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L’eterno presente della contemporaneità

La pandemia ha messo in pratica una previsione di Marc Augé, che già dieci anni fa rifletteva sulla scomparsa del futuro, sul suo appiattimento in un tempo che non segue più la progressione classica.

Sono molte le cose che il Covid ha portato alla luce: a livello comportamentale, sociale e mediale. Ed è tutto da dibattere se l’estrema drammaticità della situazione abbia davvero sconvolto l’ordine naturale nell’evoluzione delle umane cose, o abbia semplicemente impresso loro una dolorosa accelerata. Anche le più forti rivoluzioni imposte dall’emergenza, infatti, spesso non sembrano altro che progressioni, magari un poco dispotiche, verso un mondo che sarebbe venuto comunque. E hanno ragione certi virologi, come Ilaria Capua, a ricordarci che, nell’arco di una quarantina d’anni, di pandemie se ne sono viste diverse. Solo erano lontane, e non hanno fatto a tempo a raggiungerci. Per cui, che la piramide dei bisogni di Maslow (ricordate? quella che partiva dal livello uno, sopravvivenza; al cinque, auto-realizzazione) fosse sul punto di ribaltarsi tornando al livello due (sicurezza, anche sanitaria) forse era già nell’aria da tempo. Certo: è un bello shock, durissimo da digerire.

Un altro shock viene dalla revisione del nostro rapporto con il tempo: un malessere particolarmente insidioso perché non si colloca solo nella dimensione personale e/o collettiva, ma mina proprio il rapporto fra queste due. E possiamo prendere a scusa per questa digressione l’ultima edizione di Che fine ha fatto il futuro? (Eleuthera, 2020), raccolta di saggi proposta in una primissima versione nel 2010, a opera di Marc Augé, antropologo francese già celebre per essersi occupato di spazi con il celeberrimo Non luoghi (1992). Stavolta si interroga sulla fine della linea temporale a favore di un eterno presente. 

Essere tempo

Non è cosa da poco. Il tempo è una dimensione individuale (tempo psicologico) che assume caratteri mutevoli a seconda del suo utilizzo: per esempio, nell’esperienza comune appare evidente come a seconda della quantità di eventi vissuti muti la percezione del suo fluire. Altra cosa è la dimensione sociale (il tempo cronologico), raffinatissima fra le invenzioni umane, che permette alla civiltà di muoversi e organizzarsi. La stanzialità della cosiddetta cultura (il cui etimo rimanda all’agri-coltura) ha come implicazione fondamentale la creazione di questo tempo oggettivo: da un lato connesso alla nascita della storia, dall’altro a quella del calendario. Una popolazione stanziale seppellisce i morti, ne fa oggetti di ricordo e culto, conserva le memorie permettendo la sedimentazione progressiva di informazioni sempre più evolute e complesse. C’è un memorabile episodio della serie a fumetti Martin Mystere, il detective dell’impossibile che viaggia fra i misteri della archeologia, lanciato da Bonelli negli anni Ottanta, in cui il protagonista è fermato da “uomini in nero” (che si oppongono alla divulgazione delle scoperte sulla paleo-scienza) mentre raggiunge la fonte della vita eterna: essa avrebbe scardinato l’ordine della storia. A questo punto viene qualche dubbio anche a Martin Mystere… A dire che la ciclicità della storia dettata dalla caducità della vita umana è sostanziale per l’evoluzione futura della specie. E già siamo dalle parti del tema centrale del libro di Augé: e se si ferma il futuro?

La centralità del tempo è ben presente anche a livello simbolico. L’orologio è sempre stato un oggetto da regalo consono a situazioni cruciali (riti di passaggio?) nella vita delle persone. Agende e calendari ancora ce li propinano, alla fine dell’anno, anche se il telefonino ne ha ormai assorbito tutte le funzioni, incarnando la nostra disinvoltura comportamentale nei confronti di una temporalità sempre più legata all’istante, che sfocia nel non porre più distinzione fra momenti pubblici e momenti privati.

La centralità della misurazione del tempo è essenziale nello sviluppo della civiltà umana. Serve a calcolare le stagioni, a decidere quando si semina, si raccoglie, si pota, si stiva. Quindi: a costruire la macchina agricolo-tecnico-scientifico-sociale. Guarda un po’, il nostro calendario astrologico (che oggi riteniamo una sorta di buffa superstizione) inizia dal solstizio di primavera e va avanti individuano le stagioni in base alla posizione del sole (dettagliando mese per mese con le costellazioni). È il nostro calendario vero, quello agricolo, che ci terrebbe ancora in contatto con la natura; poi violato bellamente dalla consueta impennata concettuale, tipica della necessità di dimostrare il dominio dell’uomo sulla natura, con l’introduzione di quello attuale da parte di papa Gregorio XII nel 1582. 

Il calendario, come la religione o l’apparato giuridico, è guarda caso uno dei principali strumenti di sottomissione politica ed economica. Lo fu per le civiltà centro e sudamericane, con il dominio spagnolo e portoghese. In Giappone fu introdotto nel 1870, a fronte della apertura al commercio suggerita dalla presidenza statunitense con le cosiddette “navi nere” del Commodoro Perry, armate di tutto punto alle porte della baia di Tokyo nel 1853. In Unione Sovietica lo introdusse nel 1918 Lenin, uomo di larghe vedute (poi tristemente tradite), che nella sua logica di modernizzazione dell’ex Russia da un lato alfabetizzò le masse e portò gli artisti in fabbrica (o quasi); ma dall’altro adottò lo strumento che gli permise di dialogare commercialmente con il mondo e di partecipare alle fiere internazionali con stand rivoluzionari (esteticamente). La centralità del tempo è ben presente anche a livello simbolico. L’orologio è sempre stato un oggetto da regalo consono a situazioni cruciali (riti di passaggio?) nella vita delle persone. Agende e calendari ancora ce li propinano, alla fine dell’anno, anche se il telefonino ne ha ormai assorbito tutte le funzioni, incarnando la nostra disinvoltura comportamentale nei confronti di una temporalità sempre più legata all’istante, che sfocia in indifferenza e trasandatezza; per esempio, nel non porre più distinzione fra momenti pubblici e momenti privati.

Tempo critico

Sono criticità lungamente latenti, legate a una sorta di relatività applicata: si scusi l’eccessiva semplificazione, ma quella di Einstein sembra non esserci stata chiara finché non ci siamo circondati di strumenti che accelerano enormemente le dinamiche dei feedback quotidiani, e che viaggiano sulla soglia dell’ormai dimenticato (come definizione, tanto è diventata pratica quotidiana) “tempo reale”. Eccoci di nuovo alle soglie dell’eterno presente scandagliato da Augé. Con un problema anch’esso già da tempo latente, di cui la pandemia non dimentica di presentarci il conto: questo sistema accelerato è legato a ritmi transitori, dal punto di vista lavorativo, comportamentale, mediale, residenziale… che però devono interagire non solo con le temporalità dilatate della formazione della personalità umana, ma con la sostanziale rigidità di un sistema sociale ancora tayloristico, della produzione industriale, spalmato geometricamente sull’asse passato-presente-futuro. Quello che ci spiega fin da piccoli le certezze deterministiche di una scienza che si basa invece sul principio di indeterminazione. 

Il Covid ha dunque reso evidente questa contraddizione: se vediamo bene come la macchina della società mal si adatti ai continui mutamenti di indirizzo imposti dalle ondate pandemiche, costringendoci a navigare a vista in attesa di un Dpcm, non sarà né facile né immediato misurare gli scompensi determinati dall’impossibilità di costruirsi invece agende personali ordinate. Perché siamo alle prese non solo con costrizioni di spazio, ma anche, appunto, di tempo. E così, magari si sta prospettando davvero un “non tempo”, lo dice ovviamente Augé, che frena la proiezione sul futuro e rende massiccia la presenza del passato. Schiacciandoci quindi in un eterno presente, che brucia valori, messaggi, contenuti nell’immediato. Così, i boomer non possono guardare Achille Lauro senza pensare a Bowie, magari dimenticando che Lauro è qui, ora, a Sanremo (non a Berlino negli anni Settanta). E le varie generazioni di millennial sono alle prese con un presente che congela l’adolescenza (quella a cui d’altronde i loro padri ritornano nelle auto-celebrazioni giovanili su Facebook), un po’ come le subculture giapponesi Kawaii negli anni Ottanta palesavano la difficoltà del passaggio a una età adulta, fino al comportamento decisamente a-relazionale adottato da quegli hikikomori che si chiudono in camera senza più uscirne. Sul piano mediale, gli idol del J-pop e del K-pop hanno invaso l’estremo Oriente con un’iconografia adolescenziale congelata, scintillante e patinata, protagonista dell’immaginario commerciale in ogni settore possibile, dalla cosmesi alle auto alle banche: quindi, quelli “maturi” compresi. D’altra parte, “no future” cantavano i Sex Pistols nel 1977 nel loro inno di battaglia God Save the Queen. La frattura del modello industriale inglese di allora (siamo sotto la Thatcher), inutilmente ravvivata da seguenti pay-off accattivanti (la Cool Britannia di Tony Blair) trova la sua espressione nella Brexit di oggi: una sorta di inversione dei meccanismi politico-economici di positivista memoria. 

Con la pandemia, siamo alle prese non solo con costrizioni di spazio, ma anche, appunto, di tempo. E così, magari si sta prospettando davvero un “non tempo”, lo dice ovviamente Augé, che frena la proiezione sul futuro e rende massiccia la presenza del passato. Schiacciandoci quindi in un eterno presente, che brucia valori, messaggi, contenuti nell’immediato.

No future

Se la storia si ferma, nel suo asse lineare verso il futuro, la società si disgrega. È quanto suggerisce un bellissimo romanzo di fantascienza del 2018 scritto da Cixin Liu, unico autore asiatico a vincere il premio Hugo, il più prestigioso riconoscimento internazionale per il migliore romanzo. Forse, se vogliamo cercare scenari futuri, è meglio che guardiamo a Cina, Corea, Giappone (e perché no, Thailandia, Malesia, Indonesia). La materia del cosmo, traduzione in italiano di The Dark Forest, è il secondo capitolo di una saga che racconta la prospettata invasione della Terra da parte di una avanzatissima civiltà aliena, distante anni luce, scatenata da un “incidente di percorso” negli ultimi decenni del XX secolo. Dovendo aspettare qualche centinaio di anni la sicura sconfitta, il mondo si trova a essere senza futuro. E quindi… impazzisce. Ora: Cixin Liu, nella seconda parte del libro, se la cava in maniera, a nostro modesto avviso, brillante ma anche ironica, rispolverando qualche topos della fantascienza classica e dell’immaginario mediale occidentale (l’eroe solitario). Ma è certo che, nella precisione della sua scrittura e della sua messa in scena, la varietà di effetti, individuali e collettivi, derivata da questa perdita di futuro appare comunque inquietante.

Non è un caso, di nuovo, che a intuire questo scenario sia un autore orientale: figlio di una cultura in cui il rapporto fra individuo, società e natura è ben diverso da quello occidentale. È lo stesso problema che rileva Augé, facendo riferimento a culture centroafricane in cui molti aspetti individuali (anche la malattia, per dire) diventano elemento sociale. E ci pone un problema: può una società basata sulla stabilità evolutiva del concetto di tempo trasformarsi davvero in una società transitoria? Probabilmente, troveremo un suggerimento in qualche altro volume di fantascienza. Magari, stavolta, coreano.


Carlo Branzaglia

Si occupa di design education e design strategico. Insegna all’Accademia di Belle Arti di Bologna. È coordinatore scientifico della Scuola Postgraduate dell’Istituto Europeo di Design di Milano. Siede nel Consiglio di Amministrazione della Fondazione ADI Collezione Compasso d’Oro e nel Comitato Scientifico della Fondazione Cirulli.

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