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Nazionalpopolare

E qualcosa rimane…

In anni di globalizzazione e digitale, c’è ancora spazio per il caro, vecchio nazionalpopolare? Forse sì, perché tutti abbiamo bisogno di un immaginario condiviso.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 16 - Quel che resta del nazionalpopolare del 01 marzo 2014

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“Signore e signori… Allegria!”

Mike Bongiorno

Least objectionable programming. O, più semplicemente, LOP. È una legge che per anni ha innervato la televisione dei network americani e (in modo più o meno consapevole) pure quella delle reti generaliste italiane. Obiettivo? Fare un palinsesto e dei programmi che facciano sorgere il minor numero di obiezioni possibili agli spettatori, o che, ancora meglio, non lascino spazio a lamentele di sorta. Non il meglio, non il massimo. Piuttosto qualcosa che non dia fastidio a nessuno, che scorra via liscio nel flusso indistinto dei contenuti, che non spaventi con il nuovo, l’eccentrico, il diverso. Aurea mediocritas, o forse “tanto peggio, tanto meglio”. E tanto basti, per rivolgersi a tutti e a tutti insieme. La tradizione culturale americana è diversa, l’approccio è quello schiettamente commerciale e senza sovrastrutture di sorta, ma non siamo così lontani dall’idea italiana, e in parte europea, di nazionalpopolare. Cioè di qualcosa che conquisti tutti anche perché non incontra le resistenze di nessuno. E che proceda per accumulo, per sommatoria di elementi, non per esclusione. In quello spazio centrale nel sistema dei media che resta la televisione, così come in tutti gli ambiti della produzione culturale (che spesso e volentieri, in un modo o nell’altro, passano attraverso il nodo gordiano della tv).

Eppure, in anni recenti, questo sistema sembra perdere di potenza, economica e discorsiva. Molti canali e molte proposte, contenuti per tutti i gusti. Mentre l’elemento unificante e senza ostacoli arranca, resta indietro. Possiamo chiederci che fine ha fatto, cercarlo in giro, eppure rimane, nella sua forma completa o in tracce sparse e molteplici. Il nazionalpopolare vuole essere semplice, le cose sono complicate.

Il destino è nel nome

Basta scomporre la parola nei suoi due elementi costitutivi, per capire che qualcosa sembra sempre più girare a vuoto, o comunque costringere a un ripensamento profondo. Nazionalpopolare, cioè nazionale. Legato a una comunità (immaginata) che è insieme sociale, culturale e politica, a una lingua e al suo sviluppo che passa anche dai media (e in particolare dall’intrattenimento più innocuo e leggero), a confini precisi dai quali è difficile evadere ma che stabiliscono le condizioni di un incontro proficuo tra il pubblico e chi lo rappresenta. Chi conosce il nome di Mike Bongiorno, una volta passata Ventimiglia? Chi ha seguito, oltreoceano, la carriera di Fiorello dopo Il talento di Mr. Ripley? Chi ride con Alberto Sordi, chi ascolta Emma Marrone? Eccezioni, certo non masse: la televisione tutta intera, e gli altri media almeno in parte, scompaiono passata la dogana. Una connessione così forte con un particolare Paese, e con un sistema dei media e un’audience che si articolano su base in larga parte nazionale, finisce però oggi per andare nella direzione opposta di un mercato e un ambiente culturale e mediale che sempre più sono (o vogliono essere) globali. E così il nazionalpopolare perde terreno rispetto alla circolazione internazionale delle star e dei format, dei contenuti già pronti e delle idee da sviluppare. Si riveste di una patina di vecchio, come i mobili nella casa dei nonni, oggetti carichi di valore affettivo ma che mai vorremmo in casa. O almeno è quello che ci piace pensare. Perché in realtà il fenomeno è leggermente più complesso. Da un lato, perché lo scarto culturale conta, e per quanto possiamo volere, amare e consumare testi, canzoni e programmi di ogni tipo, a volte tutto ciò di cui abbiamo bisogno è qualcosa che parli a noi e solo a noi, che sia vicino al nostro quotidiano, ai luoghi, alle storie e alle abitudini che cementano la nostra comunità. Dall’altro, perché anche ai modelli e ai contenuti globali si può applicare una patina nazionalpopolare, che li reinterpreta e li rielabora, che aggiunge un surplus di valore e significati imprevisti: da Lascia o raddoppia a Dallas, passando per i successi editoriali e le canzoni più ascoltate in Italia che nei loro Paesi di origine. Globali sì, ma con giudizio.

Chi conosce il nome di Mike Bongiorno, una volta passata Ventimiglia? Chi ha seguito, oltreoceano, la carriera di Fiorello dopo Il talento di Mr. Ripley? Chi ride con Alberto Sordi, chi ascolta Emma Marrone? Eccezioni, certo non masse: la televisione tutta intera, e gli altri media almeno in parte, scompaiono passata la dogana.

Non basta. Nazionalpopolare, cioè popolare. Un volto, un libro, un disco, un programma che non si limita ad avere successo, ma lo ottiene presso un pubblico allargato, trasversale, “di massa”. Che è capace di parlare a tutti, senza escludere nessuno, magari offrendo una varietà di letture possibili e altrettante modalità di ingresso per un’audience ampia e indistinta. Così possiamo guardare un film di Checco Zalone o dei Soliti idioti ridendo dei personaggi, ridendo con i personaggi, o ancora ridendo di come questi personaggi in modo efficace mettano in scena stereotipi diffusi o ribaltino convenzioni sociali. Vale tutto, pur di giustificare la risata. Anche questo sembra andare controcorrente, in anni (o forse ormai decenni) in cui l’attenzione sembra progressivamente rivolgersi a élite di vario genere o a nicchie di gusto, sulla scia della frammentazione dei consumi mediali e della necessità dell’industria di spremere fino in fondo ogni anfratto di interesse e disinteresse culturale – in fondo, la vera ragion d’essere della coda lunga è monetizzare anche il decimo di percentuale. Il nazionalpopolare sembra diventare così meno interessante rispetto a ogni next big thing che si sgonfia ancora prima di essere cresciuta, a ogni vaga forma di hip e di cult, a ogni consumo culturale così distintivo da diventare (quasi) individuale: le offerte si frammentano in generi e sottogeneri, target e sottotarget, subculture e opinion leader. Quale spazio, in questo quadro, rimane per la massa?

Eppure, ancora una volta le cose sono più complicate di così. Da un lato, l’ambizione nemmeno troppo segreta di ogni nicchia, di ogni culto, di ogni indie, è quella di raggiungere la massa, di diventare mainstream, di vendere la propria anima alle case discografiche, alla tv generalista, al gruppo editoriale di punta, sacrificando magari la propria purezza dentro quel desiderio di essere come tutti descritto da Francesco Piccolo, ma guadagnandone in cambio visibilità e denaro. E dall’altro, la storia del privilegiare le nicchie e le comunità di gusto richiama la favola della volpe e dell’uva, perché l’ambizione – e, tocca sempre ricordarlo, la necessità, almeno se si vuole raggiungere una sostenibilità economica – resta quella di conquistare il grande pubblico, di sacrificare un po’ di complessità (vera o presunta) per poter dire qualcosa a tutti e a ciascuno. Insieme.

Complicazioni

Il nazionalpopolare ha subìto così, negli ultimi decenni, alcune forti spinte, apparentemente disgreganti ma in realtà composite, e persino contraddittorie. È nazionale, ma sempre più aperto e in dialogo con ciò che succede altrove. È popolare, ma anche attento a quelle nicchie e a quelle élite da cui potrebbe arrivare il prossimo successo. Un equilibrio precario, ma che tutto sommato tiene. A complicare ulteriormente lo scenario contemporaneo nazionale, si possono poi aggiungere altri caratteri che vanno a comporre una sorta di “specificità italiana”, di eccezionalità a volte persino esplicitamente ribadita.

Questo vale per i bacini a cui attinge il nazionalpopolare, che fanno spesso riferimento alla cultura popolare in senso pieno (quella che gli inglesi chiamano folk culture) e a tradizioni anche regionali lunghe almeno un secolo, molto più che a una popular culture consapevole dei linguaggi e delle possibilità mediali. Dall’aria d’opera alla canzone melodica, da De Amicis alla fiction consolatoria, dalla sagra di paese all’avanspettacolo e al varietà, le forme e i contenuti del nazionalpopolare italiano sono poggiati saldamente a un passato (remoto) che non passa, ma garantisce una presa più facile sul pubblico. Ogni tratto di novità non può prescindere da ciò che è già passato, ed è sedimentato in modo duraturo.

In parallelo, si può osservare in modo evidente – basta una rapida carrellata di quei nomi e quei volti che associamo subito al nazionalpopolare – come questa classicità, questa resistenza al cambiamento (fatte salve sporadiche eccezioni) trovi riscontro anche in una sorta di “blocco”, anagrafico, generazionale, dei protagonisti del nazionalpopolare. Altro che rottamazione: la macchina dei sogni si è inceppata, e a un pubblico che invecchia corrisponde così un invecchiamento progressivo anche del suo immaginario nazionalpopolare. Ma vale anche il reciproco: un sistema che propone costantemente volti che sembrano eterni, nonostante lo scorrere inesorabile del tempo e delle rughe, non può convincere se non un pubblico che sia altrettanto “bloccato” e nostalgico, che si consoli dalle amarezze del presente con il rimpianto dei bei tempi andati. E così le prime serate revival accumulano ascolti. Dalla musica alla televisione all’editoria, i fenomeni che totalizzano lo spazio immaginario restano gli stessi, immutati da decenni: da Celentano a Morandi, da Antonio Ricci a Fiorello, da Gerry Scotti alla De Filippi, da Roberto Benigni a Fabio Volo. Magari ripensandosi e “scavallando” da un medium all’altro, trasformandosi da cantanti in conduttori televisivi, da comici a registi, da inviati a scrittori, ma continuando a tenere stabile un presidio, in virtù di un successo che genera altro successo (o comunque garantisce uno “zoccolo” consistente), diventando profezia che si auto-adempie. Domanda retorica, e un po’ amara: quali sono i personaggi “nuovi”, giovani o comunque inediti, che negli anni Zero sono assurti allo status di nazionalpopolare e ne hanno ricavato un successo conseguente? Zalone, una manciata di cantanti usciti dai talent, forse qualche conduttore già Iena o veejay. Un po’ pochino.

Persistenza e direzioni inedite

Il nazionalpopolare è in crisi, viva il nazionalpopolare. Certo, le spinte disgreganti ci sono, e i media fanno sempre più fatica a contenerle (e a raggiungere i fasti di anche solo qualche anno fa). Certo, la macchina dell’immaginario italiano sembra essersi inceppata, e fare sempre più riferimento a modelli pigri e ad approcci ormai superati. Ma è anche vero che, nonostante la frammentazione e il non lineare, nonostante la personalizzazione dei consumi e la rivincita dell’indie, poche cose possono “funzionare” – sui singoli media, come attraverso i vari media – quanto il caro vecchio nazionalpopolare. Da un lato, resiste e persiste, cerca di mantenere saldo un fortino anche di fronte all’erosione del terreno intorno, si concentra su un pubblico già abituato ai suoi linguaggi e già fedele ai suoi personaggi, rinuncia a un po’ di centralità ma continua a tenere botta. Dall’altro, sia pure timidamente e con tutte le dovute cautele, tenta di trovare nuove strade e nuovi spazi, rideclina i suoi modelli per tenere conto di fruitori dai consumi ormai compositi e convergenti e di nuovi competitor, prova a giocare le sue (ultime?) carte. Insomma, non solo il nazionalpopolare è vivo e lotta insieme a noi, ma cerca pure di operare su due tavoli contemporaneamente, rassicurando i tradizionalisti e cercando di attrarre nuovi avventori.

Altro che rottamazione: la macchina dei sogni si è inceppata, e a un pubblico che invecchia corrisponde un invecchiamento progressivo anche del suo immaginario nazionalpopolare. Ma vale anche il reciproco: un sistema che propone costantemente volti che sembrano eterni non può convincere se non un pubblico che sia altrettanto “bloccato” e nostalgico.

E questo avviene per più ragioni, culturali ed economiche insieme. Di fronte a uno scenario mediale in continua evoluzione, con la moltiplicazione di offerte di ogni tipo, di titoli e di proposte, assume un valore inedito ciò che consente di trovare un appiglio, un orientamento: ed è proprio questo che, in fondo, offre il rassicurante nazionalpopolare, un approdo sicuro in cui ripararsi e da cui poi partire – tramite segnalazioni dirette o collegamenti indiretti – per altre navigazioni guidate dalla curiosità. E il potere di rimandare altrove è un altro tratto che rafforza il valore dell’idea (e dell’ambizione) di nazionalpopolare: l’overflow culturale e mediale mette a disposizione un numero di contenuti enorme, che rischia però di risultare inutile senza una guida, senza qualcosa che faccia scoprire il nuovo o il simile, procedendo per affinità, raccomandazioni, consigli e marchette. Di più, che si tratti di letture, di ascolti o di visioni, il nazionalpopolare è il solo dispositivo che garantisce una sincronizzazione della comunità, altrimenti frammentata nei mille rivoli dei consumi individuali: non solo fruire di un contenuto mediale, ma sapere che molti altri lo stanno facendo, e scatenare insieme al sottile piacere di fare parte di qualcosa di più grande anche quello del commento, della discussione, dell’ironia. Last but not least, poi, lo stretto legame – sovrapposizione imperfetta – che connette il nazionalpopolare e il successo “generalista” e di massa fa sì che le imprese mediali non smettano di cercare l’uno e l’altro insieme, il blockbuster capace di tenere insieme un ampio pubblico e così di dare sostenibilità economica all’operazione, in grado di partire da modelli consueti introducendo qualche scarto di innovazione e insieme di lasciare traccia positiva sia nell’immaginario sia nella contabilità. Sempre di imprese si tratta, e – checché ne dica Chris Anderson – non è detto che una massa di nicchie valga un successo di massa.

Il nazionalpopolare persiste, il nazionalpopolare (lentamente, con i tempi lunghi delle ere geologiche, della storia delle mentalità o delle abitudini) si ridefinisce. E così possiamo individuare alcuni tratti di base che valgono tutt’ora, attraverso i vari media, a tratteggiarne le regole. Non soltanto la capacità di rivolgersi a (e di convincere) masse di pubblico consistenti (in termini di libri venduti, di biglietti staccati, di canzoni scaricate, di share e ascolto medio, di views), ma anche la trasversalità rispetto ai target, alle variabili socio-economiche, ai livelli di istruzione e persino alle generazioni, reali o “percepite”. E poi la persistenza nell’immaginario, sia per il richiamo a modelli di riferimento divenuti classici sia per la capacità di lasciarvi traccia a futura memoria, diventando esso stesso classico e aprendo strade non battute che presto diventano maniera. La creazione di un discorso condiviso ampio, che passa per quei formidabili moltiplicatori che sono i media stessi ma parte dal passaparola (che solo garantisce settimane in sala e in onda, o airplay radiofonico) e arriva alle comunità dei social media; e, insieme, la sincronizzazione ai tempi sociali (“il contenuto giusto al momento giusto”) e quella dei tempi sociali (a creare un rituale, un’occasione imperdibile anche perché condivisa). Ancora, la presenza di una (pur piccola, e quasi inavvertita) componente di novità e di innovazione in un contesto conservatore: così da non spaventare nessuno con rotture radicali, ma anche da aggiungere quel plus di significato che giustifica una connessione più forte con il pubblico. Sono tanti ingredienti, cause e conseguenze, più che una formula da applicare in automatico. Mica facile, ma neppure impossibile.

Il bisogno costante di nazionalpopolare

Insomma, uno scenario difficile per il nazionalpopolare, ma pure denso di occasioni per ripensare il suo ruolo. Se la comunità immaginata del pubblico nazionale rischia di andare in frantumi, le occasioni di ritrovarsi uniti nel consumo culturale diventano ancora più preziose. Se un nuovo modello della circolazione mediale sembra prediligere legami deboli e rapporti individuali (o di piccoli gruppi) con i contenuti e gli immaginari, il ritorno al modello forte del successo, del generalismo e del broadcasting sarà più raro ma pure più potente. È quasi un cambio di paradigma. Se dovessimo disegnare una sorta di encefalogramma della produzione mediale, vedremmo forse meno punte, ma dall’intensità maggiore.

Da un lato, possiamo immaginare come un bisogno di certi contenuti unificanti e comunitari, nuovi e sempre uguali insieme, resti costante, fissi una quantità stabile nel tempo. Dall’altro, deduciamo che se il totale si frammenta in un minore numero di pezzi, ciascuno di essi avrà uno spazio più grande. E così, in questo incerto modello che stiamo provando a tracciare per tentativi, nello scenario contemporaneo i contenuti e i prodotti che raggiungono lo status nazionalpopolare saranno più rarefatti rispetto al passato, ma al tempo stesso avranno un impatto maggiore. Aumenta il differenziale tra la media dei contenuti correnti e i picchi di quelli che riescono a presidiare quel posto nell’immaginario. Risultato? Il nazionalpopolare diventa una risorsa da maneggiare con cura. Sempre più complessa da ipotizzare e costruire. Sempre sull’orlo di un possibile fallimento. Ma capace, talora, di esplodere improvvisamente. Di lasciare traccia, di catalizzare tutte le attenzioni, di diventare evento speciale (difficilmente ripetibile). In una scommessa sempre più radicale, in un’alchimia quasi impossibile da raggiungere ma, in caso di riuscita, capace di trasformare tutto ciò che tocca, e anche un po’ di ciò che sta intorno, in oro.

Non è più tempo del least objectionable programming, della cosa che ha successo perché spaventa di meno, del denominatore comune. Piuttosto, è il momento di una consapevole (e rischiosa) creazione di valore.


Luca Barra

Coordinatore editoriale di Link. Idee per la televisione. È professore ordinario presso l’Università di Bologna, dove insegna televisione e media. Ha scritto i libri Risate in scatola (2012), Palinsesto (2015), La sitcom (2020) e La programmazione televisiva (2022), oltre a numerosi saggi in volumi e riviste.

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