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Distratta Italia

Nella produzione tv di intrattenimento, l’Italia è ancora un “gigante dormiente”? Una ricerca ci spiega la situazione, e cosa si può fare.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 21 - Distretti produttivi emergenti del 05 giugno 2017

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In un report pubblicato qualche anno fa da Frapa (Format Recognition and Protection Association), l’associazione internazionale di produttori, distributori e broadcaster volta allo studio e alla valorizzazione dei format e dei loro mercati, all’Italia era attribuita un’etichetta tanto calzante quanto poco lusinghiera: a sleeping giant (1) The Frapa Report 2009. TV Formats to the World. Italy, p. 63.. Il riferimento era, da un lato, all’ampiezza del mercato tv nazionale e, dall’altro, alla sua incapacità di costituire un polo di creatività nella produzione di contenuti originali destinati anche a una circolazione extra-domestica. Nel periodo preso in esame dal report, la forte sproporzione tra i singoli format acquisiti nei mercati internazionali e adattati nel nostro Paese (73 titoli) e le produzioni invece nate da creatività italiana, “formattizzate” ed esportate (13 titoli) (2) In entrambi i dati sono inclusi format di prodotti sia scripted sia unscripted. poteva essere messa impietosamente a confronto con i bilanci decisamente più lusinghieri dei Paesi dalla consolidata tradizione creativa, in particolare nell’area dell’intrattenimento televisivo (Gran Bretagna, Stati Uniti, Olanda).

Dalla pubblicazione del report, pur in un lasso di tempo tutto sommato ristretto, il sistema televisivo ha subito mutazioni profonde, legate tanto all’innovazione tecnologica, quanto, più in generale, alle loro conseguenze sul comparto (progressivo ampliamento dell’offerta di prodotti e reti, emersione di nuovi attori lineari e non lineari, progressiva frammentazione del consumo). L’Italia è inoltre entrata in un ciclo economico negativo, che ha progressivamente ristretto le risorse disponibili per i media e la tv, con la sensibile riduzione degli investimenti pubblicitari, in particolare tra gli anni 2010-2014 (3) Si vedano i report annuali di Agcom. Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni relativi agli anni citati, www.agcom.it.. L’ultimo quinquennio ha rappresentato quindi un periodo ricco di contraddizioni per il sistema tv nazionale, attraversato da segni di vitalità (un’offerta mai così abbondante e una domanda di consumo sempre crescente, almeno fino al 2015) (4) Nel 2015 il tempo di consumo tv raggiunge i 253 minuti medi al giorno (elaborazione su dati Auditel)., ma caratterizzato anche da debolezze contingenti e strutturali.

Tra queste si può certamente annoverare la scarsa attitudine del Paese a sviluppare una creatività televisiva di respiro internazionale, in grado di varcare i confini della Penisola: su questo l’Italia era e resta un “gigante dormiente”. Il dato appare ancor più preoccupante alla luce dell’evoluzione che, nel frattempo, i mercati internazionali di contenuti hanno evidenziato. Il mercato globale di format, in particolare, è andato crescendo per rilevanza (5) Si veda Jean K. Chalaby, The Format Age. Television’s Entertainment Revolution, Polity Press, Cambridge–Malden 2016. e vi si sono via via affacciati nuovi attori: tra il 2009 e il 2015 la capacità di circolazione di contenuti provenienti da Paesi diversi dai “soliti sospetti” (Gran Bretagna, Usa, Olanda) è aumentata (6) La percentuale dei format di origine diversa dai tre Paesi citati (USA, UK, Olanda) e adattati in almeno due altri Paesi è passata dal 27% (2009) al 54% (2014). Elaborazione su dati The Wit e C21. e nuovi “distretti creativi” – Israele, Turchia e molti altri contesti ricostruiti in questo numero di Link – hanno mostrato un particolare dinamismo.

C’è dunque un “problema italiano”? Quali sono le ragioni che hanno impedito all’Italia di diventare un distretto creativo nel campo dei contenuti audiovisivi originali e l’hanno, al contrario, fatta sembrare incapace di vivacità e iniziativa in questo settore strategico? Perché l’Italia resta un “gigante dormiente”, apparentemente distratta di fronte alle inedite opportunità derivanti da una maggiore interconnessione e apertura dei mercati e dalla domanda di contenuti originali per un’offerta larga, targettizzata e variegata?

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Da questi interrogativi ha preso le mosse la ricerca che, nel corso del 2016, il Ce.R.T.A. (Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi dell’Università Cattolica di Milano) ha realizzato su commissione dell’Associazione Produttori Televisivi (A.P.T.), con l’obiettivo di comprendere le dinamiche e i punti di forza e debolezza che caratterizzano il tessuto produttivo nazionale, in particolare nell’area dell’intrattenimento e dei suoi generi principali (7) La ricerca, diretta da chi scrive, è stata realizzata, con la supervisione scientifica del prof. Aldo Grasso, da un team composto anche da Luca Barra, Paolo Carelli, Cecilia Penati e Anna Sfardini. Il lavoro ha incluso un’analisi quantitativa della produzione italiana di intrattenimento nel corso del 2015, considerando i seguenti generi: reality, talent, game, factual, general entertainment, eventi, talk, infotainment (eclusi: news e prodotti kids); una ricognizione delle best policies e best practices relative alla produzione audiovisiva a livello internazionale, con sguardo specifico a Gran Bretagna, Francia, Israele e Olanda; una mappatura delle principali case di produzione attive in Italia nei generi dell’intrattenimento e del valore economico da queste generato, basata su interviste in profondità a 20 professionisti e responsabili delle società coinvolte.. Nei paragrafi che seguono si restituiranno alcuni risultati del lavoro, sottolineando i problemi più urgenti del sistema produttivo nazionale e ipotizzando alcune soluzioni.

Il valore dell’intrattenimento… e il nostro ritardo culturale

Rispetto ad altri Paesi, vicini e lontani, in Italia sopravvive un persistente ritardo culturale che getta una luce di perdurante sospetto nei confronti dei prodotti mediali: la televisione resta in fondo alla gerarchia dei mezzi di comunicazione, e all’ultimo posto fra i suoi generi immancabilmente troviamo l’intrattenimento. L’imprinting dato dai mitizzati anni del monopolio pubblico Rai, con il privilegio accordato a una televisione spesso seriosa e dal tono pedagogico, è stato superato, progressivamente e parzialmente, solo per alcuni generi, lasciando dunque in eredità un “curioso dualismo”: se da un lato, pur con qualche lentezza, si è giunti a riconoscere il valore della fiction (del prodotto scripted) come settore economicamente rilevante e come terreno di rispecchiamento di “storie e identità nazionali”, dall’altro l’intrattenimento sconta ancora un atteggiamento di generale svalutazione e disinteresse. È perlopiù associato all’idea di appiattimento e abbassamento del gusto condiviso, al trash e alla “tv deficiente”. I pesanti pregiudizi verso il macro-genere sono legati alla mancata comprensione della sua rilevanza sia sul piano produttivo (il valore economico di una filiera che impiega varie professionalità e mette in gioco creatività tutt’altro che banali) sia su quello socio-culturale (il valore della “leggerezza” attribuito a questi programmi da un’ampia comunità di spettatori, e testimoniato dagli elevati ascolti di molti titoli di quest’area che costituiscono, con la fiction, l’ossatura dell’offerta televisiva).

Nel corso del 2015, infatti, sono stati realizzati 290 programmi rubricabili sotto l’ampia etichetta di “intrattenimento” e diversificati in molti generi e sotto-generi, per un totale di 13.850 ore di programmazione. Il 36% di essi (106 titoli) vanno a sostanziare l’offerta della fascia di prime time, quella più rilevante per i broadcaster e più seguita dagli spettatori, a riprova dell’importanza del genere nell’economia complessiva dei palinsesti delle reti. Come noto, la produzione di programmi può essere distinta a partire dalla loro genesi, e in particolare dal fatto che siano realizzati internamente dai broadcaster o in collaborazione con case di produzione “indipendenti” (8) La definizione di casa di produzione “indipendente” è materia ancora oggetto di discussione anche a livello legislativo. Qui ci si riferisce a imprese con tratti editoriali e proprietà variegati, includendo anche quelle in parte integrate
 ai broadcaster.. Se l’informazione è di solito fatta in house, l’intrattenimento vede una lieve prevalenza di produzioni esterne (53%, 155 titoli) su quelle interne (47%, 135 titoli), sebbene la lunga durata dei programmi-contenitore (come La vita in diretta di Raiuno o Pomeriggio Cinque di Canale 5) faccia pendere la bilancia a favore della produzione interna in termini di ore trasmesse (69%, ossia 9.506 ore di emesso televisivo).

L’intrattenimento si compone di un vasto ventaglio di generi che definiscono due diversi modelli d’offerta: il factual entertaiment, che ha fortemente caratterizzato le ultime stagioni, mostra una grande varietà di prodotti (109 titoli, il 38% del totale) e si presta di più all’affidamento “chiavi in mano” a una casa di produzione indipendente o alla collaborazione tra una di queste e una rete (come nei casi di Alta infedeltà prodotto da Stand by Me per Real Time o di Shark Tank realizzato da Toro Media, sulla base del format Dragon’s Den, per Italia 1); dall’altro, l’infotainment prevale in termini di durata (4.331 ore di emesso, il 31% del totale) e costituisce il tipico genere realizzato internamente dai broadcaster. Oltre al factual, la produzione indipendente si concentra poi su tre generi strategici, collocati in fasce pregiate del palinsesto (preserale, access e prime time): il game (3% dei titoli totali), il reality (2%) e il talent show (11%).

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In questo scenario, i format rappresentano parte importante dell’intrattenimento televisivo: gli show basati su di essi costituiscono il 24% dell’intera programmazione d’intrattenimento per titoli (69) e il 16% dell’emissione oraria sul totale (2.150 ore). Nel 2015, però, il peso dei format di origine italiana è davvero molto limitato: si tratta di 14 titoli (il 5% del totale), per un’emissione complessiva di 732,5 ore. Insomma, molto intrattenimento prodotto e trasmesso dalle reti nazionali si basa su format, ma solo una minima parte può vantare un’ideazione originale made in Italy. Il dato è particolarmente allarmante se si va poi a guardare l’età anagrafica dei format di origine italiana in onda: si tratta di prodotti diventati ormai “classici” o evergreen del piccolo schermo (da Uomini e donne e Amici di Canale 5 a Ti lascio una canzone di Raiuno), a testimonianza di un generalizzato conservatorismo del sistema, che punta giustamente sull’ “usato sicuro” di larga popolarità, rinunciando però spesso a rischiare su contenuti originali più recenti, soprattutto made in Italy (sebbene si possano contare importanti eccezioni, come Avanti un altro!, nato nel 2011 dalla collaborazione tra Mediaset ed Endemol Italia, e poi esportato in vari paesi, come Francia, Spagna, Ungheria, Bulgaria, Brasile e Cile; o Shopping Night, creato da Magnolia per Real Time sempre nel 2011, ed esportato in Olanda e Gran Bretagna).

I problemi più urgenti (e alcune soluzioni)

Un grande Paese, con un sistema televisivo che si colloca al centro dell’industria culturale e una domanda di intrattenimento radicata, incapace però di affermarsi come incubatore di idee e meccanismi buoni per il mercato interno e per essere esportati all’estero: è questo il ritratto dell’Italia “gigante dormiente”. Le questioni più spinose che frenano e ingabbiano le spinte creative del Paese nel settore possono essere riassunte in quattro aree.

L’esportazione è penalizzata, in primo luogo, dalla mancata sinergia tra gli attori del sistema – quindi, in primo luogo, tra imprese di produzione da un lato e broadcaster dall’altro – sul decisivo terreno della distribuzione internazionale. Se la creatività televisiva nazionale guarda soprattutto al mercato interno, puntando più sugli elementi non esportabili (volti e talent) che su quelli formattizzabili (i meccanismi dei programmi), l’attitudine a sviluppare professionalità capaci di conoscere e presidiare i mercati globali è ancora più limitata. La somma dei due elementi conduce inesorabilmente a privilegiare lo sguardo sul “cortile di casa” e, di conseguenza, a un’esclusione dell’Italia dalla lista dei Paesi più dinamici.

La suddetta mancata sinergia trova una specifica concretizzazione nel delicato tema dei diritti di distribuzione nazionale e internazionale dei contenuti, spesso oggetto di disputa tra produttori e reti: la definizione di protocolli condivisi e vantaggiosi per entrambi i soggetti rispetto allo sfruttamento dei prodotti potrebbe senza dubbio incentivare lo sviluppo di titoli originali rispetto al solo acquisto delle licenze di programmi stranieri da adattare, soprattutto per quelle società di produzione più strutturate a livello sovrannazionale e più propense, dunque, a proporre format già pronti da adattare rispetto a idee ad hoc e a meccanismi ancora inediti da sviluppare e formattizzare.

 

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C’è poi, in terzo luogo, un problema legato alle pratiche di commissioning: le relazioni fra committenti e produttori sono ancora caratterizzate da procedure spesso poco trasparenti, basate su rapporti informali e sulla variabilità negli interlocutori e nelle professionalità coinvolte. Tutti aspetti che riducono le opportunità di accesso a pitch e momenti di brief, penalizzando soprattutto le imprese di produzione più incentivate allo sviluppo di idee originali italiane, ossia quelle società più piccole e prive della disponibilità di una library di format internazionali.

Infine, un tema cruciale è quello delle modalità produttive e realizzative dei programmi: nel caso delle coproduzioni con i broadcaster, le case di produzione si trasformano rapidamente in semplici “prestatori d’opera”, adeguandosi alle necessità e agli stili produttivi delle reti, riducendo i rischi d’impresa ma rinunciando anche a possibili ulteriori sfruttamenti dei formati sui mercati internazionali; nel caso invece delle realizzazioni “chiavi in mano” (che riguardano soprattutto quei generi che non prevedono uno studio, come il factual) il rapporto con le emittenti appare più equilibrato e si presta maggiormente allo sviluppo di contenuto originale, e alla conseguente valorizzazione sui mercati internazionali (come accaduto di recente, per esempio, nel caso del format italiano Shopping Night).

Se quelle descritte brevemente sono le aree più problematiche del sistema, le soluzioni tese a incentivare una creatività made in Italy nel campo dei contenuti televisivi d’intrattenimento sono varie. Oltre agli sforzi volti a stimolare una maggiore e proficua sinergia tra gli attori e alla ridefinizione di criteri più chiari e condivisi sui temi dei diritti, del commissioning, delle procedure produttive e della valorizzazione del prodotto italiano nei mercati globali, vanno menzionati altri tre terreni cruciali di discussione.

Il primo riguarda, più in generale, le forme di regolamentazione del settore: il superamento del radicato pregiudizio nei confronti del prodotto tv, e del genere dell’intrattenimento in particolare, dovrebbe portare ad adottare sistemi di supporto alla produzione di contenuto originale made in Italy, ricorrendo per esempio a incentivi che hanno dato buona prova di sé in altri settori della produzione culturale (come per il tax credit nella produzione cinematografica). Guardando i distretti produttivi emergenti più virtuosi, non si può non osservare come il loro dinamismo sia fondato anche su politiche pubbliche che riconoscono e valorizzano la produzione audiovisiva (nazionale e indipendente) come strumento di sviluppo economico e culturale.

In secondo luogo, bisogna poi attribuire un ruolo particolare per il servizio pubblico, possibile volano e traino dell’intero comparto produttivo del Paese. Anche in questo caso è sufficiente guardare all’estero – si pensi al modello inglese – per importare buone pratiche, tese tanto allo sviluppo di una creatività nazionale quanto al sostegno al variegato tessuto della produzione indipendente, spinto a un progressivo consolidamento e all’uscita da uno stato di incertezza e costante sotto-capitalizzazione.

La terza soluzione è senz’altro quella più complessa, ma anche quella più rilevante per il futuro: solo la creazione di un mercato interno vivace e dinamico, caratterizzato da imprese di produzione solide sul piano economico e su quello delle professionalità, può consentire lo sviluppo di un distretto nazionale della creatività televisiva pronto a guardare oltre il “cortile di casa”, al vasto mondo. Per superare i tanti deficit che l’Italia “gigante dormiente” presenta tutt’oggi – culturali, di politiche, di sguardo e sensibilità internazionale – occorre in primo luogo uscire dai particolarismi e iniziare a pensare all’industria degli audiovisivi come a un sistema, da sostenere e valorizzare senza indugi.


Massimo Scaglioni

Professore ordinario di Economia e marketing dei media e delle industrie creative presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano), è direttore del Ce.R.T.A. (Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi).

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