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La prospettiva del drone

Dal campo di battaglia ai film, dalle riprese professionali agli amatori e ritorno. Come un piccolo apparecchio volante (e ronzante) ha cambiato i confini del visibile.

Il drone cambia la sintassi del cinema ma anche della tv, entrando nella cronaca e nella realtà del flusso delle news. Slavine, valanghe, alluvioni, terremoti: il drone diventa l’occhio impietoso che svela e avvicina ma al tempo stesso, per effetto della prospettiva, rimpicciolisce e allontana l’evento del giorno.

Il nome stesso è un’onomatopea. In inglese, una tra le lingue europee più creative dal punto di vista linguistico, il verbo “to drone”, emettere un basso ronzio, è diventato il nome del piccolo oggetto che da un decennio sta cambiando la nostra prospettiva di produttori e consumatori di contenuti video.

L’idea di un piccolo apparecchio che vola, comandato da un pilota lontano, e grazie all’aiuto di un alto livello di automatizzazione, è nato in ambito sperimentale – la Nasa aveva fatto ricerche in questo campo per realizzare veicoli capaci di effettuare esplorazioni sulla superficie di altri pianeti – e ha subito attecchito in ambito militare. Dagli anni Ottanta, il drone è diventato uno strumento di ricognizione tattica ravvicinata e di attacco a distanza, capace di effettuare danni mirati senza mettere a rischio la vita dei piloti statunitensi. Funzionale a un tipo di conflitto asimmetrico, in cui propaganda e morale del fronte interno richiedono di tenere al minimo le proprie vittime, il drone è stato rapidamente metabolizzato come oggetto dal cinema e poi dalla televisione. All’inizio confuso dal pubblico con i missili comandati a distanza (con le ipnotiche riprese in soggettiva delle “bombe intelligenti” anti-bunker della prima Guerra del Golfo), il drone ha cominciato a diventare uno strumento narrativo ad alto contenuto tecnologico grazie a film di azione, militari e fantascientifici. È per esempio presente in Riddick (David Twohy, 2013), terzo capitolo della saga omonima, come in decine di altre pellicole. È l’occhio del nemico o dell’autorità che guarda dal cielo, lo strumento muto ma spietato per l’azione (o la reazione) dei buoni. Abusato nei film di James Bond e in quelli tratti dai romanzi di Tom Clancy, con il drone si spiano (e puniscono) i terroristi, e prima ancora i narcotrafficanti in Colombia o in Messico. È l’occhio e la saetta di Zeus, che colpisce in maniera parzialmente cieca ma sostanzialmente spietata.

Da soggetto a oggetto di ripresa

L’accordo di fondo portato dal brusio del drone cambia però radicalmente quando da soggetto diventa oggetto di ripresa. E quando il costo della tecnologia si abbassa sistematicamente.

Con l’aiuto del drone (e dello schiacciamento caratteristico degli obiettivi grandangolari, la cui estetica digitale è stata definita dalle action-camera GoPro Hero), i movimenti di macchina in fase di ripresa assumono una caratteristica iper-reale che fa sembrare simulata una situazione invece “naturale”. Le conseguenze sono notevoli, con la nascita di un cinema che cerca di realizzare “in camera” quegli effetti speciali che possono sembrare frutto di manipolazione digitale, come fa Joseph Kosinski nel suo Oblivion (2013), o di aumentare l’effetto estetizzante di riprese prima affidate a un mix di complessi movimenti di carrello e gru.

Ma il drone, com’è sua natura, fa ben di più che non sostituire l’attrezzatura tradizionale. Ecco dunque piani-sequenza onirici che sollevano il punto di vista dello spettatore attraverso cleavage tra montagne o grattacieli, o gli improvvisi innalzamenti della prospettiva con rapidi “decolli” verso l’alto e i tuffi (magari dalla finestra) verso l’abisso. E gli inseguimenti mozzafiato per terra e per mare, in spazi e con modalità che renderebbero fisicamente impossibile l’azione a un operatore video in carne e ossa.

Il drone cambia la sintassi del cinema ma anche della tv, entrando nella cronaca e nella realtà del flusso delle news. Accanto e al posto delle più costose riprese in elicottero, il drone permette di alzarsi sopra la folla e di vedere con un colpo d’occhio lo scenario di un incidente, una manifestazione, un disastro naturale. Slavine, valanghe, alluvioni, terremoti: il drone diventa l’occhio impietoso che svela e avvicina ma al tempo stesso, per effetto della prospettiva, rimpicciolisce e allontana l’evento del giorno. Il dramma diventa iper-reale ma freddo, e la modalità di consumo si spettacolarizza, arrivando a toccare l’estetica di un videogame. È l’occhio ideale per l’esterna della tv di flusso del mattino, che mescola spettacolo e cronaca a tinte forti, con sottolineature in studio che interpretano le immagini.

La freddezza della distanza di un occhio divino, che sorvola (e colpisce) solo dall’alto e da lontano il piccolo mondo degli uomini, non è in grado di esplorare il dramma dei sentimenti e delle passioni terrene. È il limite della prospettiva del drone.

Moltiplicazione

Non è finita, perché la prospettiva del drone cambia ancora con il crollo dei prezzi degli apparecchi, come quello delle action-camera, che porta il rumoroso dispositivo multielica di ripresa nelle mani di un pubblico di appassionati sempre più vasto. Che sa di potersi appoggiare su YouTube e su Vimeo per condividere per esempio le riprese non autorizzate del cantiere del nuovo quartier generale di Apple a Cupertino (“l’astronave che è appena atterrata”, come lo definì lo stesso Steve Jobs), mesi prima dell’inaugurazione ufficiale, o una spettacolare prospettiva su una montagna, una città irta di palazzi, un’area industriale dismessa, un’arrampicata non autorizzata sulla guglia di un grattacielo mediorientale o dell’Est europeo. Sono video senza regia, a malapena trattati con rudimentali forme di montaggio: ma la genuinità di un approccio alla “buona la prima” senza cesure di sequenza è la cifra caratteristica degli oggetti visivi non identificati prodotti da miriadi di appassionati in rete.

Fino ad arrivare a oggi, in cui il drone è lo strumento accettato di ripresa per immagini normali, addomesticate. La sua esibizione è prova di modernità ma il suo impiego, anche a causa del crescente portato delle regolamentazioni, si limita alla spettacolarizzazione del contesto: fenomenali e quasi impossibili riprese dell’ambiente circostante, che lasciano però la drammatizzazione del testo a campi ravvicinati che procedono attraverso stacchi e riprese fatti con più tradizionali videocamere condotte da operatori “umani”, incapaci di volare. Non a caso, infatti, la freddezza della distanza di un occhio divino, che sorvola (e colpisce) solo dall’alto e da lontano il piccolo mondo degli uomini, non è in grado di esplorare il dramma dei sentimenti e delle passioni terrene. È il limite della prospettiva del drone.


Antonio Dini

Giornalista e saggista. Scrive di informatica e negli ultimi anni ha pubblicato libri e articoli sia per la carta stampata sia online. Dal 2002 ha un blog, Il posto di Antonio.

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