – erano una specie di giro di boa, un momento per tirare le somme e cercare di capire “cosa c’era di nuovo in giro”. È vero, format davvero innovativi e originali, ground-breaking come dicono gli anglosassoni, è da un pezzo che se ne vedevano pochini. Ma ora le cose sono cambiate ulteriormente, non certo in meglio. Non solo perché di format ground-breaking non se ne vedono proprio più, nemmeno a cercarli con il lanternino, ma soprattutto perché i segnali in arrivo sono così contrastanti e antitetici che non è possibile nemmeno fare un bilancio, neppure teorico o parziale. Non solo: ad accrescere in misura maggiore il clima di incertezza e di poca chiarezza c’è il fatto che la discrepanza tra quello che gli operatori professionali (o almeno gran parte di essi) dicono pubblicamente e quello che poi effettivamente fanno è diventata generale, al limite della schizofrenia.
Ho provato allora a racchiudere la situazione in cinque dicotomie principali, che ne contengono al loro interno svariate altre, risultando in quell’opacità generale e diffusa che è la condizione tipica di questo periodo, riguardo cui il minimo che si possa dire è che si è persa completamente la bussola.
In presenza vs. online
Una prima contraddizione riguarda i mercati internazionali di contenuti in quanto tali. Nelle mail, nelle chat e nei social che si scambiavano gli operatori professionali fino qualche mese fa era tutto un “che bello, finalmente tra poco ci ritroveremo tutti quanti di persona dopo tanto tempo!”. Poi arriva il MipTv di aprile, quello che, nell’opinione comune, avrebbe dovuto dare il primo segnale di inversione di tendenza, e si scopre i partecipanti sono stati 4766, meno della metà di quelli degli anni pre-Covid. E non è tutto, perché quello che non è rivelato nel modo più assoluto è quanti di essi erano solo online. Con altri colleghi abbiamo provato a fare una stima, un po’ per gioco e un po’ per cercare di capire come stessero realmente le cose, e siamo giunti alla conclusione che al MipTv di Cannes del 2022 ci saranno stati, a spanne, tra i 2000 e 2500 visitatori al massimo. Proprio pochi.
Per quanto riguarda gli espositori, è andata pure peggio: gli stand erano praticamente tutti concentrati a Riviera 7, solo una delle moltissime aree del Palais, quest’anno desolatamente vuote, mentre nelle passate stagioni le loro postazioni eran talmente tante che molti erano costretti a migrare all’esterno, estendendosi per centinaia di metri lungo la Croisette. Per dare qualche cifra, rispetto agli oltre 2.000 stand di MipCom 2019, l’ultimo grande mercato pre-Covid (anche se il confronto tra i MipTv di primavera e i MipCom di autunno non è del tutto corretto) c’è stato un calo dell’80%: considerando che il prezzo base di uno stand era di 900€ al metro quadro (e gli stand dei bei tempi d’oro occupavano fior di metri quadri), si può facilmente calcolare il risparmio delle aziende e i conseguenti mancati guadagni degli organizzatori.
Insomma, è bello guardarsi negli occhi, stringersi le mani e bere qualcosa insieme, ma anche starsene comodamente seduti a casa propria, vendendo o comprando online, risparmiando pure un bel po’ di soldi di stand, ticket di ingresso, viaggio e annessi e connessi non è poi così male.
Originalità vs. già visto
A sentire i buyer dei grandi gruppi e a leggere le loro ispirate interviste sui magazine di settore, sono tutti all’entusiastica ricerca della perla nascosta, il format nuovo di zecca, fuori da ogni genere precostituito, destinato a diventare la “new big thing”, ormai sempre più simile alla leggendaria pietra filosofale. Poi però, a ben guardare, le cose che vanno in onda sono quasi tutte (tranne rare eccezioni, naturalmente) all’insegna del già visto. Imperversa sempre di più la pratica di puntare sui vecchi cavalli di battaglia (anche se molti assomigliano ormai a sfiancati ronzini), rinnovando all’infinito vecchie serie storiche. Nei palinsesti delle tv di tutto il mondo (e anche, a dirla tutta, nell’offerta unscripted delle piattaforme di streaming) si moltiplicano così i Titolo 8, 12, 15, 20, … dove a Titolo si può sostituire un format a piacere, riproposto incessantemente anno dopo anno.
È bello guardarsi negli occhi, stringersi le mani e bere qualcosa insieme, ma anche starsene comodamente seduti a casa propria, vendendo o comprando online, risparmiando pure un bel po’ di soldi di stand, ticket di ingresso, viaggio e annessi e connessi non è poi così male.
Ma anche se si guardano i programmi cosiddetti “originali”, non è che le cose vadano poi meglio. Mai come in questo periodo, infatti, è in voga la pratica, una volta individuato un filone di qualche interesse, di sfruttarlo con sistematica ostinazione, attraverso spin-off e cloni, del tutto fungibili. Facciamo solo un esempio, tra i tanti: i format sulle drag queen, fortunato trend inaugurato dallo storico Ru Paul’s Drag Race nel 2009, giunto in madrepatria alla 14esima edizione e localizzato in moltissimi paesi (l’ultimo in ordine di tempo è il Belgio, a cui seguirà a brevissimo la Svezia). Dal format “classico” sono stati, tanto per cominciare, ricavati un profluvio di spin-off: RuPaul’s Drag U, RuPaul’s Drag Race All Stars, RuPaul’s Drag Race: Untucked, RuPaul’s Secret Celebrity, RuPaul’s Drag Race Down Under, RuPaul’s Drag Race: UK Versus the World, e me ne sarò dimenticato sicuramente qualcuno. E non è tutto. I format “originali” che si ispirano più o meno esplicitamente a quel modello in giro per il mondo sono innumerevoli. Solo per citarne una manciata, si può ricordare l’israeliano Queens of Love, il tedesco The Diva in Me, l’olandese Make Up Your Mind, il canadese Sew Fierce, Generation Drag (Discovery+), e molti altri ancora.
In quest’ultimo periodo, la paura di tentare strade anche solo moderatamente nuove si è spinta perfino oltre. Se un format ha avuto successo in qualche parte del mondo (non un filone: un singolo format con uno specifico concept), sono sviluppati nel giro di pochissimi mesi altri prodotti che, più che simili, sono al limite del plagio. Per esempio, i dating show basati sull’incontro “dal vivo” di gente che prima di allora aveva avuto solo rapporti online hanno cominciato a sbocciare in poco tempo in tutta Europa, uno dopo l’altro, come fiorellini a primavera: Love in the Flesh di Bbc 3, Et Si On Se Rencontrait? di M6, Love IRL (“In Real Life”) di Vox, The Nevermets di Channel 4. Insomma, bello cercare (o far finta di cercare) la perla nascosta, ma puntare sull’usato sicuro (o ritenuto tale) alla fine è più semplice.
Sono tutti uguali vs. Alcuni sono più uguali degli altri
Un’altra dichiarazione d’intenti molto popolare tra i buyer e i mega manager dei grandi gruppi è che, quando devono giudicare un contenuto, non nutrono pregiudizi di sorta, né positivi né tantomeno negativi. Tutti sono uguali, davanti ai loro equanimi occhi: l’unica cosa che conta è che l’idea sia valida. Non ha importanza da dove arrivi, da quale autore – famosissimo o sconosciuto –, da quale casa di produzione – neonata o con una lunga storia alle spalle –, o da quale Paese del mondo. Tutti i nuovi progetti, indipendentemente dalla provenienza, sono messi sullo stesso piano, e tutti saranno giudicati solo ed esclusivamente sulla base della loro qualità ed efficacia intrinseca. Un autore che ha già firmato format di successo in ogni angolo del globo, che lavora per un’autorevolissima casa di produzione di una nazione con lunga tradizione di format alle spalle, ha la stessa probabilità di vedere accolto il suo format o paper format rispetto a un autore semi-debuttante di un’oscura prodco alla periferia dell’impero.
Almeno, così dicono: poi però, alla prova dei fatti, le cose sono un po’ diverse da quanto si racconta. Al momento di decidere su quale progetto puntare per un’eventuale messa in onda, alla fin della fiera la spunta (quasi) sempre chi è in grado di offrire rassicurazioni – soprattutto di ordine psicologico – maggiori. Ciò è comprensibile ed è in parte sempre avvenuto, per carità, è così che va il mondo. Ma nell’ultimo periodo questo atteggiamento, almeno nel caso dell’unscripted, ha assunto dimensioni inedite e abnormi, finendo per mettere in secondo piano o a oscurare ogni altro tipo di considerazione.
Un caso emblematico è quello della Corea. Sono bastati due format di successo (The Masked Singer e I Can See Your Voice, il primo e il quinto format che hanno avuto più localizzazioni in assoluto nel 2021) e l’abilissimo lavoro di marketing della Kocca (Korean Creative Content Agency), la potente organizzazione governativa che sovraintende, coordina, finanzia e promuove i prodotti audiovisivi locali, per donare ai contenuti di questa nazione un’aura quasi mistica. Un format, un paper format o una semplice idea, anche solo abbozzata, che proviene dalla Corea riceve immediatamente un’attenzione e un interesse (mi verrebbe da dire una venerazione) da parte dei buyer largamente superiori a quelle provenienti da ogni altra parte del mondo. E anche superiori, diciamo la verità, al valore intrinseco delle idee e dei progetti. Se è vero infatti che alcuni format coreani sono effettivamente ottimi (come i due casi citati), è però vero anche che ce ne sono molti altri di qualità media e ancor più francamente mediocri, per non dire peggio. Esattamente come in ogni altro Paese del mondo. Insomma, è vero che i format sono tutti uguali, ma è vero anche che alcuni format sono considerati – a prescindere – migliori degli altri.
Partnership vs. Acquisition
Legata in qualche modo ai punti precedenti è la strategia di espansione messa in atto dai grandi gruppi mediali. In questo caso la parola d’ordine, lanciata nelle riviste di settore o nei numerosissimi keynote e interventi vari che punteggiano i mercati è una e una sola: partnership. Noi – dicono con entusiasmo i grandi manager dei grandi gruppi – cerchiamo partner in giro per il mondo per co-produrre e lanciare progetti comuni, in uno spirito di aperta e paritaria collaborazione. Tutto molto fair e molto bello. Di fatto poi però i grandi gruppi internazionali entrano in rapporto con le piccole e medie realtà produttive, nella stragrande maggioranza dei casi, con una sola modalità: quella dell’acquisizione, facendo a gara a chi mette nel proprio carrello della spesa più prodco locali possibili.
Al momento di decidere su quale progetto puntare per un’eventuale messa in onda, alla fine della fiera la spunta (quasi) sempre chi è in grado di offrire rassicurazioni – soprattutto di ordine psicologico – maggiori. Ciò è comprensibile ed è in parte sempre avvenuto, per carità, è così che va il mondo. Ma nell’ultimo periodo questo atteggiamento, almeno per l’unscripted, ha assunto dimensioni inedite.
Se si va a vedere il catalogo di Banijay, il gruppo che ha acquistato di recente un altro colosso come EndemolShine (nato a sua volta, lo dice il nome, dalla fusione di Endemol e Shine), dando vita a Banijay Rights, e si fanno un po’ i conti, si scopre che sono proprietari di oltre 70 case di produzione, acquisite qua e là in tutto il mondo, da medio-piccole a medio-grandi fino a decisamente grandi, che si vanno naturalmente a sommare alle loro filiali dirette. Sul fronte opposto, l’altro gigante produttivo, Fremantle Media, solo lo scorso anno ha completato l’assorbimento di ben 12 case di produzione del nord Europa (Danimarca, Norvegia, Svezia e Finlandia), in un’unica gigantesca campagna acquisti, riunendole sotto l’etichetta di Fremantle Nordics. Insomma, la partnership è una gran bella cosa, ma vuoi mettere una pratica e comoda acquisizione diretta, che fa stare tutti quanti più sereni?
Metaverso vs. Realtà
E infine un’ultima dicotomia mi pare illustri bene quella schizofrenia e poca chiarezza di idee di cui si parlava all’inizio: il rapporto insieme di attrazione e repulsione verso le nuove tecnologie e piattaforme legate all’audiovisivo. Prendiamo il metaverso, di cui ora si fa un gran parlare, a proposito o spesso a sproposito. Anche qui, a sentire i discorsi degli operatori professionali, sembra che tutti facciano a gara a chi lo esplorerà per primo e meglio, in una sorta di nuova Eldorado (televisivo e non solo). Progetti audiovisivi ambientati o che si ispirano o che utilizzano in qualche modo il metaverso affollano le scrivanie dei decisori, che continuano a far sui magazine di settore magniloquenti proclami sul fatto che a breve assisteremo a novità strabilianti (ecco che ritorna il ground-breaking) che metteranno in soffitta tutta quanta la televisione come la conosciamo finora. Per ora però non solo non si è visto nulla di concreto in tal senso, ma la quasi totalità dei format più recenti mettono in scena la realtà più ordinaria e “terra-terra” possibile (e questo, intendiamoci, non è affatto detto che sia un difetto).
Il vincitore della categoria Best Multi-Platform Format degli International Format Awards (presentati sempre nell’ultimo MipTv), ovvero il programma che più di ogni altro dovrebbe celebrare la tecnologia e l’innovazione legate all’audiovisivo, è stato il belga The People’s Playlist, in cui l’unica forma di interattività e cross-medialità è costituita dal fatto – tenetevi forte – che gli utenti votano attraverso il sito ufficiale del programma le cinque migliori canzoni di un artista. Non molto meglio gli altri tre format finalisti, tutti caratterizzati da forme e sviluppi multimediali che potevano forse essere ritenuti innovativi vent’anni fa. Insomma, il metaverso è bello, ma non ci vivrei.
Possiamo allora fermarci qui, e concludere con la celebre massima proverbiale attribuita a Mao Tse Tung: “grande è la confusione sotto il cielo; la situazione è eccellente”. Aggiungendo che anche la confusione nei mercati dell’audiovisivo è ugualmente grande; ma che sia eccellente è tutto da vedere.
Axel Fiacco
Ha oltre vent'anni di esperienza nel campo dell’unscripted. Docente in vari corsi universitari, svolge attività di consulenza e formazione a case di produzione e broadcaster italiani ed esteri. Nel 2021 fonda Format Espresso, un hub creativo e distributivo specializzato in IP, creatività, co-produzioni internazionali e distribuzione. Tra le sue pubblicazioni: Unscripted Formats. Teoria e pratica dei programmi televisivi globali (2020). La sua Friday's Espresso è la newsletter professionale sui format più seguita.
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