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Immaginari

New Divas, le nuove pop star

Da giovani talenti a imprenditrici, attiviste, “regine”. Una fenomenologia delle nuove dive del pop femminile che hanno saputo dominare il mercato musicale trasformando il proprio talento in potere.

Esiste un’estetica precisa che inquadra un certo tipo di padri ultrasessantenni, i tanto vessati baby-boomer, che nei meme americani indossano scarpe New Balance e hanno una grande passione per i dad’s jokes. La loro versione italiana potremmo individuarla in quella fascia di professionisti con la cover band dei Pink Floyd, papà con la station wagon che amano ascoltare Hotel California degli Eagles e ogni tanto, a sorpresa, una compilation di sole voci femminili. Sono le protagoniste di album con nomi come “Divas, Whitney Houston, Aretha Franklin, Celine Dion, accompagnano i lunghi viaggi in macchina di insospettabili over-60 che si concedono un momento di romanticismo con performance di donne piene di talento. L’aspetto interessante di questo tipo di agglomerato musicale è che non esistono dei veri e propri corrispettivi maschili: succede che si mettano insieme per genere, per anni di attività, per provenienza, ma non esiste un Divos.

Da sempre, un po’ come per la letteratura o il cinema, le donne vengono raggruppate in macro-insiemi caratterizzati solo dal fatto di essere artisti appartenenti al genere femminile. E non si tratta solo di una distinzione fatta da baby-boomer con un approccio novecentesco alle categorie di genere, ma anche un movimento che parte dal basso, dai fandom, dalle comunità LGBQT+ che da sempre sostengono e alimentano questa sorta di universo a parte nella musica pop fatto solo di artiste, in competizione tra loro, amiche o nemiche, eterne o cancellate. Chi sono, dunque, le Divas di oggi, un canone che negli ultimi vent’anni si è allargato, cambiando velocemente caratteristiche e identità grazie a nuovi mezzi di comunicazione, produzione e distribuzione.

Non è il Mickey Mouse Club

“When gay boys turn 13 years old the universe assigns them one woman working in entertainment. From that point forward their purpose on earth becomes supporting this woman so hard that the force of their love could literally kill them”, scrive un utente su Twitter allegando una foto di Madonna. Raffaella Carrà, Barbra Streisand, Cher, e poi, chiaramente, Madonna, hanno in comune il fatto di essere cantanti pop di enorme successo, ma anche storiche icone gay. Il mondo della musica pop femminile, come sottolinea il tweet sopracitato, trova nella comunità gay un forte riscontro, elemento che contribuisce alla coesione di questo genere musicale, forte non solo della sua spettacolarità, ma anche di una sorta di spinta rivendicativa che sta alla sua base. Sin da quando esiste l’industria culturale il mondo LGBQT+ ha trovato nelle donne la sua manifestazione mainstream più solida, con un grado di esplicitezza nel rapporto sempre più forte man mano che la società occidenatle si apriva nei confronti della comunità. Dalla fine degli anni Novanta, questo legame si intensifica, perché a crescere è la produzione stessa di pop star femminili: dal Mickey Mouse Club, fucina dell’entertainment americano da cui vengono fuori nomi del calibro di Ryan Gosling e Justin Timberlake, nascono due stelle. Britney Spears e Christina Aguilera esordiscono entrambe nel 1999, … Baby One More Time la prima, mise da scolaretta e codini, Genie in a bottle la seconda, testo esplicito e parodia del video da parte dei Blink182.

Le donne del pop hanno ribaltato il senso stesso della loro presenza sul mercato musicale per diventare padrone dei loro destini, imprenditrici oltre che artiste. O almeno è quello che ci raccontano nelle loro biografie o sui loro account.

Negli anni Duemila, il pop femminile vive un periodo di grande proliferazione, con la conseguente nascita di un termine apparentemente dispregiativo ma che invece sottintende libertà e spregiudicatezza, il Puttanpop, crasi coniata dalla comunità gay che sottolinea la natura sexy e disinibita, a volte anche un po’ sfranta, delle artiste che solcano i palchi dei vari MTV Video Music Awards, come nell’edizione del 2003 passata alla storia per il bacio tra Madonna, Britney e Christina davanti a un pubblico sbigottito. Negli stessi anni esploderanno anche Katy Perry, con un esordio che ricalca il topos del bacio saffico, I kissed a girl and I liked it, cantava vestita da pin-up, Rihanna, dalle Barbados con furore, Beyoncé, fresca della separazione dalle Destiny’s Child, Gwen Stefani in versione solista che lancia frecciatine a Courtney Love, Lady Gaga, prima vera competitor di Madonna e la sua schiera di fan, i Little Monsters, Kesha, Shakira, e poi, chiaramente, Jennifer Lopez, anche lei con debutto musicale, dopo anni di cinema, nel 1999. Mettere tutte queste artiste nello stesso insieme può essere riduttivo rispetto alle differenze che hanno, sia come stile che per carriera. Eppure, costituiscono in qualche modo un gruppo compatto che ha definito l’estetica di un decennio non solo per il pubblico comune. Una sorta di Olimpo popolato da divinità che non potevano sbagliare. Alcune sono rimaste lassù, intoccabili, perfette, altre invece sono cadute rovinosamente.

Leave Britney Alone

Nel 2023 esce The woman in me, la biografia di Britney Spears. Preceduta da un documentario Netflix del 2021, Britney contro Spears, e da una valanga di contenuti sparsi sui social tra teorie del complotto e movimenti di liberazione, racconta le disavventure della star che, un po’ come una versione femminile di Elvis Presley, ha vissuto una vita sdoppiata tra la popolarità e il successo planetario e la prigionia contrattuale, in questo caso dettata dal padre. Ora Britney posta video piuttosto inquietanti che ricordano tristemente i fatti del 2007, quando cadde dal suo trono mostrandosi al mondo in tutta la sua disperazione – quando la regina era nuda, o meglio, pelata. Le reazioni dell’epoca furono spietate, se consideriamo anche uno dei primi contenuti virali di YouTube, il video Leave Britney Alone, che denunciava l’accanimento nei confronti della pop star. Oggi la narrazione del divismo musicale femminile è molto cambiata: se la Britney di vent’anni fa, così come qualsiasi sua altra collega, era una Ifigenia pronta a essere sacrificata in nome dello spettacolo, la Britney del presente è un esempio di forza e coraggio. Ma soprattutto, è una Britney con uno smartphone e un profilo Instagram da cui dire ciò che le passa per la testa, anche le cose più strambe. Libera dalle grinfie del padre, Britney può finalmente raccontare la sua versione dei fatti, trasformando la sua tragedia personale in un’occasione di empowerment.

Beyoncé ha costruito un impero sul suo essere queen, una sorta di esercito femminile che come in un villaggio di amazzoni rivendica la sua indipendenza, Who run the world? Girls, mentre Miley Cyrus ha fatto del suo stacco netto con il suo passato da ragazza Disney una sorta di performance lunga dieci anni. Tolti gli abiti della della dolce Hannah Montana, è salita a bordo di una palla demolitrice con un messaggio chiaro: sono talmente libera da poter cavalcare peni giganti sul palco. Oggi Miley è una trentenne che prosegue questo viaggio di emancipazione cantando al mondo che i fiori se li può comprare da sola, e se Mina rifiutava rose e violini, lei scrive il suo nome nella sabbia senza bisogno che sia un uomo a farlo. Rihanna, che esordiva minorenne con Pon de Replay, è forse tra quelle che hanno spinto di più sul pedale dell’emancipazione, non solo da un punto di vista di immagine ma anche professionale: abbandonata la forma fisica longilinea in linea con la tendenza anni Zero del suo esordio, rivendica la potenza del suo corpo formoso, fertile. Canta con il pancione e musicalmente si concede pochissimo – il suo ultimo album, Anti, è del 2016 –, ora che più che un’artista è un’imprenditrice di enorme successo con le sue linee di beauty e di intimo, Fenty. Ogni post di Rihanna è una sorta di evento, dalle campagne con Louis Vuitton alle copertine di coppia con ASAP Rocky. E non dimentichiamo che subito dopo Ronaldo e Messi, nella classifica degli account più seguiti al mondo, c’è un’altra star del pop femminile, anche lei nata dalla fucina di talenti Disney, Selena Gomez. Lontane dall’essere pedine nelle mani di agenti e produttori, le donne del pop hanno ribaltato il senso stesso della loro presenza sul mercato musicale per diventare padrone dei loro destini, imprenditrici oltre che artiste – o almeno, questo è quello che ci raccontano nelle loro biografie o sui loro account.

I’m sorry, the old Taylor can’t come to the phone

Nel 2009, Kanye West e Taylor Swift erano due persone diverse, anche se forse, durante quella famosa cerimonia degli MTV Video Music Awards, stavano inconsciamente mettendo in atto un’anteprima dei loro prossimi quindici anni sulle scene. Indignato per la vittoria di Taylor, Kanye sale sul palco e le ruba il microfono; Taylor rimane pietrificata, simile alla statua di cera che Kanye userà per il videoclip della sua canzone Famous. Quel seme di follia oggi è un albero di dichiarazioni antisemite e complottiste, mentre il ruolo di Taylor nel mondo è diventato quello della vittima – di Kanye, del suo produttore, degli hater – più potente che la musica pop femminile abbia mai visto. Taylor Swift ha trentaquattro anni e oltre a essere l’artista più ascoltata su Spotify nel mondo e la protagonista di teorie che la vogliono agente segreto del Pentagono, ha una carriera così estesa da poter mettere in piedi uno show, quello del suo Eras Tour, lungo tre ore, all’interno delle quali cambia costumi e canzoni in base alle epoche della sua produzione. Le persone si accampano per settimane fuori dagli stadi – a luglio 2024 farà una doppietta a San Siro, subito sold out –, l’economia di alcuni paesi si flette in base al suo passaggio, il documentario tratto dal tour è diventato il più visto della storia, superando Michael Jackson. In Italia, nella classifica di streaming del 2023, Taylor si colloca subito dopo Anna (Pepe), che si colloca a sua volta sotto diverse posizioni rispetto alla controparte maschile, ma questo è un discorso a parte sui consumi musicali del nostro Paese e sulla predominanza degli uomini in classifica – discorso non valido per Paolo Sorrentino, la sua canzone più ascoltata del 2023 è un remix di Cruel Summer. La ragazza country con la chitarra e i boccoli biondi è stata molte cose, la fidanzatina d’America – è famosa per il fatto di aver scritto decine di canzoni dedicate ai suoi ex –, la sprovveduta con un premio in mano, la Sad Girl Autumn della pandemia, la donna rinata che avverte tutti, “La vecchia Taylor non può rispondere al telefono, perché? Perché è morta”. Al di là dell’alternarsi di stili e di estetiche, una pratica di cui Madonna non può che essere maestra, e del successo mondiale che, per diversi aspetti, non ha precedenti, soprattutto nel rapporto diretto con i suoi fan, il cuore pulsante della politica swiftiana è l’autarchia.

Taylor Swift negli ultimi tre anni ha deciso di incidere da capo tutti i suoi dischi, marchiandoli con il sigillo di garanzia Taylor’s Version: la musica è mia e me la gestisco io, l’unica detentrice dei diritti diventa lei. “Power is power”, diceva Cersei Lannister, la perfida regina di Game of Thrones, lo sa bene Taylor Swift che fulmina con lo sguardo il comico Jo Koy ai Golden Globes per una battuta sbagliata su di lei e il suo nuovo fidanzato, il giocatore di football Travice Kelce, sancendo il suo fallimento sul palco. Niente è più empowering che avere pieno potere sulla propria vita, artistica o sentimentale che sia, soprattutto se l’ostacolo è un uomo, un produttore, un fidanzato sbagliato, un altro cantante.

New rules

Sappiamo cosa succede a Biancaneve. La regina, gelosa della bellezza acerba della principessa che canta con le colombe bianche, chiede al cacciatore di ucciderla dopo che lo specchio magico le ha dato conferma di non essere più la più bella del reame. La competizione femminile, specialmente quella legata all’età, è un sempreverde del gossip, attrae come una mela succulenta e gonfia di veleno. Si dice che la canzone Vampire di Olivia Rodrigo, pop star della scuderia Disney, ora cantante di fama mondiale, sia dedicata a Taylor Swift: “Bloodsucker, famefucker, bleeding me dry like a goddamn vampire”. La giovane star, cresciuta con la musica di Taylor Swift, che si trova inseguita nel bosco per essere fatta fuori dall’unica regina in carica possibile. Chiaramente, Olivia Rodrigo ha smentito queste dicerie sulla dedica nascosta, ma come diceva Andreotti, una smentita è una notizia data due volte. Classe 2003, riferimenti musicali rock e rimando alla moda GenZ del Y2K, Rodrigo è la prosecuzione consapevole e autodeterminata di quel filone disneyano di ragazze che passano dai musical televisivi ai palchi mondiali, con look aggressivo e attitudine sfidante, ma anche dolce e autoironica. Non è eccessivamente sexy e provocante, nell’esserlo ha uno stile scolaresco che la colloca in un universo da cartone animato, una Lizzie McGuire che ha ascoltato Beck e i White Stripes: è Avril Lavigne 2.0, più smart, meno macchietta.

Niente è più empowering che avere pieno potere sulla propria vita, artistica o sentimentale che sia, soprattutto se l’ostacolo è un uomo, un produttore, un fidanzato sbagliato, un altro cantante.

Dall’altro lato della barricata, Dua Lipa, altra popstar mondiale che, al contrario di Olivia Rodrigo e Taylor Swift, pone l’accento su una certa classicità del vecchio canone anni Zero Puttanpop, nei look che sceglie e nelle coreografie sul palco, alcune delle quali diventate virali. Guardando Dua Lipa si ha un po’ la sensazione di vedere tutte le Spice Girls condensate in una sola, grande performer, con le meches da Ginger, il piglio svogliato da Posh, il fisico atletico da Sporty, le tinte pastello di Baby e la sensualità di Scary, in altre parole, apoteosi di quel Girl Power che sottolinea la sensualità rivendicata, non più solo esibita, ma vero e proprio strumento di potere. “I got new rules, I count ‘em”, canta Dua Lipa, elencando tutte le ragioni per cui non dovresti rispondere al telefono a quel tizio che ti chiama solo perché è “drunk and alone”, nel suo manifesto di autonomia.

Imagination, Barbie is your creation

Non solo cantanti, le Divas sono anche profili Instagram da milioni di follower, ognuna con la sua strategia di comunicazione, dalle sparizioni annunciate e mai rispettate – è il caso di Selena Gomez – all’esposizione caotica, apparentemente senza strategia, come quella di Lana Del Rey, alla raccolta di consigli beauty, come fa invece Ariana Grande. Taylor Swift ha conquistato i suoi fan con Twitter e Tumblr e ora ne raccoglie di nuovi su TikTok, Dua Lipa costella il suo profilo Instagram di collaborazioni mirate, svuotando il feed per ricostruirlo in base alla fase estetica che sta vivendo, di recente quella Houdini, capelli rosso bordeaux, partnership con Puma. Il grande balzo in avanti per la carriera di un’artista pop passa anche, e soprattutto, dalla gestione della propria immagine e dal controllo quasi totale, a tratti maniacale, che se ne può fare grazie ai mezzi di comunicazione del presente: non c’è bisogno di un’intervista per annunciare un fidanzamento, né di un programma televisivo per apparire a reti unificate, e ciò che negli anni Zero era il successo di vendita di un profumo firmato Britney negli anni Venti diventano decine di collaborazioni commerciali, oltre che un megafono a portata di mano, anche per quanto riguarda cause civili da sposare – calibrate al millimetro come indagini di mercato, ovviamente.

Che le nuove Divas abbiano invertito il segno della loro presenza nell’industria, rivendicando autonomia e trasformando il mezzo di seduzione in strumento di potere, è indubbio; tra l’influencer, l’artista e l’attivista il passo è molto breve. Negli ultimi dieci anni specialmente, la tendenza è sempre più quella di una riappropriazione dei simboli che per lungo tempo hanno connotato negativamente l’estetica pop; pensiamo al caso eclatante di un film come Barbie, in cui la femminilità stereotipata diventa strumento di liberazione in un complesso giro di iconografie che si ribaltano nel racconto di formazione della protagonista. Che a questa rivincita delle Divas, non più donne oggetto ma donne padrone della loro immagine, oltre che della loro musica, in alcuni casi, corrisponda anche una reale emancipazione femminile sul campo del lavoro, non solo quello di pop star, è più complesso da dire. Il fatto che la musica sia spesso stata un termometro per i processi storici fa ben sperare, il modo in cui le Divas di oggi sembrano più CEO che artiste un po’ meno.


Alice Valeria Oliveri

Autrice e musicista, si è laureata alla Sapienza in anglistica con una tesi di teoria della letteratura. Scrive su diverse testate online di cinema, tv, serie televisive, musica e attualità. Ha collaborato con Dude Mag, VICE, Noisey, Motherboard, Prismo, The Towner e The Vision, dove è stata redattrice.

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