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Cultura digitale

La caduta di Clubhouse

Sembrava il futuro dei social, ma è durato pochissimo. Dopo la sbornia iniziale, le stanze audio si sono rivelate deserte, oppure popolate da tipi strani. Altro che il futuro della sfera pubblica…

Non andrà tutto bene e, sicuramente, non è andato tutto bene, almeno per Clubhouse, la piattaforma social audio che per neanche un anno è stata the next big thing. Creatura di Paul Davison e Rohan Seth alle soglie della pandemia da Covid-19, disponibile inizialmente su invito (come per la massoneria) e a patto di usare un sistema iOS, la piattaforma si è imposta da subito per la sua natura dicotomica, che conteneva, in nuce, i semi dell’autodistruzione. Da una parte, i primi utenti di Clubhouse erano esperti di comunicazione, giornalisti, influencer e, in seguito, vip, che davano l’impressione di essere di fronte al primo social democratico della storia di internet, dove non c’erano barriere e potevi interagire con il ragazzino di provincia o con Morgan o Elon Musk. Al contempo, dall’altra, l’esclusione del segmento enorme di utenti Android puzzava come la prossima pessima idea, come la riformulazione della Coca Cola nel 1985 o il lancio del Minidisc (MD). Gli utenti Android, e gli italiani, arrivarono che l’app mostrava le prime sfilacciature. Secondo i dati nel febbraio 2021 (complici le restrizioni per il Covid) gli utenti giornalieri erano 4 milioni; 9 mesi dopo erano meno di un milione.

Tappe di una catastrofe

Ma che cos’è successo? Clubhouse non univa solo famosi e meno famosi, utenti pro e amatoriali, podcaster con talenti naturali, truffatori e uomini d’affari, ma si proponeva come applicazione che univa trasversalmente diverse generazioni lasciando a chiunque la possibilità  di trovare o creare la propria nicchia/frammento identitario. Volevi la room per rimorchiare? L’avevi. Quella per parlare di criptovalute? Era lì. Amanti di forma di vita aliena? Il gruppo dei Semi delle Stelle era pronto ad ascoltarti. Senza dimenticare le stanze di buongiornisti che, tra una fila in macchina e una corsa alla metro, si riunivano per darsi il buongiorno e chi, come tantissimi, aveva bisogno di commentare i fatti del giorno una volta conclusa la giornata d’ufficio. Queste filter bubble sonore hanno permesso da una parte di smorzare la tensione creata inizialmente, dall’altra sono andate a sgonfiare quella promessa di parità già tradita dagli altri social.

Poco male, però, non c’era l’impegno forzato come Lobby, Zoom o Skype di vedersi per forza (in queste app c’è sempre stata l’opzione per togliere la videocamera) e il contenuto era il messaggio. Allo stesso tempo su Clubhouse i creatori di contenuti faticavano a emergere senza un game plan da parte degli sviluppatori, e un effettivo controllo qualità, condizione necessaria per la proliferazione del social stesso. La qualità iniziava a scarseggiare, se c’è mai stata, creando un effetto domino che allontanava gli utenti che si riunivano meno nelle stanze di creator e influencer per approdare in luoghi meno “alti”. E in tutto questo c’è sempre stato il problema del monitoraggio, del filtrare i contenuti offensivi, volgari o diffamatori, soprattutto nelle stanze con molti utenti. Clubhouse ha sempre impedito ai suoi utenti di registrare, a meno che non fosse il demiurgo della stanza, segmenti o l’intera durata della conversazione, pena il ban al terzo strike.

Il modo in cui è stata strutturata la home, la pagina principale dell’app, non ha aiutato gli utenti: dispersiva, con un sistema di ricompense variabili basato su quante più persone segui. Ti notifica se le persone che segui sono in una stanza, ma non sai se la stanza può interessarti: è quasi come se la struttura stessa del social si basasse sul caso, sulla noia, sulla paura di rimanere esclusi da una conversazione inaspettata.

Se in Twitter, soprattutto nel 2015, si è parlato di uno spazio condiviso con gli altri utenti che permettesse un safe space a ogni utente (specie famoso), Clubhouse mancava di moderatori analogici e di un software adeguato che cogliesse il sentiment negativo nell’uso di alcune parole o frasi. Non solo negli Stati Uniti, ma anche a chiunque in Italia, credo sia capitato in qualche room di essere insultato o diffamato senza poter segnalare la violazione, o senza che effettivamente il troll o la persona in questione fosse bannata. Un altro tasto dolente era la possibilità di aggiungere link a social esterni, su Instagram e Twitter, che andava, inevitabilmente, a de-potenziare la natura stessa dell’applicazione: un social basato sull’audio che permetteva agli utenti di associare la loro voce a un’immagine ha creato, immediatamente, un Deep Clubhouse, con room chiamate, soprattutto tra i giovanissimi, “Bombi o passi”. Lo scopo di stanze con questo nome (o simili) era giudicare in base all’icona del profilo (e sbirciando il profilo Instagram) se una persona meritava di essere bombata oppure ignorata, applicando lo stesso concetto in modo più brutale, dello swipe a destra o sinistra di Tinder, Badoo o Bumble.

La deriva più agghiacciante non è neanche questa, e a ben pensarci quelli della Generazione Z sono riusciti, in qualche modo, a monetizzare la loro immagine social accrescendo i propri follower, ma i gruppi di crescita finanziaria, di solito relegati nelle pubblicità visibili su YouTube, razzisti, hater vari della comunità LGBTQI+, e così via. Il modo in cui è stata strutturata la home, la pagina principale dell’app, non ha aiutato gli utenti: dispersiva, con un sistema di ricompense variabili basato su quante più persone segui. Clubhouse ti notifica se le persone che segui sono in una stanza, ma non sai se la stanza può interessarti: è quasi come se la struttura stessa di questo social si basasse sul caso, la noia e la paura di rimanere esclusi da una conversazione che può prendere una piega inaspettata.

Cambi di strategia

Il mese scorso Paul Davison ha annunciato un cambio di strategia che dovrebbe portare a room più piccole e intime. Clubhouse ha implementato la funzionalità chiamata Houses, secondo Bloomberg, in modo da creare club privati in cui “solo su invito, gli utenti potranno parlare liberamente”. Twitter ha risposto con Space, ma Davison afferma che la concorrenza mira a un prodotto broadcast, mentre Clubhouse a conversazioni e amicizie. In questo, Davison e soci si mostrano ancora confusi su come monetizzare e lasciare che i propri utenti monetizzino (come succede per Tik Tok e altre piattaforme). Clubhouse potrebbe accostarsi ad applicazioni come Discord, e come quella ha implementato la chat alle room, ma senza la possibilità di condividere schermate, musica e video si accontenterà di essere di nicchia, non rispettando le promesse iniziali; e senza considerare che gli spazi privati, basati su inviti e follower vari, li ha anche Lobby, con la possibilità, anche qui, di integrare video e condividere musica da Spotify, video da YouTube e la condivisione dello schermo. La bellezza iniziale di Clubhouse, oltre a non dover cercare un nuovo podcast e perdersi nell’universo di stimoli che ci offre la banda larga, bypassando le live dei musicisti su FB, o le chiacchiere tra divulgatori culturali su Instagram e YouTube, è che in questo social potevi interagire facendo altro, in una versione pro-attiva della radio.

In Italia potevi trovare Oliviero Toscani ridere e scherzare con colleghi e amici parlando – se capitava – di fotografia; la Gialappa’s Band commentare Sanremo e non solo; Morgan parlare di musica, il tutto mentre in home fioccavano improvvisati e stelle mancate parlare di quotidianità, arte, vita; o persone si addormentavano nella room tenendola aperta per sentirsi meno soli nell’epoca più solitaria della Storia.

In Italia

Un caso a parte del declino di Clubhouse è quello italiano. Quando l’app è arrivata in Italia, negli Stati Uniti stava per intraprendere quella china discendente che faceva presagire il peggio già da marzo 2021: da 9.6 download di febbraio a 2.7 di marzo. Nel giro di poche settimane potevi trovare Mario Adinolfi moderare grosse stanze a tema politico e di attualità; Oliviero Toscani ridere e scherzare con colleghi e amici parlando – se capitava – di fotografia; la Gialappa’s Band commentare Sanremo e non solo; Morgan parlare di musica, il tutto mentre in home fioccavano stanze di Bombi o Passi, no vax che litigavano con pro vax (d’altronde il social è stato favorito dalle nostre reclusioni domestiche); femministe intersezionali nel loro tentativo di divulgazione culturale; improvvisati e stelle mancate parlare di quotidianità, arte, vita; o ancora persone si addormentavano nella room tenendola aperta per sentirsi meno soli nell’epoca più solitaria della Storia.

Clubhouse come ogni social, e forse più di altri, funziona sul coinvolgimento delle persone, sulla base delle persone che ci sono in una stanza, e se tutti lasciano la stanza quella cessa di esistere. Sono le persone a fare la differenza, sempre, indipendentemente da un software di machine learning fallace, dai troll, dagli hater, dalla possibilità di farsi notare dal famoso di turno, dalla voglia di fare soldi, di trovare followers o cercare qualcuno per un solitario sexting mentre fuori il mondo è al collasso. Insomma, l’ultimo spenga la luce o, meglio ancora, qualcuno chiuda la stanza.


Maria Eleonora C. Mollard

Nata in Argentina arriva in Italia nel 1990 per subire e assorbire tutta la cultura pop di un grande decennio. A quattro anni vede Freaks ed è subito epifania col cinema. Passa l’adolescenza a disegnare fumetti, guardare film e serie tv. Viaggia col padre, divora musica durante le traversate nel Mediterraneo sviluppando così un atteggiamento ossessivo-compulsivo verso le sue passioni. Affronta la guerra civile del precariato scrivendo articoli, girando cortometraggi e fantasticando sulla generazione in declino di cui fa parte.

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