Se Il miracolo trasformava la spiritualità in banali esigenze materiali, Anna ci ha portato in uno scenario post-pandemico immaginato prima della “nostra” pandemia. Continua così un forte gioco di specchi.
Entrambe le serie tv di Nicolò Ammaniti per Sky hanno per soggetto un’opera dello stesso autore. Il miracolo aveva un racconto inedito, mentre Anna un romanzo di successo del 2015. Il soggetto di Anna, ambientato durante un’ipotetica pandemia che uccide gli adulti per risparmiare i bambini, ha prodotto due conseguenze legate alla coincidenza con la pandemia che stiamo vivendo. La prima è certo positiva. Tutta l’agenda dei media è oggi occupata da questo tema e questo ha spianato la strada alla serie, che ha avuto un buon riscontro di pubblico. Nello stesso tempo, però, l’inflazione del soggetto ha rischiato di sottrarre originalità e visibilità alla nuova serie. Dai tempi de Il miracolo Ammaniti sembra molto cresciuto come regista. E anche i suoi collaboratori (tra cui la sceneggiatrice Francesca Manieri, il direttore della fotografia Gian Enrico Bianchi e lo scenografo Mauro Vanzati) hanno svolto un lavoro eccellente. Dal punto di vista visivo Anna è un prodotto più curato, ma la bellezza delle inquadrature rischia di annegare la crudezza della sceneggiatura, in una sorta di calligrafismo compiaciuto. Inoltre l’identificazione con l’universo pandemico, oggi sfruttata in tutte le varianti, rischia di fare della serie un prodotto tra tanti, dimenticato. In una tv che alterna l’informazione concentrata sul virus alle fiction pandemiche del passato prossimo, Anna rischia di essere confuso nel contesto generale, al contrario de Il miracolo che ancora oggi rappresenta un prototipo unico e fissatosi nella memoria.
Materialità
Il tema de Il miracolo può sembrare in sintonia con il clima attuale di irrazionalismo e di recupero della spiritualità. Ma il testo di Ammaniti, al contrario, si incide nella memoria per l’assoluta materialità con cui questo tema è trattato. C’è una Madonna che piange sempre, facendo riferimento a eventi analoghi del passato, veri o falsi. Anziché essere oggetto di pubblica adorazione la statua della Madonna diventa presto un problema pratico. Il miracolo non è reso pubblico ed è necessario trovare una soluzione allo smaltimento del sangue. Alla fine la statua è surgelata. Nel frattempo però alcuni personaggi si sono convertiti. Il solo riferimento filmico che mi viene in mente è Le due inglesi di Truffaut. L’autore, grande cantore dell’amore in tutte le sue forme, in un’intervista di allora, disse di aver voluto con quel film mettere in scena la materialità dell’amore. Non l’emozione, il batticuore, ma l’amore come malattia, vomito e sangue. La traduzione materiale dei sentimenti e della spiritualità ha un impatto visivo forte che nasce dal contrasto tra due dimensioni antitetiche: quella spirituale e quella materiale.
Mentre l’utilizzo della violenza e della crudezza narrativa risulta ormai consumato da prototipi come fumetti, videogiochi e cinema splatter, la materialità in quanto tale, anche in assenza di violenza, ha un fortissimo effetto straniante, in quanto non vi siamo abituati. Il sangue in una sequenza di violenze è scontato, ma l’eccesso di sangue da smaltire è sicuramente inquietante e insolito. Pensavamo di vedere una fiction buonista alla Don Matteo e assistiamo a una problematica da Protezione Civile.
Anche in Anna ci sono scene crude, secondo l’estetica “cannibale” di Ammaniti: il taglio del braccio, la putrefazione del cadavere della madre, la violenza gratuita dei bambini. Ma niente è paragonabile allo straniamento che il sangue surgelato del miracolo produce in noi, fissandosi indelebilmente nella nostra memoria. Riassumendo, l’attualità del soggetto pandemia è alla base sia del successo di audience che della banalizzazione che rischia di rendere Anna uno dei tanti prodotti di genere. E di questo si è reso conto lo stesso Ammaniti, rivendicando la diversità del prodotto. Il romanzo Anna è stato scritto nel 2015 e quindi non ha inteso minimamente cavalcare l’immaginario catastrofico prodotto oggi. Inoltre, sempre per Ammaniti, il motore della sua ispirazione non è la malattia, quanto piuttosto l’idea di un mondo abitato solo da bambini, in cui gli adulti sono scomparsi. La malattia è solo l’escamotage per dare una giustificazione plausibile a questo scenario. Immaginario pandemico e universo infantile sono le due dimensioni in cui Ammaniti si confronta con la letteratura, il cinema e l’arte precedente. Dal confronto con gli stereotipi e i topoi di genere scaturisce l’identità del testo messo in scena.
Universo post-pandemico
Fantascienza e horror hanno saturato lo scenario, rischiando di renderlo da un lato familiare, dall’altro consumato come espediente narrativo. La letteratura horror ha a che fare con la morte nelle due dimensioni del vampiro e dello zombie. Il vampiro è un non-morto che conserva un suo fascino, anche erotico, che rende la vittima complice e partecipe del dissanguamento a cui è sottoposta. Lo zombie è un non-morto visto nella sua dimensione materiale di cadavere. Come tale provoca repulsione anziché fascinazione. Nel tempo la figura dello zombie ha preso il sopravvento sul vampiro e con lo zombie è diventata sempre più insistente la letteratura pandemica. Gli zombie sono reduci da pandemia e portatori di inflazione. L’inflazione è, per eccellenza, lo strumento narrativo che permette di costruire una storia in cui il concetto di società umana è scomparso. La pandemia isola i singoli e distrugge ogni forma di vita aggregata e cultura condivisa. Nel post-pandemia c’è solo degrado materiale e spirituale.
Il motore della sua ispirazione non è la malattia, quanto piuttosto l’idea di un mondo abitato solo da bambini, in cui gli adulti sono scomparsi. La malattia è solo l’escamotage per dare una giustificazione plausibile a questo scenario.
I centri urbani diventano discariche a cielo aperto. Lo scenografo – nella presentazione della serie – racconta di aver ricostruito, partendo da bellissime ambientazioni, come la villa in cui sono ospitati i bambini blu, distruzione, sporcizia e degrado. Per chiunque sopravvive l’infezione fa del prossimo un nemico che potrebbe trasmetterci la malattia. Nel contesto zombie le persone care, genitori, amici, fratelli, tornano per smembrarci e nutrirsi di noi. In Anna c’è lo scenario post-pandemia ma manca l’infezione. Gli adulti sono tutti morti. Secondo le istruzioni raccolte dalla mamma nel quaderno in cui concentra le sue raccomandazioni ai figli, i bambini sono infetti ma non si ammaleranno sino alla pubertà. Quindi non rappresentano un pericolo. Così come non rappresentano un pericolo i cadaveri.
Questo ha un effetto importante sul piano culturale. All’inizio della pandemia, il filosofo Giorgio Agamben si rivolse agli italiani con una famosa lettera con cui li interrogava, in senso retorico, sulla totale perdita di pietà ed etica nei confronti del prossimo, dei malati e dei morti, condannati a morire senza cure parentali e a essere inceneriti senza esequie. Se la risposta venisse data, la giustificazione starebbe nell’infezione pandemica. L’infezione fa del malato un intoccabile come lo zombie. L’infezione distrugge il tessuto sociale perché fa dell’altro un nemico e della vita sociale un tabù. Lo spettro dell’infezione resta sullo sfondo nel discorso di Ammaniti perché ineluttabile con la pubertà, ma scisso dal contatto fisico (l’assembramento, il distanziamento). Ma lo stesso manca la società in quanto tale. I legami restano privati, familiari. Ammaniti cita una sua esperienza personale: fu colpito da una pecora che abbandonava il branco per tornare indietro a recuperare l’agnellino che si era perso. Fortissimo è nella storia il legame della madre con i figli, che sopravvive alla sua morte fisica attraverso il quaderno delle istruzioni. Fortissimo è il legame della sorella Anna verso il fratello per cui si tramuta in una sorta di madre. Ma fortissimo è anche il legame della figlia per la madre, che continua ad amare nonostante il suo corpo putrefatto come in un horror zombie. Anna difende dai corvi il cadavere gonfio di liquami della madre e li mette in fuga perché non possano farne scempio. Poi ne scarnifica lo scheletro e incastra il suo teschio di pietre luccicanti come gioielli.
È un rapporto viscerale capace di superare la morte, ma non si discosta molto dalla nuda vita denunciata da Agamben nei suoi scritti. Anche il quaderno della mamma è un puro manuale di sopravvivenza, non si discosta mai dal fine pratico per sfociare in qualche principio etico. Anna deve salvare Astor perché sono fratelli, un legame biologico forte come il legame tra pecora e agnello. Per difendere un legame primordiale Anna è autorizzata a fare qualsiasi cosa, senza porsi domande su cosa è giusto o sbagliato, ma avendo la sopravvivenza come unico scopo.
Un universo di bambini
Esaminato lo scenario pandemico che per Ammaniti è marginale, arriviamo al significato narrativo che lui attribuisce alla serie: mettere in scena un mondo di bambini. La figura del bambino ha un significato importante nel contesto di quel meccanismo di straniamento a cui Sklovskij attribuisce la possibilità di creare letteratura. La figura più nota di bambino come metafora di straniamento è quella descritta da Pascoli nella poetica del fanciullino: come adulti non siamo più in grado di vedere le cose nella loro individualità e viviamo in una dimensione alienata; all’interno di noi sopravvive però un frammento della nostra infanzia capace di farci emozionare di fronte alle cose. Ammaniti dice di essersi ispirato a un quadro di Bruegel il vecchio, Giochi di bambini, per immaginare il suo universo infantile. È una sorta di enciclopedia dei giochi esistenti nel XVI secolo, compresi alcuni che mimano la vita dei grandi: il matrimonio, il battesimo, le professioni. Come alcuni critici hanno notato, la fisionomia dei bambini in scena è piuttosto quella di piccoli adulti annoiati dal loro stesso gioco. Bruegel vede la vita umana priva di senso, e i bambini di Ammaniti non sono molto diversi.
A parte Anna, che conserva spunti di curiosità e di umanità, i bambini della serie non sembrano affatto animati dalla curiosità infantile del fanciullino, ma al contrario mimano, senza neanche porsi domande, il solo universo adulto di cui hanno conoscenza approfondita: l’universo dei reality. L’unica comunità infantile che conosciamo, la comunità dei blu (colore della luce televisiva), è tenuta insieme non da un senso sociale di aiuto reciproco, ma dalla celebrazione quotidiana delle cerimonie tv più note: L’isola dei famosi, Masterchef, X Factor. La villa è un grande set. Le selezioni per essere ammessi nella comunità sono casting. La leader, Angelica, è una superstar capace di stupire con look sempre nuovi e spettacolari.
I bambini della serie non sembrano affatto animati dalla curiosità infantile del fanciullino, ma mimano, senza porsi domande, il solo universo adulto di cui hanno conoscenza approfondita: l’universo dei reality.
I bambini qui messi in scena non sono critici feroci della società come i bambini del film Favolacce dei fratelli D’Innocenzo, sono più integrati dei genitori nella macchina dello spettacolo. Anna rischia la vita e perderà un braccio per salvare il fratello. Ma il fratello, almeno all’inizio e almeno sino alla mutilazione della sorella, rifiuta di tornare a casa. La società dei blu ha molte caratteristiche del mondo dei balocchi di Pinocchio, dove i bambini vengono irretiti dai giochi. La miniserie di Ammaniti è una metafora del nostro presente. L’aumento di consumi tv che ha premiato in questa pandemia la generalista è legato all’attenzione ossessiva del pubblico nei confronti del virus per paura della morte. Ma, per tornare ad Agamben, non ha prodotto alcun segno di pietà per l’altro: il prossimo, visto solo come un potenziale nemico. L’unica alternativa al presente orizzonte pandemico è rappresentata nei palinsesti reali, come nella villa dei blu, dalla riproposizione di quegli stessi reality che indicano la competizione come unico modello sociale. Nella fiction la crudeltà incosciente dei bambini porta la competizione all’estremo, trasformando i reality in giochi gladiatori. Ma il mondo di Ammaniti non si discosta dalla quotidianità.
In questo si colloca agli antipodi della comunità infantile di Favolacce. Qui i bambini percepiscono la mostruosità della normalità degli adulti, ambientata in una periferia pre-pandemica, ancora dominata da un consumismo degradato rispetto a quello euforico degli anni Ottanta. Prima del grande lockdown, il consumismo si è in qualche modo “walmartizzato”, concentrandosi su consumi bassi, da discount, ma nonostante questo conserva il potere di generare invidia sociale in chi si sente comunque escluso. I sentimenti degli adulti sono tutti negativi: invidia, sessismo, autoritarismo. Contro tutto questo, i bambini vogliono fare la rivoluzione, sacrificando nel gesto le loro stesse vite, nel rifiuto di crescere per non allinearsi a quel modello. I bambini di Ammaniti, invece, come quelli di Bruegel, sono già grandi, secondo il modello competitivo che ben conosciamo attraverso la tv. E la loro sola guida è Angelica, l’influencer cattiva, capace di riempire la scena con il suo carisma perverso.
Carlo Freccero
Nella sua lunga carriera televisiva, è stato responsabile del palinsesto di Canale 5 dal 1979 al 1983, quando è passato a Italia 1 e poi a Retequattro. Nel 1985 assume la direzione di La Cinq. È direttore di Italia 1 dal 1987 al 1992, poi torna in Francia come responsabile di France 2 e France 3. Nel 1996 dirige Raidue e poi lancia Rai 4; infine torna a Raidue nel 2018. È stato consigliere d'amministrazione della Rai dal 2015 al 2019. Insegna presso l’Università di Genova.
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