Alcuni giochi usano tecniche di generazione procedurale per costruire mondi enormi, percorribili da chi dopo aver finito la quest principale ha tempo e voglia di esplorarli. Rischiando un po’ di angosciosa noia.
Il critico videoludico è una professione terrificante. Per far uscire la propria recensione allo scadere dell’embargo, il malcapitato si ritrova a giocare a rotta di collo titoli che contengono alle volte cento, duecento ore di contenuti. Immagino soluzioni stile “cura Ludovico” per sciropparsi in pochi giorni giochi che, per mantenere contezza di sé, richiederebbero almeno due o tre mesi. Il risultato è che le prime recensioni di titoli molto grandi sono da prendere con le pinze, essendo probabilmente influenzate da severa privazione del sonno ed ettolitri di bevande caffeinate. Un caso esemplare è Starfield, pubblicato il 6 settembre per Windows e Xbox da Bethesda, azienda adesso di proprietà di Microsoft e publisher in passato di franchise leggendari quali The Elder Scrolls e Fallout.
Open world ambientato nello spazio, pompato dal marketing di Microsoft come una sorta di Gta galattico, Starfield è una nuova proprietà intellettuale, fatto di per sé degno di nota in un contesto videoludico dominato da remake e reboot. I giocatori si calano nei personalizzabilissimi panni di un minatore (o minatrice o quello che volete voi) spaziale che, per una serie di circostanze, si unisce a un gruppo di avventurieri alle prese con un mistero cosmico. Corre l’anno 2330, la Terra è stata abbandonata, gli esseri umani hanno colonizzato una sfilza di altri pianeti e tutti scorrazzano per lo spazio in astronave. Il vero mistero cosmico è forse l’assenza di ogni mezzo di terra, neanche un misero rover: a parte correre, l’unico modo per esplorare un pianeta è con dei jetpack deliziosamente vintage (in generale, l’estetica del gioco, ribattezzata “Nasa punk”, si ispira al futurismo anni Settanta).
La storia principale e le più importanti quest secondarie, niente di trascendentale, si esauriscono in cinquanta, settanta ore e a questa esperienza di gioco hanno fatto probabilmente riferimento i caffeinati critici di cui sopra nelle loro recensioni che sono state perlopiù positive (il gioco ha racimolato un dignitoso 84/100 su Metacritic, l’aggregatore di recensioni). Ma l’universo di Starfield conta più di mille pianeti esplorabili, sparpagliati tra cento e passa sistemi solari. Completata la storia principale, ho passato quindi qualche ulteriore decina di ore a zonzo nella “magnifica desolazione”, per citare Buzz Aldrin, di pianeti brulli e privi di vita, noiosissime distese grigio-marrone senza niente da fare se non scattare foto a delle rocce insignificanti sotto cieli plumbei. Una sorta di turismo del nulla cosmico.
Generazione procedurale e nichilismo
Nel 2016, la casa di produzione britannica Hello Games pubblicò No Man’s Sky, un gioco che permette di esplorare un universo potenzialmente composto da 18 quintilioni di pianeti (18 seguito da 18 zeri). Per creare uno spazio virtuale così grande da essere difficile anche solo da concepire, Hello Games ricorse alla generazione procedurale, vale a dire, semplificando, a una serie di algoritmi che generano automaticamente porzioni di videogioco nel momento in cui il giocatore vi si reca. All’uscita, No Man’s Sky non ricevette un’accoglienza particolarmente calorosa. Principalmente, gli si rimproverò che negli ambienti generati proceduralmente non c’era quasi niente da fare, se non vagare di pianeta in pianeta, luoghi spesso desolati e privi di vita, come del resto è l’universo, quello vero. Insomma, la generazione procedurale dura e pura mal si adatta alle esigenze di svago del videogiocatore medio, ma rispecchia il caos randomico, noioso e privo di trama che è la realtà cosmica in cui ci troviamo. Nel corso degli anni, Hello Games ha apportato varie modifiche a No Man’s Sky, tra cui la modalità multiplayer e contenuti aggiuntivi, rendendolo più simile a un gioco per svagarsi che a una lezione hardcore di filosofia nichilista.
Open world ambientato nello spazio, pompato dal marketing di Microsoft come una sorta di Gta galattico, Starfield è una nuova proprietà intellettuale, fatto di per sé degno di nota in un contesto videoludico dominato da remake e reboot.
Starfield ha optato fin da subito per un approccio ibrido, utilizzando la generazione procedurale per gli ambienti di gioco più periferici ma “facendo a mano” gli spazi dove sono ambientate le vicende narrative principali. Il risultato è che, se da un lato ci sono contesti brulicanti di vita e di cose da fare, dall’altro ci sono ansiogeni appezzamenti di nulla che ci ricordano che, su scala cosmica, la vita non è nient’altro che un accidente. Questo senso di terrore esistenziale mi ha colpito mentre provavo a scalare col mio piccolo jetpack una montagna rocciosa di un pianeta privo di ogni attrazione. Arrivato con fatica e notevole dispendio di ossigeno in cima, ho potuto contemplare solo un anonimo deserto di pietra.
A rendere la situazione ancora più esistenzialmente terrificante in Starfield c’è anche il fatto che i personaggi non giocanti (Npc) non sono particolarmente brillanti, ma sembrano automi dal passo veloce e dallo sguardo vitreo. La cosa assume quasi i contorni di una teoria solipsista. Non solo la maggior parte dei pianeti di Starfield sono privi di vita, ma anche quando si incontra un essere in teoria senziente si ha l’impressione di trovarsi davanti a un guscio vuoto che ci ricorda che non abbiamo prove definitive che dimostrino l’esistenza di vita nell’universo al di fuori del nostro io. L’avevo detto che scrivere di videogiochi è un affare terrificante.
“Storyfield”: Il bisogno di storie come ossigeno
La generazione procedurale resta una tecnica molto promettente per sviluppare giochi sempre più grandi (auguri ai critici). Il problema è bilanciare spazi giganteschi con una narrazione che sia coerente e che lasci un numero ampio ma comunque limitato di scelte al giocatore. I videogiochi sono anche e a volte soprattutto un modo di raccontare storie e le storie hanno bisogno di limiti e percorsi prestabiliti anche se alle volte i titoli open world meglio riusciti come Red Dead Redemption II danno al giocatore l’illusione di essere libero di fare quello che gli pare. Pure Starfield ha i suoi momenti migliori quando integra illusione di libertà e storie predefinite. Capita di voler andare su un pianeta per vendere un’astronave o continuare una missione e di venire intercettati da un personaggio che ci chiede aiuto per cacciare una gang di criminali dalla sua fattoria. Mentre ci diamo alla filantropia galattica finiamo invischiati in una faccenda di contrabbando o in un gruppo di turisti spaziali che hanno un sacco di domande da farci sulla capitaneria cosmica. Di missione secondaria in missione secondaria, siamo risucchiati in un vortice di piccole storie e sotto-trame che spesso sono di gran lunga più divertenti della quest principale. E di sicuro meno ansiogene del vagare senza meta su pianeti deserti.
Se da un lato ci sono contesti brulicanti di vita e di cose da fare, dall’altro ci sono ansiogeni appezzamenti di nulla che ci ricordano che, su scala cosmica, la vita non è nient’altro che un accidente. Questo senso di terrore esistenziale mi ha colpito mentre provavo a scalare una montagna rocciosa di un pianeta privo di ogni attrazione. Arrivato con fatica e notevole dispendio di ossigeno in cima, ho potuto contemplare solo un anonimo deserto di pietra.
Insomma, se c’è qualcosa che si impara giocando a Starfield è che per noi umani le storie sono importanti tanto quanto l’ossigeno perché danno l’illusione di significato e coerenza in un mondo altrimenti random e privo di senso. Detto ciò, vale la pena investire le ore di vita che Starfield richiede? Per il momento, probabilmente no. Magari in futuro verrà rivoluzionato da patch ed espansioni e diventerà un titolo imprescindibile, un po’ come successo a Cyberpunk 2077, pubblicato pieno di problemi a dicembre 2020 e messo a posto nel corso di quasi tre anni con l’ultima patch ed espansione (Phantom Liberty, uscita il 26 settembre) che lo rende finalmente un gioco completo. Fino ad allora, ci si può divertire con minor perdita di tempo leggendo Il manifesto dei cosmonisti, umoristico pastiche fantascientifico dello scrittore svedese Mikael Niemi, edito da Iperborea nel 2007. “Il problema principale, quando si parla di spazio, è la sua disomogeneità”, scrive Niemi, “[…] al cervello umano non piacciono i frammenti. Quando si parla dello spazio, gli uomini preferiscono ascoltare una fiaba, un lungo racconto che finisce bene. O magari male. Ma comunque una fiaba, una trama, una stoffa vaporosa i cui fili sono tenuti insieme dall’ordito. […] Ma lo spazio non è così. Rimane indistinto, per quanto lo si osservi da vicino. […] Un quadro dipinto con tutti i colori, alla fine, diventa marrone come la merda [come confermano vari pianeti di Starfield, nda]. Partire per lo spazio significa scoprire che non c’è nessuna storia. È la cosa peggiore, più terribile e insostenibile e dunque lo ripeto ancora una volta: non c’è nessuna storia”.
Davide Banis
Lavora per una casa editrice danese. Nel tempo libero, scrive.
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