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Inventing Anna e la televisione della truffa

Un filone cruciale dell’immaginario contemporaneo è quello che racconta inganni, falsi ruoli in commedia, smascheramenti difficili. Con storie verissime, compreso quello che c’è di inventato.

2013. Anna Delvey (al secolo Anna Sorokin) arriva a New York, racconta a tutti di essere un’ereditiera tedesca con un fondo da 60 milioni di dollari in Europa. Veste come solo un vero ricco saprebbe fare, soggiorna in alberghi di lusso senza pagare il conto, promette bonifici che non arrivano. Tutti credono sia ricca sfondata e questa sembra essere una garanzia più che sufficiente, in realtà è una ragazza russa senza un soldo. La sua storia è raccontata per la prima volta in un articolo sul New York Magazine che fa esplodere il caso, How Anna Delvey Tricked New York’s Party People di Jessica Pressler. Ora, con Inventing Anna, Shonda Rhimes cerca di mettere a fuoco il ritratto di una delle protagoniste più chiacchierate della truffa contemporanea.

Quello legato ai geni della truffa è un sottogenere crime che continua a trovare nel pubblico un target di fedelissimi: dal grande al piccolo schermo, dalla fiction al documentario, i truffatori ci fanno simpatia, sono i villain della storia ma parteggiamo per loro, le vittime – se ci sono cascate (e ci sono cascate!) –se lo sono meritato (noi, che siamo più svegli e attrezzati, non ci saremmo mai fatti fregare). Ci troviamo a essere, oltre che ammirati, anche un po’ invidiosi, beati loro, questi scaltri truffatori. Il titolo dell’articolo della Pressler su Delvey è di per sé già rivelatorio: le vittime? Sono i “festaioli” newyorkesi. 

Vip è meglio

Mosca, 1927: in città arrivano Mary Pickford e Douglas Fairbanks, i più grandi divi di Hollywood. La città è in fermento, i fan si accalcano per accoglierli, gli operatori dei cinegiornali sono pronti per documentare l’evento. I due attori si concedono al pubblico e agli obiettivi, un fortunato riceve anche un bacio da Mary Pickford, quello che l’attrice non sa è che le riprese di questo incontro, non casuale, non sono destinate ai cinegiornali. Quell’uomo non è un fan come tutti gli altri, è un attore, Igor Ilyinsky, protagonista del film Poceluj Meri Pikford (Il bacio di Mary Pickford), scritto e diretto da Sergej Komarov. Il film ruota attorno a Ilyinsky, impiegato come maschera in un cinema. Cerca di conquistare la ragazza di cui è innamorato, ma lei non ne vuole sapere perché è povero, sogna un uomo come Douglas Fairbanks. Solo quando lui è baciato dalla Pickford e inseguito da una schiera di fan lei si innamora di lui, finalmente famoso, desiderato e desiderabile. La sequenza con i divi americani in visita è quindi girata e inserita a loro insaputa in questo film, che diventa un curioso manufatto di fiction con al suo interno, in un momento chiave, una sequenza “reale”. 

A questa storia si ispira Bowfinger (Frank Oz, 1999) con Steve Martin e Eddie Murphy. La pellicola sviluppa questo spunto portandolo su piani ancora più assurdi e grotteschi. Dalla Russia agli Stati Uniti, vecchie idee, vesti nuove: l’ingegno e il meccanismo alla base di una truffa si confermano un terreno fertile per incuriosire il pubblico. Da Paper Moon di Bogdanovich (1973) a La Stangata di George Roy Hill (1973), fino Prova a Prendermi di Steven Spielberg (2002), c’è un aspetto ludico, sovversivo, che ha sempre reso i truffatori simpatici sia ai registi che al pubblico del grande schermo. È il gusto di vedere scuotere le classi sociali, di veder strozzati gli strozzini, è l’aspirazione a una scalata sociale, sorpassando a destra, è l’idea di inventarsi una nuova posizione, una nuova identità.

Salta e il paracadute si aprirà

Cambiano i tempi e le modalità delle truffe, quelle cosiddette “romantiche” non sono una novità, ma nell’era social il fenomeno è venuto a galla allargandosi a macchia d’olio. Prima documentario poi serie docu-reality (8 stagioni), Catfish: false identità può vantare di essere il solo prodotto rilevante uscito da Mtv negli ultimi 20 anni. Nev Schulman e Max Joseph, i detective dei finti profili social, sono diventati così dei volti familiari per il pubblico e un nuovo termine, catfish, è entrato nel linguaggio comune. In ogni episodio i due corrono in soccorso di qualcuno raggirato online, il colpevole è smascherato e messo a confronto con la sua vittima; spesso sono baruffe nate in solco all’ambiente familiare. In un episodio troviamo Carmen che arruola Nev e Max per scoprire chi sia Tony, il fidanzato virtuale di suo cugino Antwane; i due si sentono da tre anni, hanno una relazione virtuale, ma non si sono mai visti: c’è puzza di bruciato. A fine dell’episodio, dopo aver confrontato numeri di telefono, indirizzi mail, profili Facebook e un consueto giro su Google immagini, scopriamo che il truffatore è proprio Carmen, la ragazza ha preso in giro il cugino perché le aveva dato della cicciona (“you should’ve never called me a fat ass Kelly Price!”, diventato subito virale su internet). Andrebbe considerato un corollario sulla psicologia della truffa: per il truffatore il valore dell’inganno sta nel non venire scoperto o nel mostrare al mondo la propria diabolica astuzia? Forse il serial killer vuole che lo troviamo.

Quale che sia la truffa, è un piatto ricco per la serialità true crime. Qui il paradigma è ribaltato, anche se non sempre in forma completa: il truffatore non è più un affascinante sornione, ma un mistero criminale da risolvere (da battere, da incastrare). L’indagine priva i truffatori dell’alone romantico.

Dagli Stati Uniti all’Italia i meccanismi non cambiano, l’ultima grande saga gossip che è riuscita a tenere viva per mesi l’attenzione dei media – nell’epoca in cui 24 ore è il termine ultimo per qualsiasi polemica – è, non a caso, l’affaire Caltagirone. Pamela Prati pronta a convolare a nozze con un uomo inesistente, con figli inesistenti (“mamma fai questo mamma fai quello”, diventato subito meme): la storia ha tenuto banco per settimane, da Domenica in a Live non è la d’Urso, poi l’Arena di Giletti e Verissimo, risbucando ancora (e ancora), dopo un periodo di silenzio, alle Belve di Francesca Fagnani. Vittima o mente diabolica? Chi l’artefice del teatrino matrimoniale? La soubrette era succube delle sue agenti? Una delle due (Eliana Michelazzo, ex corteggiatrice a Uomini e donne), si scopre poi, aveva a sua volta un fidanzato virtuale, finto anche lui, con foto di Mr. Svizzera (i due sono anche fatti incontrare nell’ascensore della d’Urso). Più si scava più la faccenda è ridicola, e meno chiara (molto losca). A suo modo l’infotainment diventa così, anzi torna, una serialità extra telefilmica, liquida e dai contorni incerti. Ma trovare argomenti gustosi che si prestino a reggere la lunga durata oggi è dura, nemmeno la D’Urso riesce a ripetere il colpaccio dello scandalo Caltagirone ed è orfana anche della Marchesa d’Aragona (finta nobile?, millantatrice?, protagonista di un’altra saga di gossip dal sapore squisitamente truffaldino). 

La truffa è il sogno americano del XXI secolo

Quale che sia la truffa, è un piatto ricco per la serialità true crime, che negli ultimi anni, complici nuovi produttori, distributori e canali (lo streaming), ha espanso sempre più i confini del proprio consenso, andando a erodere quello della fiction che ora si trova davanti a un pubblico sempre più esigente e erudito (almeno nell’idea del pubblico stesso), quindi difficile e diffidente. Raccontare la genesi di truffe grandiose e assurde – e dare volto ai loro protagonisti, artefici, vittime e complici – si rivela la mission perfetta per il documentario investigativo. Qui il paradigma è ribaltato, anche se non sempre in forma completa: il truffatore non è più un affascinante sornione, ma un mistero criminale da risolvere (da battere, da incastrare). L’indagine priva i truffatori dell’alone romantico. Le storie nascono dagli spunti più diversi: un’intuizione giornalistica, un reportage, una notizia di cronaca, una ricostruzione storica. 

In Tickled (di Hbo, lo trovate su Netflix) il giornalista neozelandese David Farrier si lancia alla caccia dell’uomo dietro al mondo sommerso del “solletico competitivo”, si imbatte in una compagnia fantasma, identità fittizie, persone raggirate o minacciate, e quella che sembra una faccenda molto sciocca (ragazzi che si filmano mentre si fanno il solletico) diventa ben presto inquietante, seguono minacce e azioni legali; qualcuno di importante protegge il re del solletico. Con The Lady and The Dale (Hbo), prodotto dai  Duplass Brothers, è invece ricostruita la storia di Elizabeth Carmichael, donna transessuale che negli anni Settanta è stata la fautrice di quella ricordata come la più grande truffa nel mondo automobilistico, una macchina a tre ruote che avrebbe dovuto rivoluzionare il mercato e salvarlo dalla grande crisi energetica di quegli anni; denaro contraffatto, finte lauree, un incidente d’auto inscenato per liberarsi della sua vecchia identità, per anni fuggitiva e ricercata. Sembra tutto incredibile, ma è così realmente, ed è solo la punta dell’iceberg. 

La storia della finta ereditiera tedesca diventa una miniserie che, pur restando fedele al marchio della casa di produzione (protagoniste femminili tossiche che si muovono nei luoghi del potere, colonna sonora pop, trauma e riscatto), guarda al mondo del true crime. Anna, truffatrice arrogante e dal passato misterioso, diventa un oggetto respingente da scoprire, indagare, è protagonista e accessorio.

2017, su Twitter diventa virale la foto di un hamburger striminzito con una sottiletta e due foglie di insalata passa. È la denuncia di una truffa, il simbolo di un disastro, quello che doveva essere un festival di lusso in grado di richiamare influencer, investitori, artisti e una montagna di soldi si è trasformato in un flop così clamoroso da avere dell’assurdo. Sul Fyre Festival sono stati girati ben due documentari, Fyre Fraud su Hulu (con la partecipazione diretta del truffatore) e Fyre. La più grande festa mai avvenuta su Netflix (con le testimonianze delle persone coinvolte, a diversi livelli, in tutta la storia). L’idea del festival viene a Billy McFarland, imprenditore digitale che decide di organizzarlo con Ja Rule a Great Exuma (Bahamas) per lanciare un’app. La campagna promozionale coinvolge celebrità di internet e del jet set (Kendall Jenner, Bella Hadid, Emily Ratajkowski – “party people”?), è promessa un’experience senza precedenti, i biglietti vip sono venduti a 12.000 dollari (“vip è meglio”), ma McFarland non è in grado di organizzare nulla, sbaglia previsioni e investimenti, falsifica documenti. Al loro arrivo sull’isola i malcapitati scoprono che gli alloggi di lusso sono tende d’emergenza e che i pasti gourmet sono panini preconfezionati. Il disastro diventa virale. Seguono otto cause per frode. 

Il conto va pagato, è la vita. Niente è gratis

Anna Delvey per un quattro anni (dal 2013 al 2017) riesce a gabbare tutti, da un albergo di lusso all’altro, con ricevute di bonifici contraffatte, assegni scoperti e debiti non saldati. Per un periodo soggiorna, a scrocco, anche nella sede dell’azienda di Billy McFarland (allora intento nella pianificazione del Fyre Festival), solo per qualche giorno dice lei, passano quattro mesi e non ha intenzione di andarsene, lui deve trasferire materialmente gli uffici della sua compagnia altrove per liberarsi dell’ospite indesiderata. Come quella di McFarland e di Simon Leviev (Il truffatore di Tinder), anche quella di Delvey sembra la storia perfetta per un documentario true crime, invece al suo ovvio destino si mette di mezzo Shonda Rhimes. Il primo prodotto di ShondaLand per Netflix è Bridgerton, pomposa serie in costume autocertificata come grandissimo successo, ma quello su cui Rhimes si concentra di più è Inventing Anna, che la vede di nuovo nel ruolo di sceneggiatrice dai tempi di Scandal (era il 2012). Netflix e ShondaLand acquistano i diritti dell’articolo di Jessica Pressler (produttrice della serie) e pagano Sorokin 320.000 dollari (subito confiscati per pagare banche e istituzioni truffate). 

La storia della finta ereditiera tedesca diventa una miniserie che, pur restando fedele al marchio della casa di produzione (protagoniste femminili tossiche che si muovono nei luoghi del potere, colonna sonora pop, trauma e riscatto), guarda al mondo del true crime, mettendo al centro della narrazione la giornalista. In questo modo, furbescamente, da una parte la serie assume naturalmente i contorni di un’inchiesta (come succede nei doc, che man mano svelano nuovi particolari, nuovi aspetti, nuovi protagonisti, nuove prove, aggiungendo insomma un ingrediente sopra l’altro per mantenere alta l’attenzione e coerente la narrazione) e dall’altra permette al pubblico di identificarsi con un personaggio empatico che ne vuole sapere di più. Anna, truffatrice arrogante e dal passato misterioso, diventa un oggetto respingente da scoprire, indagare, è contemporaneamente protagonista e accessorio.

Shonda Rhimes quindi intercetta il grande successo del true crime e lo piega a suo favore in una fiction, un disclaimer in apertura di ogni episodio avvisa: “This whole story is completely true, except for all the parts that are totally made up”, uno slogan che vale sia per le truffe di Anna Sorokin sia per il trattamento della serie tv. La figura più rimaneggiata è quella Jessica Pressler: cambia il nome, è drammatizzata la sua posizione lavorativa e il suo rapporto con la Sorokin (la giornalista in quel momento non era in una fase così disgraziata della sua carriera come si fa intendere, dopo un periodo sfortunato era già tornata a fatturare grazie all’articolo sulle spogliarelliste truffatrici da cui è stato tratto Hustlers con Jennifer Lopez). Tutte le bizzarrie della truffatrice e i lati più paradossali della vicenda invece sono (tendenzialmente) reali e ricreati con dovizia di particolari: i conti non pagati, l’aereo privato “rubato”, il progetto della fondazione per artisti, il look per il processo curato da una stilista con tanto di profilo Instagram dedicato, l’arringa dell’avvocato difensore su Frank Sinatra… Tutto vero. Lavorare su aspetti finzionali permette però di smussare anche i lati più aspri di un personaggio come quello dell’impenitente truffatrice, la sua – nelle mani di Shonda Rhimes – diventa la storia di un’immigrata che, vittima del crollo valoriale di un mondo intero (l’Urss) si inventa una nuova vita, insegue un sogno, lotta per affermarsi in un mondo in cui le classi sociali hanno più valore dell’umanità. 

Già Ryan Murphy aveva tentato una strada simile con l’antologico American Crime Story (Il caso O.J. Simpson, L’assassinio di Gianni Versace e Impeachment), qui prevalgono però gli aspetti della ricostruzione storica, più vicino a un filologico period drama che a un furbo true crime. Rhimes invece crea un innesto nuovo (o per lo meno ci prova), per rivitalizzare la fiction crime, il risultato è un curioso cortocircuito che pubblico e critica hanno promosso a stento. Per essere un telefilm è troppo prolisso, il ritmo è scarso, con pochi cliffhanger, e per essere un true crime gli attori sono fuori parte, eccessivi e caricaturali. Il rinascimento della fiction criminale probabilmente non passa da qui, ma è emblematico il tentativo di trovare una strada nuova, ibrida, in una sintesi più attenta alle aspettative di un pubblico sempre più puntiglioso. Resta da capire se questa contaminazione avrà margini di perfezionamento o se i formati, per incompatibilità formali, siano destinati a restare separati per mantenere la loro efficacia.


Lorenzo Peroni

Storico dell'arte con una lunga storia d'amore per il cinema e la scrittura, non sempre corrisposto. Scrive per Artslife e Doppiozero.

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