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Le serie tv che hanno combattuto Trump, e il loro apice con The Boys

Nei giorni delle elezioni americane, è utile fare il punto su come i quattro anni appena passati hanno avuto un impatto profondo sulle narrazioni seriali. Guardando anche ai meccanismi del potere.

Il massimo del potere nelle mani dell’ultima persona che dovrebbe averlo. Non c’è cosa più spaventosa.

Il fumetto The Boys parte nel 2006, la serie televisiva nel 2019. Entrambi da subito hanno nel mirino il mondo dei supereroi: il primo parla in realtà di fumetti, il secondo dei cinefumetti. Il punto, per gran parte del racconto, è lo stesso per tutti e due: demolire il segno del supereroe. I Sette, il gruppo di super al centro della storia, è pensato come la Justice League o gli Avengers, con all’interno esempi che rimandino ai personaggi più noti. Qualcuno come Wonder Woman, qualcuno come Flash, qualcuno come Aquaman, e soprattutto qualcuno che sia un misto tra Superman e Capitan America, il massimo del rassicurante: la bandiera come mantello, il sorriso da modello, l’apparenza aitante, i capelli biondi e i poteri talmente al di là di quelli dei suoi simili da paragonarlo a un dio.

Il lato oscuro dei supereroi

Patriota (per l’appunto il supereroe più super, bello e poster boy, tutto squarejaw, ricalcato su Superman e Capitan America) è il villain indiscusso delle prima stagione di The Boys, il cui stesso fine è la maniera in cui la serie riesce a creare un’aura di pericolo e terrore intorno alla sua immagine. Il modo in cui rivolta tutti i segni classici dell’eroe in figure del terrore: la partenza a razzo, l’arrivo delicato, l’essere presente quando le vite di tutti sono a rischio, i buoni valori di cui parla, e poi ancora l’essere preso a esempio. Il modo in cui riesce a prendere la tipica divisa (tuta, stivali, mantello) e darle i connotati di brutalità delle divise naziste, non più un capo d’abbigliamento ma simbolo di male. E infine la deviazione di ogni tratto caratteristico dell’eroismo nella direzione del terrore e della morte invece che della salvezza e della rassicurazione.

C’è un’intera industria del cinema e della televisione che prospera sulla creazione di una mitologia eroica e di un universo fantastico che ammorbidiscano e smussino qualsiasi spunto interessante che i fumetti e poi i cinefumetti potrebbero veicolare tramite quelle figure. Per questo The Boys inventa un gruppo di umani normalissimi che decidono non solo di esporre al mondo le bugie, lo squallore e la meschinità che c’è nei supereroi, distruggendo il loro mito e liberandoci dal pensiero unico e dalle immagini candide, ma che vogliono proprio ucciderli tutti, uno per uno. In tal senso è indispensabile l’efferatezza gore messa in campo: bisogna arrabbiarsi e spaventarsi per la violenza dei super e godere di quella che subiscono, come in un B movie. Questa era già un’operazione sofisticata, metatestuale e molto conscia del lavoro sul proprio mezzo d’espressione (faceva poi sorridere che la serie andasse su Prime Video, player al momento esterno ai giochi di supereroismo convenzionale di Warner e Disney ma anche di Netflix, come se volesse attaccarli, pur essendo fatto della stessa pasta). Tuttavia nella seconda stagione The Boys ha fatto un ulteriore salto, ha scartato dal fumetto e cambiato argomento.

Un rilancio politico

Terminato il ribaltamento dei segni del mondo dei (cine)fumetti, compreso il fatto che solitamente e con tutte le dovute eccezioni, se in quelle storie c’è qualcuno senza poteri tende a essere il villain che desidera essere all’altezza degli eroi (Lex Luthor, Kingpin, Teschio Rosso, Destino) mentre quelli con i poteri tendono a essere i buoni, la serie ha cominciato a forgiare una storia autonoma. Ha modificato un personaggio dei fumetti, Stormfront, per renderlo il villain principale della stagione, facendo slittare Patriota in uno slot di “vittima” e quindi più vicino a noi, per dire qualcosa di più sul Paese e sul momento in cui va in onda. Per diventare una serie sul massimo del potere nella figura meno adatta a gestirlo, sulle tecniche di mantenimento e consolidamento del potere e sulle sue vere finalità. Già dalla prima stagione i super ingannano l’opinione pubblica, ma nella seconda generano odio tramite i social, si organizzano per spargere notizie false, e in modo quasi didascalico fanno fuori i loro nemici prima di tutto mediaticamente, uccidendo la loro immagine con meme offensivi senza nessuna base reale.

Patriota (per l’appunto il supereroe più super, bello e poster boy, tutto squarejaw, ricalcato su Superman e Capitan America) è il villain indiscusso delle prima stagione di The Boys, il cui stesso fine è la maniera in cui la serie riesce a creare un’aura di pericolo e terrore intorno alla sua immagine.

The Boys allora è la miglior rappresentazione di quello che la presidenza Trump ha cambiato negli Stati Uniti di questi anni, di cosa abbia introdotto nel dibattito pubblico e di quali lati dell’opinione pubblica abbia titillato. Perché anche il pubblico, la massa, le persone i cui giudizi tramite social influenzano le avventure e lo scontro tra super e non-super sono una parte in questione della serie. Quando Stormfront minaccia Patriota, gli dice chiaramente di avere dalla sua un esercito di follower che retwittano e amplificano i suoi messaggi, distruggendo carriere e reputazioni. Gli americani di The Boys vogliono anche loro i poteri. È la proposta assurda, impossibile e anche dannosa per loro stessi che il fronte dei super vuole imporre, una strategia senza senso fatta di promesse potenti che se realizzate porterebbero a conseguenze distruttive per tutti, tranne per chi regnerebbe su quel paese diventato imprevedibile. Il potere fine a se stesso, la cui conquista non coincide con il benessere nazionale, capace di creare terroristi per potersi ergere a paladini contro di essi.

Il mondo seriale contro Trump

Ovviamente The Boys non è la prima serie che abbiamo visto nei quattro anni di Trump a rispecchiare o comunque suonare in armonia con gli eventi reali. Ha il beneficio di essere stata concepita durante la presidenza Trump (almeno la seconda stagione), ma soprattutto ha l’intelligenza di trovare il punto migliore da cui sollevare il tema. Le altre, anche eccezionali, hanno fatto un lavoro più generico. Senza stare a contare quelle che hanno proprio messo in scena la realtà (risultando come sempre molto più fasulle e artefatte delle serie di fantasia) come The Comey Rule, tante altre serie avevano cercato di suonare in armonia con i temi cruciali venuti a galla dal 2016. Ogni volta però l’impressione è che, come spesso avviene, puntassero un dito contro istituzioni o movimenti particolari, senza occuparsi mai delle ricadute sulla popolazione americana, sulle sue frange più sensibili, spaventate, disperate e infiammate.

The Handmaid’s Tale, partita nel 2017 e basata su un romanzo del 1985 omonimo che in America è un classico, metteva al centro del discorso il modo in cui lo stato vessi le donne, le marginalizzi e le sottometta a una dittatura patriarcale. E lo faceva quando era in discussione “Grab ‘em by the pussy”, e nell’anno della messa in accusa di Harvey Weinstein. Faceva un discorso sul patriarcato americano a partire dallo stato e solo poi dalle persone, per mostrare un’America finta in cui è istituzionalizzato un atteggiamento che nella realtà è solo intercettato. Puntava il dito sulle istituzioni, non sulle persone. Succession (partita nel 2018) mette in scena una famiglia ricchissima, di veri magnati, che lottano al loro interno per una difficile successione, con quattro figli che non riescono ad allearsi per buttare giù un padre che non vuole mollare le redini, li umilia e li ritiene meno di zero. È una società e un’azienda simil-Fox, un mondo molto conservatore, fatto di idioti (almeno due figli) e viziati con aspirazioni (gli altri due), esattamente quel tipo di brodo culturale in cui nasce, prospera ed è promosso un candidato come Trump. È la risposta alla domanda: “Ma chi c’è dietro questi network? Qual è il mondo che appoggia Trump e perché lo fa?”, e di nuovo racconta l’élite.

Watchmen (nel 2019) addirittura rivedeva tutta una parte di storia americana (come il fumetto che intendeva continuare) alla luce del razzismo, partendo da eventi reali come il massacro di Tulsa, per fare puro afrofuturismo, immaginare un mondo diverso a partire dal corpo nero, qui unica figura potentissima equiparata a Dio. Watchmen saltellava tra razzismo e forze dell’ordine, giustizieri fascisti, Ku Klux Klan e l’eredità pesantissima che lega la polizia americana al suprematismo bianco, in anni in cui questi movimenti sono stati blanditi e tollerati come forse non capitava dagli anni Cinquanta (quando se non altro ciò avveniva a livello statale e non federale). Anche Il complotto contro l’America, un altro adattamento di romanzo (omonimo pure questo, ma di Philip Roth), quest’anno faceva fantastoria e fantapolitica, immaginando di nuovo che nel passato l’America avesse una svolta fascista. Influenzata dalle teorie naziste, che notoriamente non erano schifate negli anni Venti e Trenta americani, con a capo Charles Lindbergh, l’America diventava l’opposto della terra degli uomini liberi ma un luogo di persecuzione di minoranze e dissidenti nonché di terrore per l’autorità costituita. La polizia, lo stato e l’amministrazione sono qualcosa di cui avere paura, un cambio al governo può cambiare tutto per le singole persone, o almeno per chi non è uomo, bianco, cristiano e benestante.

Già dalla prima stagione i super ingannano l’opinione pubblica, ma nella seconda generano odio tramite i social, si organizzano per spargere notizie false, e in modo quasi didascalico fanno fuori i loro nemici prima di tutto mediaticamente, uccidendo la loro immagine con meme offensivi.

E ancora, se Mrs. America (quest’anno) mostrava in modo abbastanza diretta la psicologia di chi soffia sul fuoco di Trump, di chi rema contro tutto quello che i progressisti vogliono cambiare, ma sempre da un luogo di potere, Chernobyl nel 2019 parlava della Russia sovietica e di una storia vera ma risultava stranamente vicina (sempre per iperbole) alle notizie provenienti dagli Stati Uniti. Era comunque la storia di uno stato che vive di menzogne, totalmente inaffidabile, la cui immagine è più importante del benessere delle persone, pronto a passare sopra ad ogni cosa per non ammettere un errore. Come se mostrasse la fine di un percorso il cui inizio sembrano gli atteggiamenti di Trump, puntava sul terrore di essere in mano a qualcuno che ha più a cuore la propria sopravvivenza che quella dei cittadini (e ancora più in tono suona Chernobyl da quando si è visto come l’attuale amministrazione statunitense ha gestito l’emergenza epidemiologica più grave degli ultimi 100 anni).

La forza di The Boys

Tutte queste serie, volendo o non volendo rappresentare i temi che girano intorno alla presidenza Trump, si sono mosse su un sentiero non diverso da quello lungo cui si era mossa la produzione culturale italiana negli anni clou della presidenza Berlusconi, attaccando direttamente il potere e non guardando mai o quasi alle persone che lo sostengono. Puntando il dito sul potere e non sulle persone. Come diceva un adagio gaberiano, spesso ripetuto in quegli anni: Berlusconi in sé e non il Berlusconi in me. The Boys, nel raccontare di figure potenti e al potere, mette in scena invece l’esigenza di un uomo forte, prende di petto la ragione del successo dei supereroi nella cultura di massa negli ultimi vent’anni, il nostro piacere nel sognare di figure potenti a cui demandare la risoluzione dei problemi. Negli anni dell’attivismo da tastiera, il massimo del successo ce l’hanno le storie di individui singoli fuori dal comune a cui chiediamo di salvarci, mentre stiamo a guardarli. Non il desiderio di fare qualcosa ma il desiderio che qualcun altro faccia qualcosa.Di questo ha parlato la seconda stagione di The Boys, di come sotto sotto vogliamo credere agli uomini forti, e delle conseguenze delle modalità con cui questi conquistano e mantengono il potere oggi. Dando ai villain un intento e un’origine effettivamente naziste (ideologia che più passano gli anni più diventa una roba da fumetto, così estrema e brutale da sembrarci perfetta per le storie di fantasia), non parla solo del giustizialismo sottinteso nell’idea stessa di supereroe, che del resto negli anni Trenta nasce, ma di come tutto questo sia diventato sempre più accettabile e mainstream per la popolazione americana: “Alla gente piace quello che dico, quello che non gli piace è solo la parola nazista”.


Gabriele Niola

Giornalista e critico di cinema, videogiochi e webserie, è stato selezionatore della sezione Extra del Festival del Film di Roma e per il Taormina Film Fest. Scrive per MyMovies, BadTaste, Wired, Leggo, Fanpage e i 400calci.

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