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Immaginari

Joker, La Casa di Carta e la maschera ambigua del populismo

Le polemiche che si sono sviluppate attorno alla nuova incarnazione di Joker, vincitrice a Venezia e ora nei cinema, sono solo la punta dell’iceberg di un discorso più complesso. E profondo.

Il 20 luglio 2012, mentre al cinema Century 16 di Aurora, Colorado, era in corso la proiezione di mezzanotte del film The Dark Knight Rises, terzo capitolo nella trilogia su Batman firmata da Christopher Nolan, un ragazzo venticinquenne fa irruzione in sala. Lancia alcuni fumogeni e apre il fuoco sugli spettatori, provocando la morte di 12 persone e ferendone altre 70, in quella che è a oggi la sparatoria più sanguinosa nella storia di quello stato americano, dove già era avvenuto il massacro di Columbine. Vestito in tenuta militare scura, era stato scambiato da alcune persone del pubblico per uno dei tanti accorsi alla proiezione in costume. Sette anni dopo, Aurora torna a far parlare di sé in quanto l’Associazione dei genitori delle vittime di quella tragedia nelle settimane scorse ha chiesto alla Warner Bros di non proiettare Joker, la sua ultima, acclamata pellicola, nota anche per i contenuti violenti (e, in una specie di incubo che ripete se stesso, ancora una volta legata all’immaginario di Bruce Wayne & co). Non è il primo appello scaturito in relazione a questo film, e le autorità di molte città statunitensi, tra cui New York e Los Angeles, hanno rinforzato le misure di sicurezza attorno alle sale dove è mostrato, mentre la catena Landmark Theatres ha chiesto agli spettatori di non recarsi al cinema mascherati.

Questo perché Joker, diretto da Todd Phillips e in cui Joaquin Phoenix interpreta un’ennesima ma per molti versi inedita reincarnazione dell’arcinemesi più famosa dell’Uomo Pipistrello, è film dall’immensa qualità ma anche dalla violenza spiccata e controversa. In quello che è sotto molti aspetti un omaggio ai film di Scorsese fra gli anni Settanta e Ottanta, da Taxi Driver a Re per una notte (non a caso De Niro qui interpreta un ruolo chiave), il nuovo adattamento dei fumetti della Dc Comics lavora proprio negando la sua natura da cinecomics, privandosi di effetti speciali e superpoteri ma imponendo invece una storia verosimile, drammatica e nichilista. Sullo sfondo di un realismo spiccato, dove Gotham City sembra la New York del romanzo Città in fiamme (ed è sommersa dai rifiuti come certe città a noi molto familiari), l’anonimo e disperato Arthur Fleck, complici i disturbi mentali e un’insanabile emarginazione sociale, si getta in un delirio autodistruttivo che si risolve solo nell’attaccare con estrema ferocia quelli che ritiene i responsabili della sua infelicità. Dal clown nei cui panni si cala di giorno per sbarcare il lunario, Arthur diventa la maschera sfigurata e assassina del Joker, che Phoenix modella con maestria delirante, grazie a una fisicità consunta e a un ghigno ossessivo, sempre sospeso fra risata e disperazione.

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La risata di Joker

Data la qualità con cui è realizzato non sorprende dunque che Joker abbia vinto come miglior film alla Mostra del Cinema di Venezia (in un’edizione in cui del resto sarebbe stato difficile attribuire qualsiasi premio senza scomodare sonore polemiche), così come non è sorprendente che, soprattutto negli Stati Uniti, la sua uscita stia suscitando parecchia tensione. In un Paese in cui le sparatorie sono all’ordine del giorno ed è alto l’allarme nei confronti dei cosiddetti incels (gli involuntary celibates, quei giovani etero e bianchi, spesso nutriti di sottoculture del web, che sfogano la loro frustrazione sessuale e l’isolamento sociale in atti di sfrenata violenza), un film come Joker può sembrare come un’esaltazione della vendetta sanguinaria degli ultimi: isolato dal mondo per via della sua stranezza, Arthur afferma se stesso in un feroce delirio narcisista. La questione è spinosa e, mentre si è tutti d’accordo che non si possano ritenere responsabili i film per le sparatorie in giro per il mondo, è anche vero che un’opera come questa lasci nella platea il dubbio che l’immedesimazione in un personaggio del genere sia fin troppo facile, a maggior ragione data la potenza dell’interpretazione e la cornice realistica in cui è inserita.

Joker è un grande film nella misura in cui è disturbante, non solo in quanto mostra l’evoluzione del protagonista che da dileggiato emarginato ai limiti della società si fa carismatico vendicatore, tanto da preludere al ruolo che ben tutti abbiamo chiaro nella mitologia fumettistica. Ma proprio perché colloca tale parabola in un clima politico che ci è fin troppo familiare. Per capirlo meglio sono necessari degli accenni che sono anche spoiler: Arthur Fleck inizia la sua ascesa criminale, infatti, quando uccide in metropolitana tre giovani yuppie che lo stavano tormentando. Incidentalmente i tre lavoravano per Thomas Wayne, l’uomo più ricco della città, che, in echi quasi da Michael Bloomberg, ha intenzione di candidarsi a sindaco per usare il suo pugno di ferro (e i suoi soldi) per raddrizzare le sorti della città ormai allo sbando. Ben presto il gesto del clown assassino è sulla bocca di tutti e lui diventa subito simbolo di rivalsa: un povero cittadino, bistrattato dal sistema (poco prima era stato licenziato e aveva saputo dei tagli ai fondi comunali che gli passavano le medicine necessarie a controllare i suoi disturbi), si vendica “finalmente” dei soprusi dei più ricchi e privilegiati. Oggetto della sua furia saranno anche il ricco – e (per questo) meschino – Thomas Wayne e il conduttore prima tanto amato di late night Murray Franklin (De Niro): volti dell’establishment e di irreparabili ferite inferte al protagonista dall’alto dei loro privilegi. Nasce così un vero e proprio movimento popolare, con la gente che scende per strada mascherata da clown e che non perde la prima occasione per scatenare sommosse e aggredire poliziotti.

È bene ribadire che Joker difficilmente scatenerà risse e sommosse (o almeno non più di altri eventi), ma poiché l’arte solitamente non altera la realtà ma la riflette, c’è da chiedersi che tipo di società emerge da questa rappresentazione. Una società sicuramente dai nervi tesissimi, in cui è facile per leader tanto carismatici quanto perversi infiammare gli animi delle masse.

Un’iconografia in divenire

Scene del genere sono diventate familiari nell’iconografia cinematografica: i manifestanti sono una massa informe, urlante e chiassosa, spesso alterata da alcool o altro, soprattutto mascherata. La mancata identificazione dei componenti della rivolta popolare è fondamentale, anche forse per allontanare una qualunque responsabilizzazione degli sceneggiatori che la descrivono. Fra bombolette spray, bottiglie molotov e spranghe, i danni ad auto e vetrine dei negozi sono immancabili: la furia popolare mette al rogo, simbolicamente e non, i luoghi del potere ma soprattutto gli emblemi del consumismo, dai quali si sente tagliata fuori. In queste immagini c’è il riflesso estremo delle tensioni che affiorano qua e là anche nella nostra cronaca quotidiana: basti ricordare l’aggressione recente a un politico accorso durante uno sciopero, le immagini delle rivolte di Hong Kong in cui la polizia spara al petto o gli scontri razziali numerosissimi negli Stati Uniti. Nella confusione fra scene da film e servizi da tg, questo immaginario si presta a ulteriori esasperazioni: la saga di film The Purge e la serie che ne è tratta (su Amazon Prime Video) ipotizzano l’istituzionalizzazione di giornate in cui la violenza cieca e senza limiti è permessa, nell’ambito di un regime tirannico che ovviamente agisce “in nome del popolo”. 

Tornando a Joker, bastano pochi dettagli per rinforzare l’idea che il film sia quantomeno controverso. Non è la prima volta che opere cinematografiche o televisive cercano di scavare nella psiche di antieroi o di villain, ma stavolta l’associazione a un messaggio politico è ancora più immediata: non stiamo parlando di Disney che riscrive la strega Malefica in Maleficent in uno scenario di brughiera incantata, ma di un uomo qualunque, malato e umiliato, che si pitta il volto e apre il fuoco in un contesto realistico e purtroppo familiare. Mentre il regista nega il valore politico del suo film (e se la prende con il clima del politicamente corretto di questa woke culture che avrebbe ammazzato per lui la commedia) e Phoenix insiste che ognuno debba interpretarlo come crede, sono molte le voci che individuano delle debolezze insanabili nel suo messaggio. È bene ribadire che Joker difficilmente scatenerà risse e sommosse (o almeno non più di altri eventi), ma poiché l’arte solitamente non altera la realtà ma la riflette, c’è da chiedersi che tipo di società emerge da questa rappresentazione. Una società sicuramente dai nervi tesissimi, in cui è facile per leader tanto carismatici quanto perversi infiammare gli animi delle masse.

“Mi ritieni davvero quel tipo di clown in grado di far partire un movimento?”, chiede in modo forse ingenuo, forse retorico Arthur Fleck nelle fasi finali del film. Alla parola clown possiamo sostituire comico, imprenditore, boyscout, dj occasionale, magnate dalle capigliature bizzarre e il risultato sarebbe lo stesso: sappiamo benissimo che oggi aggregare un gran numero di persone attorno a un ideale controverso è molto facile. E questa predisposizione alla sollevazione di massa non va cercata solo nell’attualità (i ragazzi di Greta Thunberg potrebbero essere un esempio sicuramente in positivo), ma anche in altre rappresentazioni fittizie. È una casualità abbastanza bizzarra che Todd Philipps abbia dichiarato di aver convinto Phoenix ad accettare il ruolo dicendogli che Joker sarebbe stato un heist movie, un film sulle rapine (nel senso, secondo il regista, che avrebbero “fregato alla Warner 55 milioni per farci quello che vogliamo”); perché un altro esempio lampante di questa cultura del controllo irrazionale delle masse viene proprio dalla serie La casa di carta (tradotto in inglese come Money Heist).

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Maschere seriali

Il più grande successo seriale di Netflix non in lingua inglese basa la sua popolarità proprio su un sottilissimo cortocircuito: all’interno di una struttura narrativa banalmente avvincente e che procede a forza di colpi di scena uno più telefonato dell’altro, questa produzione spagnola avvince lo spettatore soprattutto perché lo aggancia al fascino dei suoi protagonisti, i rapinatori dai nomi di città. Anche in questo caso le immagini sullo schermo mostrano la nascita di uno spontaneo sommovimento popolare: all’inizio della recente terza stagione, in particolare, vediamo che la tuta rossa e la maschera da Dalì tipica dei rapinatori si sono diffuse e sono divenute il simbolo di proteste popolari anti-establishment, che i protagonisti sfruttano a proprio vantaggio solo dopo aver sparso per le strade di Madrid 140 milioni di euro dall’alto di alcuni dirigibili. Le simbologie formali sono simili a quelle già viste: i criminali celano la loro identità mascherandosi e assumendo un aspetto che sfugge alle connotazioni tradizionali di bene o male, anzi scelgono il colore rosso (che semmai ha valenze politiche, come si vedrà fra poco) e il volto di Dalí che aggiunge un pizzico di bizzarria e ironia. 

Una volta aizzata la massa, si ripetono le scene di isteria collettiva: i manifestanti emulano nell’aspetto i criminali divenuti eroi, invadono le strade, questa volta in modo più pacifico ma in aperta sfida alle autorità e soprattutto alla polizia. Non c’è la devastazione urbana tipica di altre rappresentazioni, ma d’altronde La casa di carta è una serie che vuole rompere gli schemi cercando al contempo di rimanervi ben salda all’interno. Eppure anche qui si ripete il cliché: l’appellarsi alle masse è un pretesto, anzi uno strumento, in mano ai pochi protagonisti su cui si focalizza la narrazione; ancora una volta, come nel più classico dei sistemi populisti, il popolo si mobilita con apparente spontaneità per finire a fare gli interessi dei pochi che hanno istigato la mobilitazione. La metamorfosi da predoni a eroi è del resto davvero molto sottile: il progetto di entrare alla Zecca di stato di Madrid (e poi nella Banca di Spagna) per stampare quasi 2,5 milioni di euro non è raffinatissimo solo nella sua pianificazione, ma soprattutto nella sua valenza simbolica. Il Professore decide non di svaligiare una banca, dove ci sono i soldi dei risparmiatori, ma di stamparli da zero: “Nel 2011 la Banca Centrale Europea ha creato dal nulla 171mila milioni di euro”, dice a un certo punto per giustificarsi. “Sai dove sono finiti tutti quei soldi? Alle banche. Direttamente dalla zecca ai più ricchi. Qualcuno ha detto che la BCE è una ladra? Iniezione di liquidità l’hanno chiamata”. 

Le frasi che in un qualsiasi talk show potrebbero finire in bocca al politico populista e antieuropeista di turno sono pronunciate da uno dei più noti eroi seriali degli ultimi anni. Il quale, non pago, insegna ai suoi rapinatori Bella ciao, a simboleggiare l’eredità partigiana delle loro azioni da Robin Hood. L’appiglio retorico è quello della rivoluzione, della resistenza (anche in Joker, non a caso, un certo qualunquismo alt-right è camuffato da revanchismo “di sinistra”). Sono infinite le sovrapposizioni che scatena questo tipo di immaginario: sul piano della finzione, la protesta con tanto di maschera di Guy Fawkes che abbiamo visto nei fumetti e nel film V per Vendetta (anche lui efferato vendicatore, stavolta puramente a fin di bene); su quello della realtà, le proteste degli Indignados che proprio dalla madrilena Puerta del Sol nel 2011 hanno inaugurato le loro proteste contro l’austerity in seguito alla crisi economica. La casa di carta insomma mette in scena criminali che diventano capipopolo dietro le loro maschere e soprattutto dietro i loro obiettivi individuali: ma ciò che risalta all’esterno, anche qui, è il loro impegno contro un establishment arraffone e distante dai bisogni degli ultimi. E in questo caso il cortocircuito realtà-finzione è ancora più stratificato: in alcune manifestazioni reali si iniziano a vedere maschere di Dalí e tute rosse, mentre l’eco della serie è stata tale che in Turchia – non certo terra di libertà – alcuni politici hanno espresso il pericolo che queste vicende possano indurre alla ribellione contro il governo. Sintomo che la potenza del simbolo è forte e che queste non sono solo storie di finzione, ma strumenti a cui la mentalità comune reagisce con vivacità e attenzione. E dove è stata in Italia la promozione dell’ultima stagione? Ovviamente accanto al dito medio di Cattelan a Piazza Affari: cortocircuito nel cortocircuito.

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Fascinazione del male

Altre serie ancora, come The Boys, anch’essa tratta da un fumetto e divenuta una produzione a episodi su Prime Video, mostrano ulteriori sovvertimenti: questa volta sono i supereroi, di solito osannati dalla cultura popolare, a nascondere interessi ambigui e comportamenti che vanno dal sopruso personale fino alla molestia criminale; di tutta risposta un gruppo clandestino di guerriglieri tenta ogni mezzo, spesso efferato, per eliminarli e riportare giustizia dove non c’è. A uno a uno crollano i miti positivi a cui siamo stati abituati, a cui si risponde con cliché ribaltati: al poliziotto buono si preferisce l’astuto organizzatore di rapine; al supereroe l’antieroe sanguinario; a Batman il folle Joker. Leader carismatici e dal messaggio convincente proprio perché borderline, quasi tutti che sublimano la potenza comunicativa dietro a maschera, tutti che – più o meno involontariamente – sfruttano una retorica di miseria e sopraffazione fino a infiammare di rabbia e vendetta i seguaci contro i forti e potenti. 

Si può pensare che in qualche modo l’ondata di populismi che anima la politica internazionale da circa un decennio (e ancora prima in forme più sublimate e ancorate all’establishment) sia responsabile anche dell’imposizione di un certo paradigma della rivolta narrativizzata in tv e al cinema. I titoli qui citati sono certo frutto di un’elaborazione più “alta”, ma non sfuggono a una semplificazione e distillazione della realtà, in cui il populismo è svuotato di senso e sfruttato come intrigante pretesto narrativo, veicolato pericolosamente come innocuo e anzi utile.

Ogni discorso sulla responsabilità pedagogica delle opere d’arte o di narrativa è scivoloso e spesso crea più confusione del necessario. Già dopo Aurora si erano fatte parecchie riflessioni sulla fascinazione del male e sulla sua rappresentazione. Film come Joker o serie come La casa di carta non si potranno certo ritenere responsabili di rivolte o rapine, né sono colpevoli gli spettatori che si entusiasmano di fronte a messaggi fascinosi e ambigui. Ma una loro fruizione consapevole presenterà queste opere almeno come specchi tutt’altro che deformati delle nostre società oggi: polveriere in attesa della prima maschera capace di accendere gli animi e di individuare un nemico plausibile. “Tutto quello che ho sono pensieri negativi”, confida a fatica Arthur Fleck a un certo punto: mentre non possiamo che provare una certa empatia per la sua fragilità incolpevole, il pensiero non fa che correre al pericolo che potrebbe nascere dall’unire quei pensieri negativi al controllo delle masse. Passare dall’empatia a una snaturata simpatia a volte è solo questione di una battuta ben riuscita, di un successo virale. O di un ghigno ben riuscito.


Paolo Armelli

Laureato in Lettere Moderne, prestato alla pubblicità, scrive online di libri, moda, media e altre amenità. Ha un blog (liberlist.it).

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