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Netflix? No, Fininvest!

Sotto il sole di Riccione è forse il caso più chiaro. Ma tutto il cinema di Netflix è la dimostrazione di corsi e ricorsi profondi nell’ecosistema mediale italiano. Che riportano alla Fininvest degli anni Ottanta.

Tutti – spettatori, studiosi, uomini di cinema e di tv – stiamo cercando di capire come sarà Netflix in Italia, un po’ come gli aruspici che tentavano di divinare le cose a venire studiando il volo degli uccelli o le interiora degli animali. Guardiamo, appunto, al futuro, perché ci pare naturale che si trovi lì tutto quanto riguarda Netflix e gli altri Ott. Anzi, quei player, ci diciamo e ci dicono, sono il futuro, perché introducono nuove forme di fruizione, nuove strategie di distribuzione, nuovi modi di produzione nel mercato audiovisivo. Ma è davvero così? Forse, sarebbe opportuno, o addirittura sensato, guardare al passato, almeno se si prova a inquadrare la politica di produzione cinematografica (e, almeno in parte, seriale) di Netflix in Italia. E, tra l’altro, a un passato non proprio prossimo, ma italianissimo, e con un nome e un cognome sorprendente. Procediamo con ordine e, quindi, dalla fine.

Ultimo arrivato tra i film original italiani della piattaforma è Sotto il sole di Riccione, un teen-movie estivo giocato su amori e avventure sentimentali sulla riviera romagnola di oggi, prodotto da Lucky Red con Netflix e co-sceneggiato da Enrico Vanzina. Proprio lui, quello, insieme al (compianto) fratello Carlo, di Sapore di mare, un classico della nostra commedia anni Ottanta, di enorme successo in sala all’epoca, e da allora rimasto nella memoria e nel cuore degli spettatori italiani, in virtù anche e soprattutto dei tanti passaggi tv sempre soddisfacenti. Ecco, guardando Sotto il sole di Riccione, non si può non pensare a un Sapore di mare 3.0. Non solo, ovviamente, per la firma vanziniana, ma per quell’innesco che oggi come allora va cercato in un mondo musicale: per Sapore di mare, che si ambientava negli anni Sessanta, le canzoni di Gino Paoli, Edoardo Vianello e innumerevoli altri, raccolte in una compilation revival da allora sempre con noi; per Sotto il sole di Riccione, la quasi omonima Riccione dei TheGiornalisti e da lì tutto l’it-pop dolce-amaro di Tommaso Paradiso, oltretutto presente in un cameo.

L’ombra lunga di Reteitalia

Ora, proprio quel film del 1983 e gli altri va(ca)nziniani che vi hanno fatto seguito (come Vacanze di Natale e Vacanze in America) sono stati negli anni Ottanta modelli importanti per la prima produzione cinematografica Mediaset (allora Fininvest), tutta organizzata sotto un marchio societario di famiglia allora molto importante, Reteitalia. Reteitalia era la società del mondo Fininvest che si occupava di produzioni tv e cinematografiche (e dell’acquisto dei diritti), quindi la via naturale per il primo network commerciale italiano per tentare l’assalto alla roccaforte del cinema, in un momento di cambiamento profondo e radicale dell’ecosistema mediale, dove a essere colpita in prima battuta era soprattutto l’industria di celluloide tradizionale nelle sue pratiche di produzione, distribuzione e di esercizio.

Allora, Fininvest/Reteitalia entrava nella produzione soprattutto attraverso una formula, quella della prevendita dei diritti d’antenna (cioè la tv finanziava in parte un film, acquistandone preventivamente il diritto di emissione sulle proprie reti), divenuta necessaria quando il vecchio sistema dei minimi garantiti anticipati dalla distribuzione si era ritrovato al collasso. Un po’ per colpa anche delle tv (private e non solo) medesime che, cominciando a offrire nei loro palinsesti sempre più film (l’acquisto delle library storiche e dei famigerati pacchetti di titoli, il primo passo nel rapporto di forza mutato della tv con il cinema), di fatto avevano fatto saltare quel circuito di sale di profondità che è sempre stato il polmone verde della nostra distribuzione. 

Per inciso, anche adesso è in corso una riconfigurazione del circuito cinematografico tradizionale, pur in presenza di una sequenza di finestre distributive e di accesso al prodotto film molto più articolata di allora, quando prima della tv e dopo il cinema c’era solo il nascente home video. Oggi Netflix (e non solo) distribuisce film, che in parte produce, bypassando la sala, salvo qualche uscita di prestigio per brevi periodi, proponendo un’offerta cinematografica esclusiva propria, molto limitata, almeno in Italia, ma destinata a crescere, anche solo per ottemperare alle nuove normative comunitarie e nazionali (dalla cosiddetta “legge Franceschini” n.220/2016 in poi). Quest’offerta è vista come il fumo negli occhi dall’esercizio (non solo) italiano, aprioristicamente contrario e antagonista nel rifiutare quei titoli quando offerti per un passaggio al cinema, secondo un principio che è anche fatto valere con puntiglio da un Festival come Cannes, finora chiuso alle pellicole non distribuite in sala (ma non Venezia).

Trent’anni fa, invece, Fininvest, con Reteitalia, aggredì da subito il sistema cinema italiano, secondo la strategia dell’uomo forte berlusconiano preposto alla sua conquista, Carlo Bernasconi (con il suo braccio esecutivo, Mario Spedaletti), fondata su una produzione a 360°, bulimica, invasiva, senza pregiudizi e preconcetti, interessata a occupare ogni spazio, plausibile (e non): soprattutto commedie, ultra-pop con i comici del momento (tutti o quasi: Villaggio, Banfi, Boldi, De Sica, Calà, Pozzetto) o quelli emergenti dalla tv (Italian Fast Food, direttamente da Drive In), spesso in tandem con Cecchi Gori, al femminile per signore borghesi (I miei primi 40 anni, Ti presento un’amica, Bye Bye baby) e teen (Sposerò Simon Le Bon, MakP100, i film sui ragazzi di oggi alla Jerry Calà, con Bonivento produttore, e persino un instant movie su Vasco, Ciao Ma’). Ma anche cinema d’autore più o meno giovane (Bianca di Nanni Moretti era un film Reteitalia, e pure Bellocchio, Montaldo, Ferreri, tutti sono passati di qui con almeno un titolo o più, e persino i maudit alla Kinski con Paganini) e generi all’italiana (gli horror di Avallone, Bava, Margheriti, Soavi, gli ultimi cascami del cinema d’azione d’imitazione hollywoodiana alla Luciano Martino o Gianfranco Couyoumdjian) e all’americana (tanti thriller più o meno platinati e glamour, come Pathos e Sotto il vestito niente 2, e persino Mamba, con Trudie Styler in Sting, e score di Moroder).

Sotto il sole di Riccione potrebbe essere un perfetto film che Fininvest (attraverso Reteitalia) avrebbe potuto fare trent’anni fa. Gli elementi ci sono tutti: la rielaborazione (g)local del genere adolescenziale e l’aggancio esibito con un mondo musicale di tendenza, un set-immaginario consolidato nel pubblico più pop, una galassia divistica ad altezza teen (chi viene da SKAM Italia, chi da La compagnia del cigno, chi da Baby), il radicamento nella tradizione del cinema italiano.

Resta il fatto, incontestabile, che, per quanto in un momento di complicato ricambio generazionale non certo indolore, oltre i mutamenti industriali citati, e nonostante la vera e propria guerra in corso tra i due media che aveva per oggetto le interruzioni pubblicitarie dei film in tv (“Non si interrompe un’emozione”, ricordate?), Fininvest guardasse moltissimo al cinema italiano dell’epoca, anche oltre l’idea di una politica di produzione per la sala, finalizzata al successivo passaggio sul piccolo schermo. Tra alti e bassi, Fininvest, nei film cui partecipava, ben lungi dal definire con chiarezza un house style Reteitalia, mandava però un messaggio chiaro agli spettatori, poi ribadito e rafforzato proprio dalla circolazione sugli schermi successiva di quei film: la prima tv privata che produceva cinema era all’epoca qualcosa di inedito e mai visto, rispetto all’elefante sclerotizzato della Rai e più ancora rispetto a certo cinema italiano incapace di rigenerarsi nel rapporto con i nuovi pubblici emergenti (anche e soprattutto televisivi). E in quella produzione, disordinata e incoerente, faceva intravedere e baluginare nuove estetiche, nuovi linguaggi, nuovi divismi, più al passo con i tempi, più contemporanei, più inseriti nella Zeitgeist dell’epoca.

E adesso l’on demand

Ora, i film Netflix Original – una categoria più scivolosa rispetto agli equivalenti seriali, difficile da maneggiare con precisione, persino da conteggiare – sono ancora poca cosa rispetto a quel centinaio abbondante di pellicole griffate Reteitalia realizzate nell’arco di pochi anni, grosso modo dal 1985 al 1989-1990. E, certo, Netflix gioca la sua partita, dal punto di vista dell’offerta, in maniera più decisa e aggressiva sul terreno limitrofo degli original seriali che, di fatto, con il cinema dialogano attraverso un sistema a vasi comunicanti. Dietro le serie italiane di Netflix, infatti, c’è (quasi) sempre un soggetto tradizionale della produzione cinematografica, ormai con dependance di tutto rispetto per la tv: Cattleya (Suburra, Summertime), Fandango (Luna nera), Indiana (Curon), Favola Pictures (Baby). La politica cinematografica di Netflix di oggi, anche se ancora probabilmente agli inizi, nei pochi film prodotti, più spesso partecipati (e, subito accanto, nelle serie tv), non presenta allora certe analogie innegabili con quanto faceva Reteitalia (e quindi Fininvest) nel cinema italiano degli anni Ottanta?

Come quest’ultima – ovviamente in modo riveduto, corretto e aggiornato e, a quanto si sussurra, con un controllo editoriale molto più intenso – annusa il profumo dei generi (le declinazioni crime de Lo spietato e Rimetti a noi i nostri debiti); insegue l’attualità cronachistica (il caso Cucchi in Sulla mia pelle, anche raro esempio di film di impegno civile del cinema italiano contemporaneo); saggia timidamente ipotesi di cinema d’autore meno elitarie possibile (L’uomo senza gravità e Ultras); ambisce a costruire nuovi divismi (Alessandro Borghi, tra film e serie tv, i divetti teen, più o meno recuperati da Mediaset e Rai Fiction per farne proprie esclusive); coopta nomi e griffe della commedia e del cinema popolare storici (ancora e sempre i Vanzina, già con Natale a 5 stelle); si balocca con l’idea di raccontare e intercettare i giovani di oggi (ora con qualche nuance leggera d’autore come in Ultras, ora con agganci con il loro mondo musicale come appunto Sotto il sole di Riccione).

Proprio Sotto il sole di Riccione potrebbe essere, mutatis mutandis, un perfetto film che Fininvest (attraverso Reteitalia) avrebbe potuto fare trent’anni fa: magari non tanto il prima citato Sposerò Simon Le Bon, piuttosto Ciao ma’, film teen che si abbarbica attorno a un concerto di Vasco Rossi a Roma (come qui c’è un concerto di Tommaso Paradiso a Riccione deus ex machina finale). Gli elementi ci sono tutti, oggi come allora: la rielaborazione (g)local del genere adolescenziale (anche tramite l’estetica da videoclip dei registi, gli YouNuts, director di fiducia dei vari Salmo, TheGiornalisti e così via) e l’aggancio esibito con un mondo musicale di tendenza (la main track della colonna sonora), un set-immaginario consolidato nel pubblico più pop (Riccione, la riviera romagnola), una galassia divistica ad altezza teen (chi viene da SKAM Italia, chi da La compagnia del cigno, chi da Baby), il radicamento nella tradizione del cinema italiano (la garanzia del marchio Vanzina, solo con valore simbolico ribaltato, oggi venerati maestri, non più giovani rampanti). Non stupisce, dunque, che il film, insieme ad altri Netflix, ricada in un accordo quadro proprio con Mediaset, che prevede il suo passaggio free futuro su quei canali dove, 30 anni fa, arrivavano, dopo un’uscita non sempre felice in sala, i film di famiglia prodotti tramite Reteitalia.

La politica cinematografica di Netflix di oggi, anche se ancora probabilmente agli inizi, nei pochi film prodotti, più spesso partecipati (e, subito accanto, nelle serie tv), non presenta allora certe analogie innegabili con quanto faceva Reteitalia (e quindi Fininvest) nel cinema italiano degli anni Ottanta?

Resta un ultimo punto in questo gioco delle analogie e dei rispecchiamenti e riguarda quello che può accadere dopo: Fininvest/Mediaset, allora, prima di spegnere produttivamente Reteitalia e cedere il passo a Penta (l’alleanza fifty-fifty tra Berlusconi e Cecchi Gori nella prima e unica major company italiana, di durata effimera, manco un lustro, tra 1989 e 1993) e poi alla “propria” Medusa Film, dal 1995/1996, provò a conquistare la distribuzione, acquistando la storica Medusa di Colajacono e Poccioni e altre sigle ancillari, e poi l’esercizio, cioè le sale. Visto che Sky, con Vision, ha da qualche tempo messo un piede nella distribuzione al cinema, sarebbe proprio così impensabile che Netflix cercasse anche una presenza cospicua in sala, ancora così importante per gli incassi dei film, e provasse a impadronirsi di quell’esercizio, che ora l’accusa continuamente (non solo in Italia) di volerlo demolire con lo streaming?


Rocco Moccagatta

Critico e studioso di cinema, televisione e new media, analista dei media e insegna Storia del cinema delle origini e classico e Modelli e scenari televisivi e crossmediali nazionali e internazionali presso l’Università IULM di Milano. Da sempre si occupa di generi popolari e di cinema italiano del passato e contemporaneo. Scrive o ha scritto su FilmTv, L’Officiel Homme, Duel/Duellanti, Segnocinema, Comunicazione politica8 ½ , Marla, Nocturno Cinema. Ha appena pubblicato un libro sul cinema dei fratelli Vanzina. È stato ribattezzato “Giancarlo Cianfrusaglie” da Maccio Capatonda e ne va orgoglioso.

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