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Tecnologie

L’audio come arma finale delle piattaforme

La moda di Clubhouse, le imitazioni che si diffondono altrove sono la rivincita dei contenuti audio. Ma anche un meccanismo con cui le piattaforme conquistano gli anfratti ancora liberi del nostro tempo.

Nella mia memoria c’è un episodio che, come spesso accade, non so se classificare tra i fatti veramente accaduti o solamente tra quelli pensati molto intensamente. C’è un bambino, nella sua cameretta, molto curioso, molto annoiato, in un paesino di provincia. Immaginate l’incubo – ora sarebbe tema da serie tv distopica post-disastro-digitale – niente musica on demand, qualche vinile di seconda mano, niente FM né Videomusic, un palinsesto tv fatto di sequenze targetizzate scolpite nel marmo (il pomeriggio è per bambini medi, le ore pasti per adulti che guardano il telegiornale, la sera per adulti mainstream), la radio AM che trasmetteva un brusio su tre stazioni (se eri fortunato, come da me, a ricevere Radio Capodistria). Cosa pensa allora questo bambino? Che vorrebbe un apparecchio che possa far ascoltare la tv, superando il monopolio degli adulti nel salotto, e sfruttando il fatto che ascoltare la radio non è considerato dalla società un danno al cervello dei bambini come guardare troppa televisione. Che avrebbe potuto ascoltare il film su Raidue mentre la famiglia guardava lo show su Raiuno. Dove non sarebbe arrivato il tubo catodico, poteva arrivare l’altoparlante.

Fast forward di 40 anni. Il digitale ha liberato l’accesso a ogni forma di comunicazione come il fuoco di Prometeo. Il problema del consumatore non è più trovare contenuti, ma sceglierli. Il problema del produttore non è più scegliere i contenuti e presidiare un canale, ma riempire ogni interstizio di fruizione, sia questo un pubblico, un canale, un formato, un momento della giornata. Ma tutto questo è avvenuto per fasi, o meglio per cicli, loop che si ripetono ogni volta su scala più larga. Se le frequenze FM e le tv private hanno poi liberato molti creatori di contenuti (immaginate per un attimo voce, video, intrattenimento, notizie, testo come un unicum, un brodo primordiale indifferenziato), la rete ha dato proprio a tutti uno spazio per scrivere, girare video, pubblicare foto, registrare audio e pubblicarli.

Passo dopo passo

In ogni ciclo, la prima fase è sempre la frammentazione della distribuzione: si aprono i cancelli, i vecchi collettori (strettamente identificati con i canali trasmissivi: Canale 5 era il contenuto, la frequenza, il tasto del telecomando, una linea di contenuto) sono parzialmente svuotati, gli interstizi della coda lunga delle preferenze sono progressivamente riempiti. Nel primo loop il numero di creatori è limitato: c’erano forse mille blogger nella famigerata classifica di Blogbabel e ancora meno vlogger (termine in disuso per designare quello che oggi chiameremmo youtuber o twitcher). Il problema dei consumatori è, in quel momento, la scoperta: come sapere cosa c’è in giro? Sicuramente Google aiuta a trovare, ma come rimanere in contatto con ciò che ti piace? Le modalità sono neutrali ma macchinose: “iscriviti al mio feed Rss”. “A che?”. Il superamento della sola fruizione in diretta è comunque un passo epocale, trova nuovo tempo vuoto da riempire. Potevi finalmente guardare YouTube, leggere i blog, ascoltare i primi podcast quando volevi tu, non quando un programma era in trasmissione, un articolo dopo che il giornale era esaurito in edicola, perfino riascoltare sul sito di Radio Capodistria la preziosa top ten dei dischi. Anche per quel bambino ormai adulto fu un rito di passaggio, in effetti.

Nella storia di Prometeo c’è anche il famigerato vaso di Pandora. Chi ha scritto le leggende elleniche aveva un gran senso dello storytelling. Nella nostra metafora, dal vaso uscì la monetizzazione. Un ecosistema come quello, frammentato ma non ancora aggregato, era per pochi, era scomodo, non aveva un modello di business funzionante, non retribuiva i creatori. Non che per i primi creatori fosse un problema, ci si illudeva – scoprimmo in seguito l’illusione – che creare per mettere a disposizione degli altri fosse una specie di legge di natura. La fine della storia che ci raccontavamo era che tutti potevano creare, condividere, e che il tempo che spendevi per creare fosse compensato dallo scambio alla pari con il valore che altri, con le loro attività, avrebbero creato. Poi arrivarono i soldi veri, e cambiò tutto.

Strizzare i creatori: prometti noccioline, dai visibilità a chi raggiunge il successo tramite la piattaforma, li metti in competizione tra loro, anziché sceglierli tu. Poi, vendere il dato all’advertising o presentare la selezione personalizzata per inserire valore nell’abbonamento a pagamento. Il pubblico apparentemente vince. La piattaforma sicuramente vince. Qualche creatore vince.

Da quel momento il ciclo infinito del consumo di media è rappresentabile più o meno così, semplificando una teoria economica di Ben Thompson. Primo episodio: frammentare contenuti, tipologia di dispositivo e canale, momento di consumo e pubblico. Secondo: tracciare i comportamenti. Terzo: suggerire cosa e come fruire. L’unico modo di farlo è tramite una piattaforma di aggregazione: questo rende molto più efficiente la conquista degli interstizi. Quarto episodio: strizzare i creatori. Cioè prometti noccioline, dai visibilità a chi raggiunge il successo (personale) tramite la piattaforma, e mettili in competizione tra loro, anziché sceglierli tu arbitrariamente. Quinto: vendere il dato all’advertising o presentare la selezione personalizzata per inserire valore nell’abbonamento a pagamento. Il pubblico apparentemente vince. La piattaforma sicuramente vince. Qualche creatore vince. In questo loop, il primo baluardo storico a cadere è stato il democratico ordine temporale di apparizione. Nel defunto Google Reader, i post dei blogger erano in ordine di pubblicazione. La lista dei blog era alfabetica o manuale. Ma “non funzionava più”, disse Google Reader in persona sul proprio blog: “We launched Google Reader in 2005 in an effort to make it easy for people to discover and keep tabs on their favorite websites. While the product has a loyal following, over the years usage has declined. So, on July 1, 2013, we will retire Google Reader”. 

Senza ordine

La monetizzazione detesta l’ordine temporale. Perfino Twitter, in coda a Instagram, l’ha abolito, nonostante il real time fosse una colonna fondante del suo posizionamento. Facebook nasce già con il dna della rilevanza, del prima ciò che fa engagement. La monetizzazione naturalmente punta l’indice sul problema dell’inefficienza sulla cosiddetta discovery. Sembra dirci: noi sappiamo meglio di te in quale interstizio sei più a tuo agio, e te lo proponiamo, e devi solo toccare “segui” sul profilo (un artista, un podcaster, una newsletter su Substack, eccetera). Altri dati, altro loop che avanza.

C’è solo un limite all’eterno svolgimento di questo loop: il tempo. Non possiamo fruire più di venti ore al giorno. E allora il ciclo frammentazione-raccolta preferenze-ricompattamento sulla piattaforma-suggerimento-monetizzazione deve necessariamente comprendere ogni singolo momento disponibile della giornata, anche quelli residuali. Il multitasking mediale è la chiave di svolta. Se la piattaforma riesce a strizzare sufficientemente i creatori perché possano produrre facilmente e in qualsiasi momento (dove per creatori dobbiamo intendere prosaicamente anche chi commenta su Facebook o fa un reply su Twitter), e a canalizzare i fruitori perché possano non solo vedere ma anche ascoltare in qualsiasi momento, ecco che la macchina mediale ha ancora davanti a sé tanti microspazi liberi, che messi assieme possono essere monetizzati. Magari pochi centesimi per volta, ma incessantemente.

Lo smartphone è stato il primo tassello: non importa che tu sia davanti a un monitor, è il monitor che ti segue. La diretta su Facebook, YouTube o Instagram è accessibile sempre e ovunque – siete in bagno, sul bus, in coda? Non c’è problema. Non importa che tu segua davvero per pochi secondi: il numero da vendere (al creatore e all’inserzionista) è basato sempre sul minimo segmento di attenzione misurabile: per Facebook, tre secondi sono già attenzione monetizzabile, da comunicare ad advertiser e azionisti. L’importante è che l’ecosistema sia facile, liquido, rilevante, per tutti (o meglio, per ciascuno). Tramite il programmatic adv l’inserzionista non deve più scegliere se comprare uno spot su Canale 5, sarà lo spot in diverse lunghezze a infilarsi ovunque, purché i dati siano disponibili. Un universo di consumatori frammentati e anonimi che ascoltano podcast, video, audio o leggono post senza che se ne sappia nulla di loro, non è utilizzabile per il marketing. O meglio, non è efficiente come un mondo liquido in dati e di nicchie ricche di informazioni.

Ma occupare la vista è una friction, un efficienza, nell’ultimo giro di loop del 2021. Non possiamo correre, lavorare, guidare, fare i compiti mentre guardiamo un ennesimo unboxing di un canale YouTube. E la videocall, nello scenario post-covid, ci ha affaticato. Scrive Owyang: “I call this the ‘Goldilocks’ medium for the 2020s: Text is not enough, and video is too much; social audio is just right. It represents the opportunity for social connection and empathy without the downsides of video. Why is this use case taking off? – humans, stuck at home during quarantine; readily available smartphones and apps; cloud-based technology and easy integration platforms like Agora (ndr: una piattaforma all’ingrosso su cui gira buona parte dell’audio social nel mondo, incluso Clubhouse); the desire for human connection beyond text; and fatigue from too many video conference calls.

Il suono e gli interstizi

I sintomi, gli indizi sono sotto i nostri occhi. Piattaforme di audiolibri che si consolidano. Giornali online che offrono agli abbonati la lettura degli articoli. Podcast come Homecoming che diventano serie – se funziona come audiopodcast (il test costa decisamente meno) allora vale la pena produrre il video. Podcast che in realtà sono audiodrammi (da Veleno in poi). Abbondanza di tutorial su come continuare ad ascoltare YouTube con lo smartphone bloccato. Se poi vogliamo la prova definitiva, c’è il follow the money: e ce lo dice Google stesso, “To help you tailor your media and creative approach to the different ways consumers are engaging with YouTube, we’re introducing audio ads, our first ad format designed to connect your brand with audiences in engaged and ambient listening on YouTube”.

È l’audio l’arma finale per arrivare perfino nei più difficili interstizi dei consumatori di media, cioè, nel 2021, di chiunque. Ma la parallela regola della macchina, lato creatori, comporta il consentire a questi di essere accessibili ovunque, di creare un unico contenuto e declinarlo in forme video, audio, ibride. Di massimizzare la produttività: creo uno, produco tre. Marco Montemagno ha creato un podcast a partire dai suoi video, un libro a partire dal podcast. A volte non ce n’è nemmeno bisogno di tradurre, è la piattaforma che è sufficientemente versatile: Twitch, l’avanzante app di Amazon che viene solitamente più associata allo streaming video del gaming, è in realtà una radio perfetta, se l’utente desidera usarla in quel modo. Si possono tranquillamente tenere in background gli stream, o addirittura bloccare lo smartphone, e il contenuto continuerà a fluire. Nessuno vi accuserà di non lavorare o non fare i compiti. Non è un caso che la generazione Z non abbia nel suo vocabolario la distinzione tra audio e video, e chiami la fortunata trasmissione ibrida Muschio Selvaggio di Fedez & co. semplicemente podcast. Non sono un caso nemmeno i riusciti esperimenti di Play Radio, in cui possiamo vedere – se ci va e siamo in grado – gli speaker “radiofonici”. 

Piattaformizzato l’audio, il loop deve ripartire con lo stesso identico percorso. Far diventare tutti creatori e metterli in gara, incentivando i famosi di successo che trainano i propri follower. Tracciare, suggerire e monetizzare, con un accesso facile e ubiquo, a prova di “schiaccia il bottone e ascolta”. YouTube, Spotify e Clubhouse scommettono forte su questo finale. I primi due soprattutto sull’aggiungere ai podcast i dati e le preferenze di chi ascolta, superando l’arcaico sistema ancora basato, in pratica, sui feed RSS come in iTunes, in cui puoi cercare per titolo o per popolarità “generica”, non interstiziale e personalizzata. Il terzo, Clubhouse, sulla componente innovativa, l’accesso prometeico concesso deus ex machina ai creatori (davvero) casuali, quelli che non hanno voglia, tempo, competenze di aprire un audio/video/podcast/newsletter, ma che hanno (o credono di avere) qualcosa da dire. In fondo, parlare è una capacità primordiale che la specie umana trova connaturata all’esistenza stessa, molto più della scrittura e della lettura. È il momento della rivincita dell’oralità sullo scritto, o meglio sul costruito, come scrive la sociologa dell’università di North Carolina, Zeynep Tufekci, nella sua newsletter: “But there’s something important going on here, besides the latest app (ndr: Clubhouse). It’s the latest encroachment of oral culture back into the public sphere. And it’s not just because it’s spoken, rather than written. For example Twitter, despite being written, has been primarily dominated by oral psychodynamics, especially early on.

È l’audio l’arma finale per arrivare perfino nei più difficili interstizi dei consumatori di media, cioè, nel 2021, di chiunque. Ma la parallela regola della macchina, lato creatori, comporta il consentire a questi di essere accessibili ovunque, di creare un unico contenuto e declinarlo in forme video, audio, ibride. Di massimizzare la produttività: creo uno, produco tre.

Prima l’innovazione, poi il business

Come sempre sul mercato digitale chi inventa un formato è il primo a diventare famoso, ma quasi mai riesce a costruirci il business sopra. Non serve rivangare la triste vicenda delle stories – inventate da Snapchat e diffuse/monetizzate da Instagram – per riconoscere nella attuale corsa a copiare Clubhouse un percorso già visto. Clubhouse, con le sue stanze associate a temi che profilano gli utenti, la sua fantastica abilità nel creare fermento negli early adopter con un pizzico di esclusività (l’invito, una tattica che non sempre funziona ma che quando la magia avviene, è come una bacchetta magica), l’abbattimento della friction in produzione (la beauty influencer che non deve truccarsi, la top manager può parlare di business ed essere spaparanzata sul divano) e in ascolto (posso ascoltare in background, perfino in macchina con il bluetooth), ha creato il formato. Invece è tutta da verificare la sua capacità di resistere ai big data e alle abitudini preesistenti, quando Twitter, Facebook, Linkedin e perfino Telegram saranno in grado di replicarne esattamente le funzionalità, anche quelle future che arriveranno inesorabilmente, come la fruizione in differita. 
Come for the tool, stay for the network” è il mantra del capitalismo digitale delle piattaforme ed i network sociali sono le attuali fortezze medievali. In ogni caso, la strada è segnata: cosa è più potente del prodotto finale del loop finale, un oggetto che non sappiamo ancora descrivere ma che ha infiniti produttori a costo zero che sgomitano per parlare, una piattaforma che traccia ogni argomento trattato e ci classifica in base alle preferenze, un pubblico che può fruire in ogni momento (bagni inclusi) e su qualsiasi device? La telecamera spenta passa da essere shame a essere feature. Lo scanner radio del piccolo Gianluca di quarant’anni fa è diventato realtà.


Gianluca Diegoli

Dalla Bocconi in poi osserva passare i trend dall’evanescente confine tra online e offline. Di giorno si occupa di marketing e digital, di notte ha scritto Svuota il carrello (2020) per UTET. È professore a contratto in IULM e in Master. Ogni venerdì alle 9 manda la sua newsletter.

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