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Le comedy italiane e l’era della ricostruzione

L’industria audiovisiva è passata dal livore di Boris alla celebrazione di Call My Agent – Italia, due serie speculari che mettono in scena il rapporto tra pubblico e audiovisivo.

Che nei nostri anni sia stata la serialità la forma di produzione capace di rappresentare con più efficacia non solo le istanze che animano il pubblico (conflitto generazionale, desiderio di cambiamento, tensione verso gli antieroi) ma anche il complesso dell’industria culturale italiana, lo aveva dimostrato già Boris nel 2007. Quindici anni dopo, nel medesimo anno in cui di Boris usciva la quarta stagione a grande distanza dalla terza, revival per piattaforma di una serie nata su canali satellitari, Call My Agent – Italia ha ripreso quel discorso con altri modelli, altre forme e altre idee che si sono dimostrate efficaci nel raccontare i cambiamenti avvenuti nell’audiovisivo, e quindi nel Paese. Boris, anche solo con la sua impostazione, era stata lo specchio delle tensioni che attraversavano il rapporto tra pubblico e produzione televisiva negli anni Duemila; Call My Agent – Italia, già a partire dall’essere il remake italiano di una serie francese (Dix Pour Cent), è la rappresentazione di un nuovo sentire e un nuovo rapporto tra pubblico e industria audiovisiva.

Il senso di Boris

Boris è stata una serie comedy da tre stagioni (più la quarta arrivata 12 anni dopo), prodotta da Wildside per il canale satellitare Fox. Fin dall’approccio e dagli archi narrativi dei personaggi, aderiva perfettamente ai modelli di nuova serialità che si andavano fondando alla fine degli anni Duemila: era una storia costellata di antieroi, perché raccontava della corruzione dell’anima di un ragazzo che ambisce a lavorare nella produzione audiovisiva e da un certo punto in avanti di un regista che non fa che tendere al peggio; era una storia di conflitto generazionale, dato che a vessare i protagonisti era un sistema gerontocratico e ogni reparto prevedeva che qualcuno di più anziano e contrattualizzato impedisse ai giovani di applicare una qualsiasi forma di idealismo; ed era una storia attraversata da un desiderio di mutamento del mondo intorno a sé, perché ogni stagione, così come il film spin-off del 2011, era segnata dal desiderio inevitabilmente frustrato di qualcuno dei personaggi (principalmente il regista René Ferretti) di cambiare le sue sorti e fare qualcosa di qualitativamente valido. Questa lettura dell’industria seriale come sineddoche di un Paese in cui è impossibile migliorare la propria condizione o realizzare qualcosa di buono e valido ha rappresentato per un decennio l’espressione più compiuta di quello che un’ampia fetta del pubblico vedeva sia in televisione che intorno a sé.

Nessun’altra produzione, né destinata al cinema, né alla televisione, ha raccontato in maniera così efficace e popolare un’industria, un Paese e un popolo in quel momento storico. Nemmeno quelle che negli stessi anni ambivano a farlo più direttamente, come i due film di Bruni e Virzì Tutta la vita davanti e Il capitale umano, o il più autoriale Viva la libertà di Roberto Andò, né ancora il popolare Viva l’Italia di Massimiliano Bruno (assonanti nei titoli ma diversi nella sostanza). Il sorpasso della tv sul cinema è stato spesso raccontato in termini qualitativi e di presa sul pubblico attraverso storie di genere e modelli percepiti come nuovi (in realtà vecchi, ma ben rispolverati). Tuttavia è stato in realtà un sorpasso sull’asse della capacità di intercettare movimenti sociali e rappresentarli in racconti moderni nella forma. E questo esatto mutamento di forme e linguaggi ha generato, quindici anni dopo, Dix Pour Cent, serie francese su un gruppo di agenti delle star che include a ogni puntata le suddette star nel ruolo di se stesse. Il format è congegnato così bene da essere immediatamente esportabile, applicabile a qualsiasi industria nazionale, ognuna con le sue star. Quella che in Italia abbiamo rititolato Call My Agent – Italia (in linea con il titolo internazionale della serie) è quindi frutto di un nuovo modello di mercato, che prevede sempre più spesso la vendita all’estero dei soggetti e delle sceneggiature per remake nazionalizzati.

Il senso di Call My Agent

Dix Pour Cent è una serie dramedy convenzionale e canonica con in più la presenza dei talent, in Italia è diventata invece una comedy pura con una fortissima natura di commento e racconto della stessa industria dello spettacolo che la crea. È un commento dall’alto, fatto dai vertici, cioè da un colosso della produzione (Palomar) e ospitata da Sky sui canali principali, con il massimo della promozione, le grandi star e un impianto produttivo di livello alto. È l’esaltazione della grandezza e della potenza del cinema italiano (molto più che della serialità italiana), fatta andando intenzionalmente al di là dell’effettiva penetrazione di quel cinema. In Call My Agent – Italia i personaggi vivono di cinema italiano, conoscono tutto e tremano di attesa per l’arrivo del nuovo film di Giorgio Diritti (!). La sceneggiatrice che ha adattato la serie e ha coordinato la writer’s room, Lisa Nur Sultan, non ha nascosto che l’adattamento è nato nel periodo post-pandemico, quando l’industria audiovisiva si era compattata per far fronte a una crisi come mai si era vista, e questo ha influenzato la scrittura, risultando in una grande celebrazione. Call My Agent – Italia, alla fine, è diventata l’opposto logico di Boris, per un’era che ha superato quel modo di vedere l’industria.

Boris, anche solo con la sua impostazione, era stata lo specchio delle tensioni che attraversavano il rapporto tra pubblico e produzione televisiva negli anni Duemila; Call My Agent – Italia, già a partire dall’essere il remake italiano di una serie francese (Dix Pour Cent), è la rappresentazione di un nuovo sentire e un nuovo rapporto tra pubblico e industria audiovisiva.

Entrambe le serie sono ambientate a Roma, convenzionalmente considerato il centro del potere audiovisivo (anche se è sempre meno vero). Ma la differenza degli ambienti scelti da sola dice molto di quel che separa le due prospettive e le due ere. Boris è ambientato ai margini, nei capannoni degli studi di produzione, pieno di una romanità squallida e ignava. Call My Agent – Italia è cosmopolita, mostra continuamente la sua terrazza su Piazza del Popolo e della romanità non esibisce l’umorismo, la pigrizia e l’accento ma i salotti e le conoscenze. In Boris i romani sono più che altro le maestranze. In Call My Agent – Italia i romani non sono necessariamente le persone nate a Roma, ma chi a Roma lavora, sono gli agenti e i produttori che si conoscono tutti e meta-cinematograficamente entrano ed escono anche per pochi minuti dalla serie.

Mondi opposti e speculari

Già solo parlando di modelli, Boris non era un adattamento né un’idea adattabile da qualcun altro. Era un prototipo, qualcosa che prima non esisteva, non rispondeva ad alcun genere codificato ma era creata per l’occasione, non ripetibile e figlia del proprio tempo e Paese. È la maniera in cui ha funzionato l’industria audiovisiva italiana per decenni (i prototipi sono sempre stati la regola, i modelli esportabili o replicabili l’eccezione) e una ragione per cui si discute intorno all’idea stessa che possa definirsi industria. “Industria di prototipi”, dice Lorenzo Mieli, uno dei fondatori di Wildside (e non solo lui). Quelli in cui nasce Boris erano gli anni in cui si andava diffondendo il modello del mockumentary nelle comedy, canonizzato da The Office a inizio anni Duemila e ottimo per raccontare le dinamiche sui luoghi di lavoro, la cialtroneria, le storture e un’umanità pessima spiata più che messa in scena, fingendo di guardarla quando non è in grado di nascondere la sua cialtroneria. Boris avrebbe potuto facilmente mutuare quella forma, invece sceglie il prototipo. Una comedy da 20/30 minuti con una forte pressione sull’umorismo e scarsa linea orizzontale. Racconto corale con capobanda e moltissime storie intorno, in cui lo scontro è tra le persone e quell’entità invisibile che li comanda e costringe tutti, il Sistema.

Dunque se Call My Agent – Italia è il racconto dell’industria audiovisiva italiana fatto dall’alto, Boris lo era tremendamente dal basso, anche produttivamente. Wildside non era il colosso che è oggi, Ciarrapico, Vendruscolo e Torre (i creatori) non erano nomi importanti e nemmeno Fox, il canale Sky in cui era trasmessa la prima visione, era tra i più importanti. Se poteva esistere qualcosa di paragonabile a una dimensione underground della televisione premium a pagamento, quello era il posizionamento di Boris. Fondato sulla presa in giro, animato da un livore che non si trovava altrove, percorso da una vena incattivita e desiderosa di farsi portavoce del disprezzo diffuso per la produzione televisiva (e in certi casi cinematografica) del suo tempo, Boris era chiaramente un outsider, che dall’esterno dell’industria l’ha poi penetrata diventando pienamente mainstream. Non aveva una grande complessità narrativa né una grande sofisticazione di scrittura, ma la forza di un atteggiamento polemico condiviso da molti.

Call My Agent – Italia non ha più bisogno di demolire, ma segna il momento in cui inizia la ricostruzione. Le star e i grandi nomi sono esibiti e partecipano al prodotto, lo fanno per controllare l’ironia su di sé e tramite essa rilanciare il proprio essere celebrità. Stefano Accorsi che prende il giro il suo lavorare molto e fare moltissime cose (sempre bene!); o Pierfrancesco Favino che deride il proprio trasformismo con due operazioni complicate.

Call My Agent – Italia invece è un prodotto flagship fin dal suo lancio, prima ancora di testarne il successo. È una serie benedetta da alcune delle star più importanti del nostro cinema (Favino e Cortellesi, gli unici a oggi capaci di portare con regolarità il pubblico in sala, e Corrado Guzzanti, il più nobile e amato tra i comici italiani). Benché Boris pure occasionalmente riuscisse a inserire nelle sue puntate talent anche importanti (come Paolo Sorrentino e lo stesso Guzzanti) è chiaro che quella di Call My Agent è un’altra dimensione produttiva, e soprattutto mostra tutta un’altra complicità con l’industria. Ne è il figlio prediletto e non quello scapestrato.

Lo stato dell’industria

Call My Agent – Italia è anche l’espressione più compiuta dello stato dell’industria, il modello che ne racconta la potenza, la compattezza e la ricerca di un pubblico a cui non occorre più dire che non è il solo a pensare che faccia tutto schifo, ma a cui raccontare un’esaltazione per quello che già conosce. Quando Boris diceva che nulla sarebbe mai cambiato stava in realtà contribuendo a cambiare il panorama produttivo a favore di un pubblico nuovo che andava prendendo coscienza di sé. Quello stesso pubblico, quindici anni dopo, prende atto che nulla è come prima proprio con la quarta stagione di Boris, su Disney+, molto più tenera con il mondo che racconta, molto meno arrabbiata, molto più integrata, con una star ospite a puntata, tanti ricordi da celebrare e una nuova potenza della serialità italiana da mostrare. Se nelle prime tre stagioni di Boris Ferretti faticava dietro a fiction Rai di pessimo gusto, nella quarta tenta una produzione ambiziosa sul serio, di carattere internazionale. Lo fa con il consueto spirito cialtrone ma anche essendo parte di un’industria di rinnovate dimensioni, ambizioni e credibilità internazionale. E il finale della serie dirà a chiare lettere che quello che veniva raccontato come immutabile è invece cambiato.

Quando arriva Call My Agent – Italia è chiaro che è il format internazionale, adattato all’Italia, la maniera migliore per raccontare l’industria com’è diventata. Entrambi i titoli hanno al centro progetti che partono, ed entrambi prendono in giro i talent e i prodotti, con finti titoli di serie e parodie degli atteggiamenti da star. Solo che il mondo paradossale di Call My Agent dichiara la sua finzione e la sua esagerazione, ride dell’industria con il consenso dell’industria stessa, che ormai ha assorbito il dissenso e la critica, incanalandola nell’esaltazione. Attori che prendono in giro se stessi con il fine di mostrare il proprio status di star, registi che ridono dei rifiuti dei loro film più noti mostrandosi come sconfitti prima e di successo poi. La serata di premiazione dei David di Donatello mostrata come un momento glamour, là dove in Boris non solo non sarebbe mai stata mostrata ma anche solo una menzione al premio non sarebbe stata un complimento.

Tutta l’insoddisfazione espressa in Boris prendeva la forma della parodia, dei nomi spesso storpiati o dei personaggi che rimandavano a omologhi non nominabili. C’erano inside jokes da addetti ai lavori come il terribile dott. Cane (il funzionario che regola le vite dei protagonisti), la rete commerciale rivale milanese (una Mediaset fatta da comici idioti e hostess bellissime), l’attrice figlia di un uomo potente, i teatranti prestati alla fiction, il nepotismo e le produzioni dai titoli solo lievemente storpiati (Libeccio simile alla vera Vento di ponente, Caprera simile alla vera Capri). Call My Agent – Italia non ha più bisogno di demolire, ma segna il momento in cui inizia la ricostruzione. Le star e i grandi nomi sono esibiti e partecipano al prodotto, lo fanno per controllare l’ironia su di sé e tramite essa rilanciare il proprio essere celebrità. Stefano Accorsi che come Isabelle Huppert prende il giro il suo lavorare molto e fare moltissime cose (sempre bene!); Pierfrancesco Favino che come Jean Dujardin deride il proprio trasformismo con due operazioni complicate; Paolo Sorrentino che prende in giro le proprie creazioni, ritagliandosi un angolo per un monologo ben scritto e ruffiano e ribadendo a fine puntata di essere lui quello che prende in giro tutti. Dopo la guerra di Boris, Call My Agent – Italia segna una fase nuova, di rinascita.


Gabriele Niola

Giornalista e critico di cinema, videogiochi e webserie, è stato selezionatore della sezione Extra del Festival del Film di Roma e per il Taormina Film Fest. Scrive per MyMovies, BadTaste, Wired, Leggo, Fanpage e i 400calci.

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