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L’arte ingannevole del trailer

Spesso e volentieri il trailer ci inganna, facendoci ipotizzare un film molto diverso da quello che vedremo. Analisi di cinque casi emblematici degli ultimi tempi.

Se una prima idea dell’argomento del film – se così si può dire – riusciamo a farcela spesso grazie al trailer, cui si aggiungono (a colmare le eventuali lacune) il titolo, la locandina e la sinossi, e poi – naturalmente – al film che spetterà l’ultima parola. E qualche volta, nel passaggio tra il trailer e il film, la storia che sembrava in primo piano indietreggia e una seconda narrazione avanza, come in quei disegni-illusioni ottiche 3d dove, tra le maglie del tessuto, esce fuori all’improvviso qualcosa di completamente diverso, di inaspettato, di sorprendente, e magari più significativo e godibile, i cui contorni non erano neanche immaginabili. È il caso di un film che si suppone parli di qualcosa e invece finisce per parlare di altro. O di tutte e due le cose, magari di nessuna, o ancora dell’una e dell’altra in senso consequenziale.

Ma cosa intendiamo esattamente se ci domandiamo “di cosa parla un film?”. Ci si può – disinvoltamente, magari abusivamente – riferire a tre concetti, e a ognuno singolarmente a seconda dei casi. Qualche volta si tratta della semplice trama, qualche altra del tema, qualche altra ancora addirittura del “senso”. Ma una cosa è certa, se gira una voce chiara su un film vuol dire che abbiamo quasi sempre a che fare con una tematica (trama o senso) forte, individuabile in maniera precisa, preponderante rispetto al resto. Ciò non toglie che, una volta al cinema, possa poi sfuggire a ogni presa, o aspettativa che si era precedentemente formata. Un caso esemplare in questo senso è stato quello di The Dressmaker (Moorhouse, 2015). Dal trailer sembrava prevalentemente la storia di una donna che torna nel suo paese natio dopo aver passato anni di apprendistato come sarta o stilista nelle grandi capitali del mondo, invitandoci a un film divertente sulle rivoluzione dell’appariscenza gioiosa dei vestiti. Ma cosa succedeva nel film? La trama cambiava sostanzialmente aprendo al tema di una vendetta: il ritorno dell’eroe che ha subito un danno e ora vuole prendersi la sua rivincita. Il gioco, senz’altro riuscito, si annidava nello scarto tra trama e tema, che nascondeva a sua volta al suo interno dei sentieri insospettabili.

Limitatamente all’anno cinematografico appena trascorso, vengono in mente almeno cinque titoli importanti che presentano, chi in un modo e chi in un altro, una simile dinamica.

Lo scambio

Il primo è certamente The Square (Östlund, 2017). Il film è stato venduto, nel trailer, come una storia sul mondo dell’arte contemporanea. Di cosa ha invece parlato? L’epicentro artistico è scalzato a favore del subentrare di imprevedibilità apparentemente insignificanti, nelle quali un uomo (casualmente anche direttore di un museo di arte contemporanea) incappa. Un capovolgimento, un’inversione. Non c’è scena del trailer che mantenga nel film lo stesso valore. Nel testo promozionale, si delineano i presupposti della storia: una giornalista intervista il direttore di un museo, che sembra uscirne a pezzi in termini di immagine e reputazione. Il punto di vista del film pare coincidere con quello della donna, facendo in modo non solo che lo spettatore resti in attesa di un film sull’arte contemporanea ma, ancora più nello specifico, di un film che di questo mondo vuole essere una critica. La sottotraccia promessa è: ne vedrete delle belle. A completare il quadro si aggiungono le relazioni sentimentali del protagonista, che a quanto pare va a letto con donne di cui non ricorda neanche il nome.

Una volta al cinema però ci rendiamo conto che il film si presenta quasi come un’opera di decostruzione del trailer. Basterebbe solo parlare della scena della conferenza stampa che nel trailer ci sembrava consacrasse il primato assoluto di un direttore di un museo di vacua arte contemporanea che parla in pubblico: in verità sono dimissioni. A seguire, se nel trailer si manteneva il filo rosso di una breve relazione sentimentale, al cinema questa si esaurirà in poche scene, che il film, a conti fatti, non si prenderà neanche la briga di provare a riacchiappare in conclusione. “Io come mi chiamo?”, chiedeva la sventurata giornalista bionda a cui, nel trailer, corrispondeva un silenzio imbarazzato da parte del direttore (“che poco di buono”, abbiamo pensato). “Anne, ti chiami Anne”, le dice nel film subito dopo. E ha ragione, si chiama proprio Anne. Si chiama Anne e nel trailer contribuiva a una pista falsa, che nel film non porterà a nulla. Appena all’inizio, succede infatti qualcosa che diventa, in un meccanismo che ricorda quello di una dissolvenza incrociata, incredibilmente la vera trama portante, per quanto allo stesso tempo irrilevante, quasi stupida, più una scusa, un McGuffin al contrario, chiamata allo scopo di sorreggere tutte le gag più divertenti del film. Una trama a carico della quale sarà poi il tema (o forse anche senso) del film.

Nonostante tutto, il trailer è riuscito a portarci al cinema puntando su una tematica accattivante e facilmente identificabile, che faceva gola. Il décalage tra trailer e film ha dato luogo a una strana dinamica tensiva tra l’attesa di quello che abbiamo pensato dovesse arrivare e il momento in cui abbiamo realizzato che non sarebbe mai giunto. Nel frattempo un altro film, insensato e piacevole, si era insinuato e per buona parte anche già svolto sotto ai nostri occhi. Il suo lento sbocciare inaspettato ha irradiato un effetto positivo.

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Antipodi

Nel trailer de Il filo nascosto (Paul T. Anderson, 2017), invece, tra le scene più seducenti, c’è la cucitura di frasi segrete all’interno dei capi di abbigliamento da parte dello stilista. Ma si può dire a fine film che la storia ha avuto a che fare con uno stilista che nascondeva messaggi segreti nei vestiti di cui solo lui era a conoscenza? Non veramente, anche se è stato stuzzicante pensarlo, e immaginarne gli effetti sull’evoluzione della trama. Al punto da condurci al cinema, dove però la storia si sposta dall’altra parte dell’asse tematico individuato (il controllo), che riconduciamo facilmente al mondo della moda. Il trailer in effetti ci parla di uno stilista, un “creatore” ai limiti del maniacale che plasma il corpo di una giovane donna per i suoi scopi. C’è qualcuno che controlla e qualcuno che è controllato: “gli ho dato in cambio ciò che desidera di più, ogni singola parte di me”, dice a un certo punto la ragazza, presentata come sua modella feticcio, mentre lui le cuce addosso il suo “progetto”. La scena finale ci conferma l’ipotesi: “qualunque cosa tu abbia in mente di fare, falla con delicatezza”, conclude la donna. Anche se si percepisce un innegabile sostrato di morbosità, forse un’ambiguità nel personaggio di lei, che – è vero – non appare mai completamente vittima, i ruoli sono sommariamente definiti. In questo caso, il film, pur mantenendo fermo il baricentro tematico, porta con sé un ribaltamento a carico dei personaggi, uno scambio tra carnefice e vittima, che ha luogo per giunta non più in seno al mondo della moda (l’apoteosi della “cultura”), ma a quello dell’alimentazione e del cibo (la “natura” al suo estremo). Il tema insomma continua a essere il controllo sull’altro (o il fuori-controllo da se stessi), anche se i mezzi per ottenerlo cambiano, come i ruoli dei personaggi, rovesciando completamente presupposti e sensi. Con quali effetti sul film è tutto da vedere.

Se gira una voce chiara su un film vuol dire che abbiamo quasi sempre a che fare con una tematica forte, individuabile in maniera precisa, preponderante rispetto al resto. Ciò non toglie che, una volta al cinema, possa poi sfuggire a ogni presa, o aspettativa che si era precedentemente formata.

Nessuna delle due

Stando al trailer de La forma dell’acqua (Del Toro, 2017), si potrebbe dire che sono presenti fin dall’inizio, più che due trame vere e proprie, due configurazioni di fatti appena accennate: una prima che fa grosso modo capo al potere (politico?), forse a un generico sopruso, l’altra che sembra contenuta all’interno della precedente, un po’ strana, diremmo fantascientifica, che riguarda una non meglio specificata relazione tra una donna e un mostro marino che vive all’interno di una vasca (prigioniero?). Anche se in giro si è detto in effetti che si trattava di un film sulla storia d’amore tra un mostro marino e un’umana, se analizziamo il testo con attenzione ci rendiamo conto che al contrario è straordinariamente vago. Al posto di delineare con accuratezza i contorni di una storia, strabocca di domande: “cosa sta dicendo?”, “se sai qualcosa me lo devi dire”, “se sapete qualcosa su quello che è successo qui è vostro dovere denunciarlo”, e di nuovo “che cosa sta dicendo?”. Su quale curiosità da colmare decide allora di puntare il trailer? La scena clou dei due in piedi nel bagno che certificherebbe in via definitiva la liaison è qui chiaramente tagliata, al punto tale che non la si può né intuire, né di conseguenza desiderare di vedere il suo completamento, qualunque esso sia. Le sue tracce sono assenti nel trailer. Ma la domanda del resto è: ci sarà davvero questa storia (con gli opportuni crismi di costruzione tensiva, almeno cinematografici) nel film? E quell’altra, che riguarda il dominio del più forte, invece? È possibile che non ci siano mai completamente né l’una né l’altra, come nel trailer, così nel film, lasciando che i due testi aderiscano entrambi a una forma e un regime di indeterminatezza, e quindi finalmente di fedeltà reciproca?

Una è la causa dell’altra

Poi c’è L’albero del vicino (Sigurðsson, 2018). Finalmente un film che parla dei pessimi rapporti di vicinato, si direbbe dal trailer, dove si intravede chiaramente un’escalation di gravità a causa di un albero di delimitazione tra due proprietà: chi lo vuole tenere e chi lo vuole tagliare. Niente di tutto ciò, il film parlerà di repressione sessuale; più precisamente, il film sarà letteralmente percorso da quel tema. Repressione sessuale in ogni nucleo familiare, a tutti i livelli. Ma se gli unici che dai problemi di vicinato sembrano immuni sono anche i soli a mantenere una sana relazione sessuale, forse i due elementi sono intrecciati per diventare l’uno la conseguenza dell’altro. L’esca del trailer era quella del vicinato, ed era particolarmente vendibile. Trame leggere che nascondono tematiche più complesse.

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Quasi un colpo di scena

Quindi un ultimo caso, molto delicato e significativo, rappresentato da Dogman (Garrone, 2018). Il trailer ci arriva sotto forma di esca, ed emoziona. Ci riesce in un momento preciso, ed è quello dove la violenza su Marcello si raccorda allo sguardo impotente dei suoi adorati cani ingabbiati: non possono salvarlo (speriamo di sopravvivere alla commozione, una volta al cinema!). Ci piace, questo modellino di idiota dostoevskiano; ci piace perché ci parla del sentimento di profonda indignazione che proveremo di fronte all’abuso dell’innocenza. È così: Simone è un violento, e il suo impulso si abbatterà finanche sul suo caro amico Marcello, l’unico di cui si può fidare. Ma quello che veramente ci resta del trailer è Marcello che guarda attraverso le veneziane, con quegli occhioni, una professione colma di buoni sentimenti, il cagnone a cui Marcello fa il manicure. I cani, soprattutto i cani. Nonostante il breve accenno del trailer, abbiamo capito tutto.

E invece, saranno proprio i cani a tirare le cuoia per primi, alleggerendosi di quel peso di cui il trailer li aveva a loro insaputa caricati. Ivi compresa la scena che lì tanto ci aveva toccato. Come conseguenza, la stessa particolarità della professione di “dogman” perde di specificità. Prima infrazione del film a scapito della poesia del trailer: Marcello non è un incompreso solitario, ma è padre. È uno capace di amare, fare l’amore, riprodursi, stare con una donna. Marcello fa uso di cocaina, poi però è un tipo responsabile. Sa ricucire le ferite di arma da fuoco, porta la figlia a fare immersione, ha un’attività che funziona, con un negozietto ben piazzato e di tutto rispetto, affianco a quelli degli altri. Ma a un certo punto non sa più bene dove vuole andare. A cosa crede Marcello? Ai soldi? Ai cani? Alla figlia? A Simone? Alla fine, ai soldi. Ma davvero? A che servono i soldi a Marcello, quando ha i suoi cani?

Colui che dal trailer sembrava dotato di una sensibilità speciale non va in galera per salvare Simone, ma per arricchirsi una volta fuori, confidando nel bel gesto dell’amico pazzo. Sarà stato proprio l’anno di prigionia a incattivirlo, ma che cadesse sul denaro escogitando una vendetta ingenua e imperfetta, proprio non ce lo potevamo aspettare, da uno che entra in un appartamento saccheggiato dai compari per salvare il cagnolino messo in freezer. È vero quello che si è detto del film, che è un racconto fuori dagli schemi, che va a ogni passo in un’altra direzione rispetto a quella che si poteva immaginare. È imprevedibile come un videogioco violento, dove ogni schermata conduce a scenari successivi a sorpresa, dove quando ammazzi di botte qualcuno, questo poi, contro ogni legge di gravità, si rialza e ti viene a cercare. Vero. In tutt’altra direzione. Ma quale?

La parabola ricca di indeterminatezza di Marcello ci fa arrivare a pensare che non sappiamo da che parte stare, che conclusioni trarre, quando ci accorgiamo che il rapporto con Simone si rivela deludente, ed era proprio quello sui cui fin dal trailer avevamo puntato. Peccato. Aveva tutte le carte in regola per germogliare come quella relazione stereotipica che fino a un certo punto (tutto il trailer e buona parte del film) sembrava rappresentare. Ma Simone non è quel gigante buono che avrebbe potuto essere. Se niente è come sembrava, qual è allora la sintesi del film? Che cosa è che volevamo vedere? Più cani, una redenzione, una chiusura del cerchio almeno da qualche parte, di nuovo cani, e se non proprio “tutto che si tenesse”, almeno qualcosa. E se non accade, è sicuramente voluto.

I mille modi in cui trama e tema si escludono, si sovrappongono, si generano reciprocamente, si contengono in potenza, giochino bene o giochino male, comunque sia ci aiutano a capire di più i testi finali. Perché probabilmente questi non parlano mai di una sola storia, e questa duplicità minima è certamente un elemento che ha a che fare con il funzionamento archetipico della narrazione in generale, dove l’innesto tra due trame che si stuzzicano l’un l’altra traendo forza reciproca garantiscono la riuscita stessa del meccanismo di affabulazione. Parallelamente però, “di cosa parla un film” è sempre quello che in una parola, attivando un processo sintetico non mediato, ci viene più facilmente da individuare facendo un resoconto delle informazioni di cui disponiamo. E questo potrebbe essere il ragionamento che influenza le scelte del trailer (marketing, incassi), che dovrebbe però tenere conto (al fine di ben calibrarla) questa dinamica anche relativamente all’impatto complessivo sul film (giudizio).


Martina Federico

Dottore di ricerca in Scienze del Linguaggio e della Comunicazione, indirizzo semiotica del cinema, presso l'Università di Torino. Studiosa e analista di trailer, cura dal 2012 per la rivista cinematografica bimestrale Segnocinema la rubrica “SegnoFilmTrailer”, che prende avvio dalle ricerche legate alla tesi di laurea in Discipline Semiotiche presso l'Università di Bologna. È autrice di Trailer e film (2017).

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