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Cultura digitale

Abbasso l’originalità

Mentre la serialità televisiva è ossessionata dall’originalità, online è fondamentale il concetto opposto, la replicabilità. E a trionfare sono i “media contagiosi” capaci di essere adottati rapidamente da tutti.

Pubblichiamo un estratto dal progetto Scrolling infinito. Come creare contenuti per vincere la guerra dell’attenzione. È un testo dedicato a chi vuole approfondire come consumiamo e soprattutto produciamo contenuti nelle piattaforme digitali. Un manuale che ha la forma di un sito e che come un’app o un software può continuare ad aggiornarsi per resistere all’usura del tempo e dei cambi a cui è sottoposta la tecnologia.

In Italia siamo ossessionati dalle idee. Sarà perché ci dipingono come un paese di tipi ingegnosi, ma nella nostra cultura, più ancora che altrove, siamo abituati a pensare che una sola buona trovata messa a segno di tanto in tanto basti a portare a casa il risultato. Il trionfo di questo ragionamento lo abbiamo visto nei titoli di testa delle nostre ultime serie tv preferite: “Da un’idea di Stefano Accorsi”, “Da un’idea di Roberto Saviano”, gli attestati di paternità fioccano, al punto da essere diventati tormentoni ironici nei social network dove nessuno si azzarda a proferire parola senza appiccicare davanti un hashtag #daunideadi.

Ricerca di autenticità

Roland Barthes la chiamava la “tenacità dell’autore”: la predisposizione umana a pensare che qualunque opera d’ingegno venga principalmente dal lavoro di un’unica persona che nella solitudine del suo studio ha un’incredibile illuminazione magari indissolubilmente legata alle proprie vicende personali. Una narrazione romantica – per questo ce ne siamo innamorati! – di una questione ben più complessa che con l’avvento di internet risulta più che mai improbabile. Chi aveva a cuore la questione era anche il solito Bruno Munari che distingueva proprio tra il concetto di “idea” e quello meno tossico di “creatività”: “Sarà appunto la creatività a sostituire l’idea intuitiva, ancora legata al modo artistico-romantico di risolvere un problema. La creatività quindi prende il posto dell’idea e procede secondo il suo metodo. Mentre l’idea, legata alla fantasia, può proporre soluzioni anche irrealizzabili per ragioni tecniche o materiche, oppure economiche, la creatività si mantiene nei limiti del problema, limiti che risultano dall’analisi dei dati e dei sottoproblemi”.

La fissa per il guizzo e in genere per l’autenticità non appartiene solo al mondo del design o dei film e delle serie tv, anzi. Questa chimera tocca orizzontalmente qualunque tipo di espressione creativa. Nella musica c’è da sempre una rincorsa al disco rock “più vero possibile” che in molti hanno identificato nel fenomeno del punk. Il più schietto e basilare tra i generi che in verità era nato come uno stunt pubblicitario studiato a tavolino dal produttore Malcolm McLaren. Persino il porno non riesce a evitare questo paradosso, anche in quell’ambito c’è una caccia alla scena di sesso più realistica possibile. Un’ipocrisia che, come notano molte performer professioniste, cancella il fatto che quello dell’attrice porno è un lavoro a tutti gli effetti e non un hobby da fare gratuitamente e a tempo perso.

L’autenticità insomma è un McGuffin della cultura: in gergo cinematografico si chiamano così i pretesti narrativi che servono a portare avanti una storia. Si tratta di espedienti senza un reale impatto nella vicenda indispensabili però per arrivare in fondo alla narrazione. “Immature poets imitate; mature poets steal”. Le parole di T.S. Eliot negli anni sono diventate un inno della cultura web spesso sintetizzate nel claim Steal like an artist (titolo di un celebre pamphlet) o Everything is a remix (una serie di video-explainer virali). Il succo è semplice: nulla è completamente originale, tutto è frutto di una rielaborazione più o meno complessa di materiale precedente e non bisogna soltanto farsene una ragione ma iniziare a non avere remore nel prendere in prestito il lavoro altrui dirottandolo a seconda dei nostri bisogni. Scriverlo dopo quasi cinquant’anni dai primi remix e re-work della tradizione dub e hip-hop sembra spaventosamente banale ma come abbiamo già avuto modo di scrivere l’idea del genio solitario seduto alla scrivania è qualcosa che sembra impiantato nel nostro cervello e ricordare una volta in più quanto sia sbagliata non può far male. 

La storia di queste pratiche musicali è lunga e largamente documentata, la racconta anche Jonathan Lethem nel saggio L’estasi dell’influenza dedicato proprio all’argomento dell’originalità e costruito su un elaborato taglia e cuci di materiale altrui. “I musicisti blues e jazz da molto tempo si avvalgono di una cultura open source in cui frammenti melodici preesistenti e strutture musicali più ampie vengono liberamente rielaborati. La tecnologia non ha fatto altro che moltiplicare la possibilità: i musicisti hanno acquistato la facoltà di letteralmente duplicare i suoni, invece di limitarsi ad alludervi con qualche approssimazione. In Giamaica, negli anni settanta, King Tubby e Lee ‘Scratch’ Perry decostruirono la musica registrata impiegando tecnologie predigitali incredibilmente primitive, creando quelle che loro chiamavano ‘versioni’. La natura ricombinatoria dei loro mezzi di produzione fu assimilata in breve dai dj di New York e di Londra. Oggi, un processo infinito, orgogliosamente ibrido ed essenzialmente sociale, genera una quantità incalcolabile di ore di musica”.

Il processo con cui i contenuti viaggiano in rete somiglia al gioco che tutti abbiamo fatto da bambini: il telefono senza fili. Si conosce la parola da cui si è partiti ma a ogni passaggio alcuni livelli del significato si perdono, altri si aggiungono e alla fine del giro il risultato è talmente diverso da non somigliare più alla definizione da cui avevamo iniziato.

A parlare di versioni, questa volta però applicate a tutto lo scibile della cultura digitale, è anche l’artista e curatore Brad Troemel che propone un neologismo, versioning, per descrivere il processo secondo cui online uno strato di significato si aggiunge a quello precedente in un moto continuo e apparentemente infinito. “Invece di mantenere una connessione all’originale ogni nuova versione perde contatto con il luogo da cui proviene, dal suo autore e dal momento in cui è stato prodotto. Questo graduale rimodellamento, conosciuto anche come paradosso della nave di Teseo è il processo che Plutarco descrive quando gli viene chiesto se una nave che è stata riparata sostituendo tutto il legno di cui era composta è ancora la stessa nave di prima”. Continua Troemel: “Se la definizione di remix descrive una cosa che ha un inizio, uno sviluppo e una conclusione allora questa continua evoluzione differisce dal remix nel non avere una conclusione e nel dimenticare il suo punto di partenza”. 

Un processo continuo

Il processo con cui i contenuti viaggiano in rete somiglia al gioco che tutti abbiamo fatto da bambini: il telefono senza fili. Si conosce la parola da cui si è partiti ma a ogni passaggio alcuni livelli del significato si perdono, altri si aggiungono e alla fine del giro il risultato è talmente diverso da non somigliare più alla definizione da cui avevamo iniziato. 

Internet, come scrive il giornalista e fondatore di Wired Kevin Kelly è, al suo grado più basilare un’enorme macchina fotocopiatrice: “Copia ogni azione, ogni personaggio, ogni pensiero che facciamo mentre la stiamo utilizzando. Per inviare un messaggio da un angolo all’altro della rete i protocolli di comunicazione chiedono che l’intero messaggio sia copiato strada facendo più e più volte. Le aziende tecnologiche fanno molti soldi vendendo attrezzature che facilitano questa continua imitazione. Ogni bit di dati mai prodotti su qualunque computer sono copiati da qualche parte. L’economia digitale è dunque fondata su un fiume di copie. A differenza delle riproduzioni prodotte in massa nell’era della riproducibilità queste copie però non sono soltanto convenienti, sono gratuite”. Chi aveva sognato qualcosa di molto simile è stato l’artista Sol LeWitt che già negli anni Sessanta parlava di una “macchina per produrre arte”. Qualcosa di simile accade oggi quando una qualunque idea, lasciata vagare online per un tempo sufficiente, solo per la ragione di esistere, è destinata ad avverarsi in qualche modo a qualche punto nel tempo per mano di chi magari non ne conosce neppure l’origine. Secondo LeWitt tutte le decisioni necessarie a creare un’opera andrebbero prese in anticipo e l’esecuzione effettiva dovrebbe diventare semplicemente un compito, un’azione che non richiede troppo pensiero, né tantomeno dei sentimenti autentici.

Per LeWitt l’arte non deve basarsi sull’abilità e, pur rimanendo interessato alla produzione del lavoro, questo deve essere liberato dal suo creatore. Un’opera potrebbe essere assemblata e realizzata, seguendo le indicazioni di partenza, in qualunque luogo e in qualunque momento, proprio come accade con i format di cui abbiamo parlato basati su “bibbie” che ciascuno può leggere e applicare. Tra il 1968 e la sua morte LeWitt realizzò più di 1.200 dipinti murali, solo in parte fatti in prima persona e più spesso eseguiti da una squadra di assistenti che hanno portato avanti il lavoro anche dopo la sua scomparsa. Impossibile non pensare alla parabola di moderni imprenditori come il rapper Kanye West che per la realizzazione di ogni disco si circonda di una quantità di collaboratori, produttori e consulenti creando un think-tank in grado di eseguire in autonomia la visione originale da lui comunicata, proprio come un software in cui sono stati inseriti i parametri corretti a cui basta pigiare “esegui” per completare il lavoro. Viene in mente anche la battuta del film Steve Jobs sceneggiato da Aaron Sorkin in cui il guru della Apple interpretato da Michael Fassbender risponde alle critiche del suo ex collaboratore Steve Wozniak che lo accusa di non saper fare nulla di specifico: né programmare, né disegnare interfacce software o hardware. “Io suono l’orchestra e tu sei un buon musicista”, gli risponde Jobs mettendo l’accento su come sia più importante concentrarsi sul quadro generale piuttosto che focalizzarsi su un aspetto specifico. 

Supremazia dell’arte combinatoria

E in effetti quale migliore dimostrazione della supremazia dell’arte combinatoria sulla pura creazione che quella contenuta nella parabola della Apple? Sin dal primo Macintosh la grande intuizione dell’azienda, e di Steve Jobs, fu quella di mutuare certi aspetti dai precedenti modelli dei competitor e miscelarli tra di loro con l’obiettivo –  inedito – di creare un hardware ultra-semplificato destinato agli utenti comuni che altrimenti non si sarebbero mai sognati di possedere un computer casalingo. Questo concetto di un’idea bastante a sé stessa sembra quanto di più distante dal motto degli startupper secondo cui l’esecuzione è ben più importante dell’intuizione iniziale e che il genio sia “1% intuizione e 99% sudore”. Una distanza soltanto apparente se pensiamo all’attuale funzionamento dell’economia digitale dove a governare sono proprio i software, codici che vengono eseguiti automaticamente dalle macchine e infinitamente scalabili e riproducibili. Proprio questi codici di programmazione sono quanto di più vicino ai manuali per realizzare le proprie opere d’arte curate da LeWitt. 

Chi mette davvero in pratica l’idea è il suo architetto o il designer di un contenuto. Sarà lui a dover trovare le idee da ricombinare in un nuovo progetto, assemblare il giusto team in grado di realizzarle e creare una strategia coerente perché questo possa avere successo. Continuano insomma a essere vere entrambe le affermazioni: è la realizzazione la parte più importante di un progetto solo che questa non risiede più soltanto nella mera applicazione materiale quanto nella progettazione da cui si parte. 

A citare di nuovo LeWitt è Jonah Peretti, tra i fondatori di colossi dei media digitali come Huffington Post e BuzzFeed, che ancora studente universitario descriveva il concetto di contagious media (diverso tempo prima che il mondo li chiamasse semplicemente contenuti virali) proprio a partire dalle intuizioni del pittore americano. “I media contagiosi sono una forma di arte concettuale pop dove l’idea è che è la macchina a produrre arte (LeWitt 1967) e l’idea è qualcosa di interessante per la gente comune”. Peretti continuava poi scrivendo così: “Un contenuto contagioso rappresenta la forma di idea più semplice. Un design ricercato o elementi estranei rendono il contenuto meno contagioso. Qualunque cosa che non sia essenziale è da considerarsi un carico inutile che il contagio si deve trascinare dietro mentre si diffonde. Il lavoro di un artista può essere riconosciuto anche quando è apprezzato soltanto da un piccolo gruppo di persone o curatore e collezionisti, per il designer di contenuti contagiosi invece tutto quello che conta è come le altre persone vedono il suo lavoro. Se il pubblico non condivide il lavoro con i propri amici è un fallimento, indipendentemente dall’opinione del creatore, dei critici o delle élite”. 

“La rete ha capovolto il normale meccanismo secondo cui bisogna creare arte per riuscire ad avere un pubblico”, scrive Troemel, e “l’artista che oggi lavora su internet ha bisogno di un pubblico per poter creare la propria arte. La fanbase di un ‘aesthleta’ diventa parte stessa del suo lavoro”. La visibilità del proprio brand personale guadagnata in un luogo di abbondanza come la rete va investita dove ci sia scarsità di altri beni e servizi: concerti, libri, licensing, merchandising e chi più ne ha più ne metta.

Questa definizione di un contenuto mediale che ha ragione di esistere solo se testimoniato da una platea è contenuto anche nella definizione di Athletic Aesthetics sempre di Brad Troemel. Secondo questa categoria chiunque produca media online viene spinto a farlo a ciclo continuo con l’obiettivo di produrre una massa di lavori in grado di creare una fanbase pronta a recepirli. Senza di questa qualunque nostro sforzo sarebbe inutile imitando il famoso albero nella foresta ma che cade ma non produce rumore perché nessuno è lì ad ascoltare. “La rete ha capovolto il normale meccanismo secondo cui bisogna creare arte per riuscire ad avere un pubblico”, scrive Troemel, e aggiunge che “l’artista che oggi lavora su internet ha bisogno di un pubblico per poter creare la propria arte. La fanbase di un ‘aesthleta’ diventa parte stessa del suo lavoro”. La visibilità del proprio brand personale così guadagnata in un luogo di abbondanza come la rete va investita dove ci sia scarsità di altri beni e servizi: concerti (Covid permettendo), libri, licensing, merchandising e chi più ne ha più ne metta. 

Genio non originale

Prendendo per buone le cose scritte da Peretti (BuzzFeed nel 2020 è valutato quasi 2 miliardi di dollari) e seguendo le altre argomentazioni accumulate fino a questo momento vi invito dunque a cercare di non essere originali. Un’idea originale è infatti più difficile da copiare e quindi si diffonderà online più lentamente. La logica della cultura digitale in cui vi troverete a lavorare è quella che avvantaggia il cosiddetto “genio non originale” capace di capire l’essenzialità di un meccanismo tecnologico o narrativo per poi imitarlo e migliorarlo. Pensiamo alle più grandi storie di successo tecnologico degli ultimi decenni. Google o Facebook non sono affatto idee originali. Il primo è un motore di ricerca come già ne esistevano che ha avuto il merito di migliorare e affinare un meccanismo che altri avevano messo in piedi in precedenza. Stessa cosa per Facebook che non è certo il primo social network della storia ma soltanto una piattaforma più stabile e con una serie di funzioni migliori di molte altre già in circolazione, e proprio per questo capace di surclassarle nel tempo. Ricordate la battuta di Mark Zuckerberg interpretato da Jesse Eisenberg in The Social Network ai gemelli Winklevoss che lo accusano di avergli copiato l’idea? “Se voi foste gli inventori di Facebook, avreste inventato Facebook”, come a dire: l’idea era davanti ai vostri occhi, bisognava solo trovare la maniera di eseguirla nel modo corretto. 

Chi la pensa esattamente in questa maniera è anche Peter Thiel, uno dei più celebri super cattivi della Silicon Valley, balzato ultimamente alle cronache per essere stato uno dei consiglieri di Trump in materia tecnologica deve la sua enorme ricchezza all’essere uno dei fondatori di PayPal assieme a Elon Musk. Nella sua conferenza tenuta a Stanford ed eloquentemente intitolata Competition is for Losers Thiel ribadisce l’importanza di essere gli ultimi della fila, capaci di ipotecare un determinato settore negli anni a venire: “Nella Silicon Valley c’è questa idea di essere i primi a entrare in un mercato, e invece il giusto modo di vedere le cose è voler essere gli ultimi, l’ultima azienda in una determinata categoria: queste sono quelle che hanno davvero valore. Microsoft è stato l’ultimo sistema operativo per molti decenni, Google l’ultimo motore di ricerca […]. Un modo di comprendere il valore dell’essere gli ultimi in un mercato è nell’idea che il valore più grande di queste aziende esisterà in un lontano futuro”. 
L’unico modo di essere originali è insomma migliorare continuamente il proprio lavoro non originale. Persino l’enorme peso commerciale e vantaggio strategico dei giganti del web spesso non è sufficiente a vincere la partita. Lo abbiamo visto anche durante la pandemia, quando il software video più utilizzato è stato Zoom, prodotto da un’azienda che non fa parte di alcun colosso della Silicon Valley e che senza inventare nulla di nuovo ha migliorato processi e strutture già in circolazione riuscendo a battere una concorrenza come quella di Google (Meet) e Microsoft (Skype). Lo psicologo del lavoro Adam Grant nel suo celebre Ted Talk (uno dei più visti in assoluto) sintetizza quanto l’originalità sia sopravvalutata: “Per essere originali non serve arrivare primi, basta essere diversi e migliori”.


Andrea Girolami

È uno dei coordinatori della Digital Content Factory di Mediaset. In passato ha lavorato per Wired Italia, MTV e ideato il format web Pronti Al Peggio. Ha scritto Atlante delle cose nuove, saggio dedicato alla cultura digitale (2015).

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