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WandaVision e il nostalgismo televisivo dei Marvel Studios

Il fenomeno seriale dell’inizio 2021 è senza dubbio una narrazione che mette assieme i supereroi Marvel e le sitcom televisive più classiche. Quasi un ritorno alle origini.

Mentre noi eravamo impegnati a guardare le scazzottate tra supereroi, Kevin Feige rivoluzionava i codici narrativi dei blockbuster hollywoodiani con la creazione dell’Universo Cinematografico Marvel (o MCU, dall’inglese Marvel Cinematic Universe). Il capo dei Marvel Studios, la casa cinematografica dei film tratti dai fumetti Marvel Comics, ha creato arazzi narrativi che si muovono nel tempo e nello spazio, attraverso i lungometraggi e ora, con l’arrivo di WandaVision, le serie tv. Le avventure degli Avengers non sono un semplice crossover dove due o più grossi marchi (Alien e Predator, King Kong e Godzilla, Batman e Superman) si scontrano in una storia che sembra il punto più basso per entrambi i franchise. Di fronte all’incrocio tra personaggi indipendenti, l’industria e il pubblico hanno sempre storto il naso, perché erano vuote operazioni commerciali dove era impossibile raschiare via la patina kitsch o coprire quel sentore da “abbiamo finito le opzioni, magari se mettiamo queste due mezze idee insieme ne esce una intera”. Feige ha invece guardato al mondo da cui provenivano i crossover, cioè i fumetti: lì non erano sinonimi di bancarotta creativa ma eventi che si estendevano su più testate, momenti di prestigio forieri a volte di grandi storie che univano le grandi epopee supereroistiche a uno schema commerciale che obbligava il lettore a comprare titoli che non avrebbe acquistato altrimenti. Quello di Feige era un universo condiviso in cui le storie entravano in un film e uscivano in un altro. WandaVision è la prima serie tv supervisionata direttamente dai Marvel Studios ed è un tassello talmente importante per la narrazione generale che ora potremmo rinominarlo Universo Cinetelevisivo Marvel.

Dall’esterno all’interno

Finora, tutte le serie con protagonista un personaggio Marvel erano state realizzate da altri. Ci furono i successi di The Amazing Spider-Man e L’incredibile Hulk negli anni Settanta, seguiti da rari e dozzinali tentativi per la tv generalista (piloti per serie mai prodotte come Dr. Strange, Power Pack o Generazione X). Quando la Marvel entrò nel catalogo Disney, nel 2009, videro la luce per il canale Abc – di proprietà di Disney Agents of S.H.I.E.L.D., una serie d’azione con protagonista l’agenzia di spionaggio che opera in un mondo popolato da supereroi. Poi, con la cooperazione di Netflix, Daredevil, Jessica Jones, Luke Cage, Punisher e Iron Fist, dedicate agli omonimi supereroi e poi confluite nella miniserie di gruppo I difensori. Se Daredevil e Jessica Jones avevano trovato riscontro positivo, l’entusiasmo di pubblico e critica si era via via affievolito e così anche la qualità delle serie. Iron Fist, in particolare, mostra la corda per colpa della realizzazione concitata che si è tradotta in scene d’azione imbarazzanti (pur essendo un elemento cruciale della storia, dato che Iron Fist è esperto di arti marziali). 

Hulu era stata la casa di Helstrom (un horror soprannaturale in cui fratello e sorella combattono contro i demoni), Cloak & Dagger (una coppia di supereroi, uno con poteri di teletrasporto, l’altra in grado di creare dei pugnali di luce, che combatte il male) e Runaways (adolescenti con superpoteri che si alleano per combattere i loro genitori, membri di un’organizzazione criminale). Se non ne eravate a conoscenza, tutto normale, non sentitevi tagliati fuori da alcun discorso culturale. Tutti erano supervisionati da un ramo dell’azienda indipendente da Feige, la Marvel Television, con a capo Jeph Loeb (sceneggiatore di fumetti poi passato alla televisione), che a sua volta riferiva al proprietario del conglomerato Marvel Entertainment, il trumpiano Ike Perlmutter, responsabile di aver varato la serie tv Inhumans in tempi strettissimi e con un budget spartano – le recensioni la definirono “un disastro completo”, come non se ne vedevano da tempo. Nel 2019 anche i progetti tv sono finiti sotto il controllo dei Marvel Studios e di Feige, che dal 2015 non risponde più a Permutter ma al boss dei Walt Disney Studios, Alan Horn. Quelle di Marvel Television erano produzioni ambientate nell’universo cinematografico Marvel. Agents of S.H.I.E.L.D., in particolare, approfondiva o mostrava le conseguenze degli eventi raccontati nei film. Ma serie televisive e film non dialogavano davvero perché i personaggi dei film non comparivano nelle serie e viceversa, rimanendo indipendenti.

I colpi di scena finali presentano quindi una doppia lettura in base al pubblico. C’è il primo livello, che è quello riferito al colpo in sé e per sé, a cui gli spettatori reagiscono con sorpresa ma senza capirne le conseguenze profonde. E poi c’è il secondo livello, quello per il pubblico di lettori dei fumetti che, in base al loro grado di conoscenza, saranno rimasti doppiamente sorpresi dalla rivelazione. In questo modo tutti gli spettatori traggono una qualche soddisfazione da trame diventate cattedrali narrative.

Sembrerebbe un controsenso ironico, ma con il piccolo schermo Feige è finalmente libero di espandere la narrazione dei personaggi cinematografici. Ha preso tutti gli Avengers rimasti vivi dalla fine di Endgame e li ha resi protagonisti di loro avventure. Su Disney+, per tutto il 2021, usciranno episodi di serie tv dedicate a Loki, il fratello malvagio di Thor, Falcon e Winter Soldier, due commilitoni di Capitan America, e Occhio di Falco, intento ad addestrare una nuova arciera. Debutterà Ms. Marvel, una supereroina sedicenne e musulmana già protagonista di una serie a fumetti incensata, nonché What If…?, un cartone animato antologico in cui si esploreranno gli “E se…?” del mondo Marvel (“E se il siero del supersoldato fosse stato iniettato a Sharon Carter?”, “E se Loki potesse sollevare il martello di Thor?”), un formato tipicamente fumettistico che ha generato alcune delle storie più amorevolmente assurde e che, proprio come il meccanismo del crossover, Feige vuole tradurre per il grande pubblico.

WandaVision è il primo prodotto a uscire dai cancelli. Citare i nomi degli autori (la capo-sceneggiatrice Jac Schaeffer e il regista Matt Shakman) serve a poco, perché WandaVision ha l’inconfondibile marchio Marvel voluto da Feige che omogeneizza tono e aspetto del racconto a tutti gli altri titoli del franchise. Ha come protagonisti Scarlet Witch, al secolo Wanda Maximoff, e Visione. Telepate lei, sintezoide (la versione Marvel di un cyborg) lui, nella prima puntata li vediamo sposati e residenti a Westview, città di provincia tutta case a schiera e giardinetti. Ma come è possibile, se Visione era morto permanentemente in Avengers: Infinity War? E perché la fotografia è in bianco e nero e sono vestiti come se fossero gli anni Cinquanta? Si viene presto a scoprire che la vita di Wanda e Visione è in realtà una serie dentro la serie, una sitcom in continua metamorfosi che omaggia i titoli più famosi del genere, dalle sue origini a oggi. Come ci sono finiti è solo uno dei tanti misteri che la serie svela nelle nove puntate, a tutti gli effetti un sequel – focalizzato su due personaggi – del franchise cinematografico. Non solo, Wanda comparirà nei prossimi film del Dottor Strange e di Spider-Man, rendendo WandaVision un passaggio imprescindibile per gli spettatori futuri.

Storia della tv, American way of life

Per vocazione, WandaVision è un prodotto largo che deve raggiungere un pubblico vasto e variegato. Eppure i meccanismi che mette in scena sono inconsueti. L’aspetto più evidente e su cui ha insistito il marketing per far leva sull’avanguardismo della serie è l’escamotage di inserire i due personaggi in una bolla di realtà dove la loro vita segue ritmi e convenzione delle sitcom americane. Nel corso degli episodi, Wanda e Visione vivono avventure che sembrano uscite da Io e Lucy, Vita da strega, Casa Keaton, Malcolm o Modern Family, in un tour de force nella storia della tv. Per qualche ragione tenuta segreta ai personaggi e al pubblico, la coppia vive in una serie tv che si chiama WandaVision e che nel giro di pochi giorni e poche puntate avanza di sei decenni televisivi.

Gli autori cercano di riprodurre filologicamente gli show di riferimento, quindi le puntate sono in un formato 4:3, in bianco e nero e poi a colori sgranati, con effetti speciali artigianali (fili delle canne da pesca per far levitare gli oggetti), abiti e oggetti di scena aderenti ai vari periodi storici, e soprattutto sceneggiature che imitano i temi e le consuetudini del passato (Wanda e Visione dormono in letti separati come era d’obbligo nelle serie tv prima degli anni Settanta, o parlano direttamente allo spettatore come nei finti documentari degli anni Duemila). Il tempo della storia si confonde con quello del discorso, tanto che i personaggi dentro Westview non sanno mai bene quanto tempo è passato perché la scansione temporale sembra dettata più dal montaggio che dal passare del tempo canonico. Nel calderone di WandaVision c’è di tutto: Truman Show, Pleasantville, Un piccolo mostro e USS Callister (episodi rispettivamente delle serie tv Ai confini della realtà e Black Mirror), fino a produzioni meno note come That’s My Bush! e Too Many Cooks. Ci sono tutti i crismi della “tv complessa”, quella che sta attenta a “cosa” racconta ma anche al “come”. Così, insieme alle scene d’azione, c’è anche quell’effetto speciale narrativo che Jason Mittell descrive nel libro Complex Tv “quando una serie tv fa del suo meglio per confondere e stupire lo spettatore”. “A te non preoccupa affatto che il pubblico possa capire che è tutta una messa in scena?”, chiede Wanda a Visione nel secondo episodio, prima di esibirsi in uno spettacolo di magia per beneficenza. “È questo il punto” risponde Visione. “Nella vera magia è tutto finto”.

WandaVision chiude ogni episodio con un colpo di scena ingegnerizzato per alimentare il dibattito, fomentare il fandom e far parlare di sé anche quando non c’è nulla da dire. In questo senso, la riguardabilità della serie è bassissima, se paragonata a prodotti come Watchmen di Damon Lindelof, pieno di easter egg e riferimenti, cose da notare sullo sfondo o citazioni che allungavano la shelf life di ogni episodio. WandaVision non fa nulla di tutto questo, si inserisce nella linea mediana delle produzioni Marvel, eppure è molto discussa, a causa dei suoi elementi formali e dei paratesti che si sono creati. Per esempio, la cornice narrativa metatelevisiva. In quanto prima serie tv targata Marvel Studios quale occasione migliore per omaggiare il mezzo espressivo? Narrativamente parlando, Wanda, che è nata nell’immaginaria nazione est-europea di Sokovia, vive una realtà tutta basata sul sogno americano, la stessa che le serie propagandavano incessantemente. Perché è attraverso l’intrattenimento pop e l’arte che l’America ha esportato la sua iconografia e colonizzato le culture altrui. Vediamo perfino un flashback di lei e il fratello andare a fare “dolcetto e scherzetto” come due americani provetti, quindi è indubbio che l’epopea americana le ha scavato dentro. 

Il fumetto supereroistico stesso su cui si basano le avventure dei personaggi Marvel è un prodotto puramente statunitense. Quello mostrato da I Love Lucy o Vita da strega era un mondo irreale, addolcito ed epurato dalle complessità. Ma era il mondo spensierato che Wanda voleva per se stessa e il marito. Poi però negli anni Settanta il sogno americano andò in frantumi. Nelle arti, la New Hollywood fece a pezzi lo studio system che aveva reso il cinema americano un’egemonia incontrastata, e la televisione inglobò più o meno consapevolmente tali istanze distruttive. Le crepe cominciano ad affiorare: le serie sul piccolo schermo degli anni Ottanta affrontano la morte, la droga, l’aborto, l’omosessualità. Negli ultimi episodi di WandaVision, la carrellata degli omaggi televisivi ci porta nel mondo di Modern Family e The Office, che sfonda la quarta parete ed è consapevole della propria natura, così come la popolazione americana è consapevole di essersi svegliata dal sogno dell’American way of life e di essere polarizzata dagli estremismi, in un mondo che non accetta più l’autarchia trumpiana. Lo stesso avviene con Wanda e Visione, ormai consci di vivere in una realtà fittizia che non è quella di tutti gli altri. L’evoluzione della serie dentro la serie si muove in parallelo a quella della storia che stiamo seguendo e segna non soltanto l’evoluzione delle sitcom ma, di rimando, della società americana.

Nostalgia e avanguardia

Tuttavia, come scrive il critico Alan Sepinwall, l’elemento sitcom funziona più come paratesto orientativo che nella pratica. È scritto male e dosato peggio: le prime due puntate sono interamente dedicate a omaggiare le serie degli anni Cinquanta e Sessanta, ma sono pensate con un tono post-ironico e senza crederci davvero, dando così l’impressione di stare assistendo a delle brutte copie di Io e Lucy, invece che a dei copioni che potrebbero stare al suo fianco (d’accordo, è un’asticella alta, ma non l’ho messa io). Quando si passa alle serie moderne, si sente che la scrittura e i riferimenti sono più vicini alla sensibilità degli autori, che riescono a replicare bene gli stili dei vari Malcolm o Modern Family. solo che ormai la storia si è spostata sulla parte supereroistica e d’azione, marginalizzando il minutaggio del gioco. 

“A te non preoccupa affatto che il pubblico possa capire che è tutta una messa in scena?”, chiede Wanda a Visione nel secondo episodio, prima di esibirsi in uno spettacolo di magia per beneficenza. “È questo il punto” risponde Visione. “Nella vera magia è tutto finto”.

L’aspetto più nostalgico è allora forse quello che trascende l’opera e riguarda la sua diffusione presso il pubblico. I nove episodi di WandaVision sono usciti uno a settimana (con l’eccezione dei primi due), in controtendenza rispetto al modello del binge-watching che sembrava uno dei capisaldi dell’esperienza televisiva digitale. La procedura standard prevedeva infatti che le piattaforme di streaming caricassero sui propri server un’intera stagione in un colpo solo, favorendo l’abbuffata televisiva da parte degli spettatori. Il “tutto e subito” è stato messo in discussione da alcuni tentativi di riportare in auge l’esperienza televisiva propriamente detta, aggiornandola alla contemporaneità: smaterializzare il palinsesto per ricrearlo in una nuova forma. Apple TV+, Disney+, Hbo Max e Amazon hanno infatti distribuito i loro prodotti cadenzandoli settimanalmente (o con un regime di semi-binge, trasmettendo i primi due o tre episodi insieme, e gli altri uno a settimana, oppure due a settimana per tutta la stagione). Questa tattica tiene a stecchetto gli spettatori, affamandoli di contenuti, ma soprattutto ha permesso alla serie di respirare: ogni episodio viveva sui social e sulle testate specialistiche per l’intera settimana dopo la messa in onda grazie ad articoli, discussioni, meme e dirette su Twitch in cui dare sfogo a ogni più morboso vagheggiamento sul destino di tale personaggio. Succede anche con le serie trasmesse in un’unica soluzione, ma per meno tempo e con meno intensità, perché non puoi speculare sul cliffhanger del terzo episodio se il quarto è già iniziato senza che nemmeno lo scegliessi. Nel suo farsi modello di socialità televisiva, WandaVision è emblematica: i colpi di scena a fine episodio si risolvono spesso in un nulla di fatto ma hanno generato una valanga di teorie, supposizioni, spiegoni e complotti paradossali. Qualcuno si è focalizzato a cercare torbidi simbolismi nel tatuaggio di un personaggio che era semplicemente il tatuaggio dell’attore che lo interpretava. Anche The Mandalorian ha beneficiato di questa attesa, e lo stesso è successo con la fortunata seconda stagione di The Boys. Il creatore di The Boys, Eric Kripke, ha affermato che questa modalità ha dato agli spettatori “il tempo per impazzire, digerire, discutere e far scendere l’adrenalina, prima di assumere un’altra dose”, in contrasto alla scorpacciata che limita la vita del prodotto alle settimane immediatamente successive alla messa in onda.

Come spiega DigitalSpy, nel caso di HBO Max, Disney+ e Apple TV+, la strategia è anche dovuta alla relativa ristrettezza del catalogo di produzioni originali. Se questi colossi caricassero un’intera stagione in una volta sola, i nuovi utenti si registrerebbero gratis per poi disiscriversi una volta vista la serie. Netflix è ancora barricata dietro il modello della distribuzione monolitica, affermando che le ricerche di mercato mostrano come raramente il pubblico si faccia convincere dall’episodio pilota e la visione immediata di una manciata di episodi favorisce l’assuefazione. La buona risposta ai watercooler show (le “serie da boccioni dell’acqua”, perché è l’argomento che tiene banco durante la pausa lavorativa la mattina dopo la messa in onda) potrebbe portare a un cambiamento stilistico nelle serie. Gli autori tv potrebbero essere portati (o costretti) a scrivere sceneggiature con colpi di scena sempre più insistiti e magari gratuiti, ma capaci di tenere vivo il discorso degli spettatori e le relative speculazioni.

In WandaVision i colpi di scena sono a volte gratuiti ma anche particolarmente stratificati. Nel finale del quinto episodio compare Quicksilver (Pietro Maximoff), il fratello gemello di Wanda morto nel film Avengers: Age of Ultron. Ma il Quicksilver che vediamo nell’ultima scena della puntata non è quello interpretato da Aaron Taylor-Johnson in Age of Ultron, ma quello più giovane e scalmanato incarnato da Evan Peters nei film degli X-Men (in particolare gli ultimi tre, Giorni di un futuro passato, Apocalisse e Dark Phoenix). Non è un semplice recasting del personaggio, ma una citazione per appassionati che nasconde l’ennesimo potenziale spunto per nuove narrazioni. Gli spettatori si sono infatti chiesti se la presenza di più versioni dello stesso personaggio sia soltanto una easter egg o possa aprire al concetto di multiverso, l’esistenza di realtà parallele che nei fumetti è data per assodata da decenni, diventando terreno d’azione per molte storie epiche (Secret Wars) praticamente inesplorato nel cinema di consumo. Nel settimo episodio, si scopre che uno dei personaggi di contorno è in realtà la strega Agatha Harkness. La serie costruisce lo svelamento come fosse un colpo di scena forte, ma il nome di Harkness ai più non dirà nulla – è un personaggio dei fumetti poco conosciuto che ha svolto il ruolo di mentore per Wanda.
I colpi di scena finali presentano quindi una doppia lettura in base al pubblico. C’è il primo livello, che è quello riferito al colpo in sé e per sé, a cui gli spettatori reagiscono con sorpresa ma senza capirne le conseguenze profonde. E poi c’è il secondo livello, quello per il pubblico di lettori dei fumetti che, in base al loro grado di conoscenza, saranno rimasti doppiamente sorpresi dalla rivelazione. Questo secondo livello resta inattivo se non avete mai letto i fumetti di Wanda e Visione. Succede lo stesso con il colpo di scena di Pietro (primo livello: “È tornato il fratello ma con un’altra faccia”, secondo livello: “L’altra faccia è il Quicksilver dei film degli X-Men!”). In questo modo tutti gli spettatori traggono una qualche soddisfazione da trame diventate cattedrali narrative. WandaVision arriva dopo Avengers: Endgame, il capitolo numero 22 del franchise Marvel, ma non si sforza nemmeno per un secondo di introdurre i due protagonisti, dà per scontate molte cose, ed è tutto meno che un prodotto per neofiti o anche solo spettatori disattenti. Nulla di cui stupirsi, comunque: la grandezza del franchise Marvel è proprio quella di aver reso le saghe cinematografiche dei serial televisivi dove la trama orizzontale ha la precedenza su quella verticale, dove ci sono i finali di stagione, lo stile visivo è uniformato e il vero padrone del vapore è lo showrunner non il regista. La televisione è solo un ritorno alla fonte.


Andrea Fiamma

Scrive (soprattutto) di fumetti, cinema e tv su Fumettologica, Rivista Studio e The Comics Journal.

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