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Intervista a Thomas Poell

La piattaformizzazione della cultura ha dato vita a nuovi linguaggi e nuovi attori, ma ha anche sottoposto l’industria culturale a un sistema dominato da metriche, algoritmi e da una crescente centralizzazione del potere nelle mani di pochi.

Le piattaforme sono ormai al centro delle nostre vite, delle nostre attività quotidiane come degli spazi collettivi, dei discorsi, degli immaginari condivisi. Passa dalle piattaforme una buona parte di quello che chiamiamo arte, cultura, intrattenimento. A livello macro, questo cambia in profondità sia le forme e i meccanismi in cui i prodotti culturali si creano, modellano, perfezionano, distribuiscono, sia le modalità con cui arrivano a un pubblico di fruitori, consumatori, cittadini. A livello micro, il trionfo dei dati e della loro elaborazione e gli obiettivi commerciali danno forma a contenuti differenti, siano essi le (poche) vere novità o le rielaborazioni (innumerevoli) di elementi preesistenti. Tenendo traccia di questi cambiamenti, e cercando di ricostruirne logiche e finalità, alcuni studiosi stanno mettendo in evidenza le dinamiche di potere connesse alla piattaformizzazione e le loro conseguenze su società e cultura. Uno dei ricercatori più interessanti è Thomas Poell, professore all’Università di Amsterdam, che prima – insieme a José van Dijck e Martijn de Waal – ha indagato l’impatto delle piattaforme digitali sulle democrazie (Platform Society, Guerini, 2019) e poi – con David B. Nieborg e Brooke Erin Duffy – ha spostato la sua attenzione e le sue ricerche sulla forte e spesso inavvertita ridefinizione della produzione culturale, dal giornalismo ai videogiochi, nell’era dei social media (Piattaforme digitali e produzione culturale, SuperTele, minimum fax, 2022). In questa chiacchierata, Poell approfondisce il suo punto di vista sui processi di piattaformizzazione e sulle loro implicazioni culturali, invitandoci a dare uno sguardo meno ingenuo alle trasformazioni digitali e a capire meglio gli obiettivi delle grandi corporation globali. E provando ad allargare la riflessione dei suoi libri ai contenuti audiovisivi e all’intelligenza artificiale.

Tutto è diventato piattaforma. E questo cambia nel profondo sia i contenuti, sia i modi in cui sono realizzati e fatti circolare, sia le pratiche degli utenti. “Piattaformizzazione” è una parola chiave per comprendere i media oggi: ma cosa significa?

Detto in termini molto generali, l’idea di piattaformizzazione si riferisce al coinvolgimento delle piattaforme digitali in tanti settori dell’economia e in varie sfere della vita. Tenendo presente questo concetto, abbiamo iniziato a riflettere su cosa sia una piattaforma, ricorrendo a molte discipline. Se ci rifacciamo agli studi sulle industrie mediali e a quelli sul software, abbiamo un’importante tradizione scientifica che considera le piattaforme principalmente come infrastrutture computazionali che datificano attività e connessioni sociali, oggetti scambiati e servizi forniti. Ma ci sono anche tradizioni di ricerca parallele dagli spunti interessanti. L’economia aziendale e l’economia politica intendono le piattaforme fondamentalmente come mercati che aggregano, monetizzano e facilitano le interazioni tra chi fornisce servizi o contenuti e chi li consuma, ossia gli utenti finali. Così, una piattaforma è anche un mercato che consente di monetizzare tali interazioni. Infine, ci siamo confrontati con gli studi sulla governamentalità, che osservano soprattutto il modo in cui le piattaforme governano o regolano le interazioni sociali. Tutto questo ci porta a una definizione di piattaforma come infrastruttura di dati che facilita, aggrega, monetizza e governa l’interazione tra utenti finali, fornitori di contenuti e servizi. Partendo da qui, possiamo intendere la piattaformizzazione come la penetrazione di infrastrutture, processi economici e quadri di governance tipici delle piattaforme digitali in vari settori economici e ambiti della vita. Settori come le industrie culturali, ma anche l’istruzione, i trasporti, l’assistenza sanitaria, e così via. Questo è l’aspetto istituzionale del processo: lo sviluppo di mercati, infrastrutture e forme di governance

Nelle industrie culturali, la piattaformizzazione si traduce in nuove modalità di lavoro e in nuove forme di creatività? In generale, in che modo pensa che la piattaformizzazione impatti su un settore così peculiare come quello culturale?

È una domanda complessa, ovviamente. In sostanza, l’introduzione di piattaforme in determinati settori porta in primo luogo alla datificazione, alla metrificazione dell’attività culturale, delle connessioni tra le persone, dei contenuti condivisi e dei servizi. La piattaforma accresce enormemente quella che si può chiamare una “sorveglianza commerciale” della vita culturale, che comprende i dettagli più intimi e le connessioni tra le persone. Pensiamo alle piattaforme e app di incontri. Questa è la prima cosa. In aggiunta alla – e a partire dalla – datificazione, i contenuti e le connessioni sono monetizzati. Sono resi disponibili per essere targettizzati dalla pubblicità o come merce di scambio, per fare soldi.

La piattaforma accresce la “sorveglianza commerciale” della vita culturale. Un’ampia gamma di attività e connessioni che un tempo non erano monetizzate ora lo sono: le relazioni intime, le connessioni sociali, le attività ricreative.

Un’ampia gamma di attività e connessioni che un tempo non erano monetizzate ora lo sono. Le relazioni intime, le connessioni sociali, le attività ricreative – persino la propria casa – sono pronte a essere monetizzate. E sono importanti le nuove forme di selezione. In generale, possiamo osservare che ci allontaniamo dalla selezione di tipo editoriale, in cui gli esperti decidono cosa è rilevante e cosa non lo è. In un giornale, o in un museo, gli esperti curano o prendono decisioni editoriali su ciò che può e non può essere mostrato. Assistiamo sempre più allo sviluppo di forme algoritmiche di selezione, anche se la selezione editoriale resta importante. Nella curatela algoritmica le preferenze umane e organizzative (e in particolare gli interessi commerciali) sono incorporate nell’algoritmo. Questi cambiamenti hanno un forte impatto sulle industrie culturali, che ruotano attorno alla creazione di significato.

Quali sono le principali traiettorie?

Da una parte vediamo la concentrazione in una manciata di grandi aziende come YouTube, Instagram o TikTok, che diventano i nuovi centri di controllo delle industrie culturali. E questo avviene attraverso un’ampia varietà di strategie. Le piattaforme non solo curano algoritmicamente, come detto, ma anche moderano, decidendo cosa può e non può comparire in piattaforma. Le piattaforme più importanti stabiliscono sempre di più gli standard di ciò che può e non può essere prodotto, attraverso i kit di sviluppo software (Sdk) e le interfacce di programmazione delle applicazioni (Api). La concentrazione di potere implica che i modi in cui la cultura è prodotta, fatta circolare, consumata e monetizzata sono in gran parte controllati da un paio di grandi corporation. Non si tratta di un controllo completo, però queste aziende stabiliscono gli orizzonti di opportunità all’interno dell’industria culturale. Oltre alla concentrazione del potere in poche piattaforme, vediamo che le aziende dei media tradizionali tendono a consolidare la loro posizione, il loro dominio, nell’ecosistema della piattaforma. Aziende come Disney o le principali testate giornalistiche, come il New York Times o Cnn, sono diventate efficienti ed efficaci nell’utilizzare i dati e le piattaforme per far circolare i loro contenuti e per attirare il pubblico e trarne guadagno. Quindi, stiamo assistendo a una sorta di “effetto blockbuster” nell’ecosistema delle piattaforme. La concentrazione del potere in poche platform company e il dominio delle principali media company ovviamente cozza con la diffusa idea di democratizzazione della produzione culturale.

Nella produzione culturale digitale come pensa che si bilancino le esigenze tecnologiche, commerciali ed editoriali? Nel vostro libro Piattaforme digitali e produzione culturale scrivete della relazione tra produzione e filtraggio, per esempio, e di come queste cose si influenzino a vicenda.

Le platform company sono imprese commerciali. Questa è la prima cosa da tenere a mente. I tipi di infrastrutture tecnologiche che sviluppano sono strettamente e inestricabilmente legati a obiettivi commerciali. I modelli di business informano e guidano il modo in cui le infrastrutture computazionali di dati sono sviluppate e le affordance che forniscono. Molte piattaforme si occupano di pubblicità, mettono in collegamento il pubblico con gli inserzionisti, e questo si ripercuote sul modo in cui facilitano e rendono possibile la produzione culturale. Ciò significa anche che il contenuto reso visibile e monetizzato corrisponderà agli interessi commerciali della platform company. Emblematica in questo senso è stata l’Adpocalypse di YouTube, che è la storia con cui apriamo il nostro libro. All’inizio del 2017, le pubblicità abbinate a contenuti radicali su YouTube hanno generato parecchia preoccupazione tra gli inserzionisti, che non volevano essere associati a terrorismo, discriminazione e populismo di destra. Gli inserzionisti hanno iniziato a boicottare la piattaforma, cosa che ha suscitato una risposta immediata da parte di YouTube, che ha cambiato le condizioni per essere considerati idonei per il suo Partners Programme. Di conseguenza, molti contenuti sono stati demonetizzati e molti piccoli creator hanno perso l’accesso al programma. E la stessa sorte è toccata anche a molti contenuti progressisti che cercavano di portare l’attenzione su questioni sociali pressanti. Gli interessi commerciali sono strettamente intrecciati con il modo in cui la piattaforma funziona in quanto infrastruttura e in cui è governata, ponendo limiti a quali contenuti possono essere monetizzati e ottenere una grande visibilità. Anche se sono contenuti prodotti da terze parti, la piattaforma stabilisce le condizioni in base a cui la produzione può avvenire.

Le piattaforme stanno imponendo vincoli legati alle offerte tecnologiche e alle esigenze editoriali commerciali, quindi spetta alle terze parti sviluppare la propria creatività entro questi vincoli. Come definirebbe questa creatività?

Tutti i tipi di creatività sono possibili. Vediamo riapparire sulle piattaforme vecchi generi, forme e formati, ma anche nuove forme di creatività e nuovi tipi di generi. Compaiono formati come il live streaming o i video molto brevi, i reel e i video di TikTok. Si inventano nuovi generi, come l’unboxing, lo haul, l’Asmr e il mukbang. C’è un numero pressoché infinito di diverse forme di espressione che si sono sviluppate sulle piattaforme e per le quali non c’era molto spazio nel panorama del broadcasting. Ora puoi scegliere come target un micro-pubblico, con interessi molto specifici, e le piattaforme consentono persino di monetizzare questi micro-pubblici. D’altra parte, il pluralismo sarà bello e interessante, ma se guardiamo cosa attira il pubblico più vasto, dove si fanno i soldi, vediamo che sono i blockbuster. Le grandi media company sono anche gli attori di maggiore successo sulle piattaforme e utilizzano formati e generi di contenuti più tradizionali. Quindi, anche se sotto la superficie c’è un’enorme varietà, in cima alla piramide assistiamo a un forte consolidamento delle forme più classiche di produzione culturale. 

In questo sistema, secondo lei, le piattaforme video hanno una loro specificità, una rilevanza peculiare?

Quello delle screen industry è probabilmente uno dei settori più complicati delle industrie culturali in relazione alle piattaforme. Per prima cosa, nella produzione di audiovisivi ci sono alcune imprese tradizionali forti che consolidano la loro posizione, anche perché le persone consumano ancora molti contenuti attraverso i canali tradizionali, la televisione o il cinema. Queste aziende hanno una presenza anche sulle piattaforme, su YouTube, TikTok e Instagram. In secondo luogo, abbiamo visto l’ascesa di altri tipi di giganti dello streaming, molto impegnati nella produzione di film e programmi tv. Netflix, Disney+ o Amazon Prime Video non sono piattaforme, sono portali. Non sono piattaforme perché non sono infrastrutturalmente o economicamente aperte a terzi: non puoi caricare il tuo video e iniziare a distribuirlo al pubblico o monetizzarlo.

L’ecosistema delle piattaforme sta sperimentando un “effetto blockbuster”. La concentrazione del potere in poche platform company e il dominio delle principali media company cozza con l’idea di democratizzazione della produzione culturale.

Il contenuto trasmesso in streaming su queste piattaforme è commissionato o sviluppato dall’azienda stessa. È un modello molto più chiuso, simile alla produzione televisiva tradizionale, anche se è digitale e comprende molti dati e algoritmi. Ma poi vediamo anche nell’audiovisivo un sacco di creator che producono contenuti su larga scala, e alcuni di loro raggiungono un pubblico molto vasto e diventano quasi delle vere e proprie mini-media company. È qui che avviene molta innovazione. Alla fine, a intersecare il tutto è l’idea che ogni cosa sia totalmente ed esaustivamente datificata. Le industrie audiovisive sono sempre state legate alle metriche in una certa misura, si è sempre misurata l’audience, perché le media company avevano bisogno di sapere quale pubblico raggiungevano per poterlo collegare agli inserzionisti. Ma quel tipo di feedback di dati non era così immediato, diretto ed esaustivo come quello che vediamo sulle piattaforme. Ora questo è costante, e costanti sono le sperimentazioni con le metriche. Prendiamo i creator: secondo studi etnografici, valutano come presentare i loro materiali e quali miniature utilizzare in base ai loro dati. Questa forma di test continuo sta diventando una pratica molto importante.

L’industria dei videogiochi non viene mai osservata in profondità. Qual è il suo ruolo nell’ambiente delle piattaforme digitali contemporanee? Funziona in modi specifici, anticipa quanto accadrà altrove?

Attualmente gli studi culturali hanno una produzione molto frammentata in una varietà di discipline. Ci sono i game studies, gli studi sul giornalismo, la musica, i television studies, sottodiscipline che operano in parallelo e non si parlano molto tra loro. Invece, quella che noi descriviamo come piattaformizzazione, in termini di meccanismi istituzionali e pratiche culturali emergenti – oltre alle piattaforme, ovviamente – attraversa costantemente tutti questi campi. Mettendo insieme queste prospettive, saltano subito all’occhio molti meccanismi trasversali e somiglianze, ma anche alcune differenze parecchio interessanti tra i campi della produzione culturale. Se parliamo del giornalismo, questo è un campo che ha sempre protetto la sua indipendenza. L’industria dei videogiochi è quasi l’esatto opposto. È dipendente dalla piattaforma sin dall’inizio, per via della natura del videogioco, un prodotto-software che necessita di una piattaforma su cui funzionare. Non può esserci videogioco senza piattaforma. Naturalmente, le piattaforme chiave sono cambiate, o meglio se ne sono aggiunte altre. Un tempo il settore si basava sulle console, come Xbox o PlayStation, ora gli app store e le app sono diventati molto importanti per i videogiochi sui dispositivi mobili. I videogiochi sono molto aperti alla datificazione nella loro produzione, distribuzione e monetizzazione: tutto ciò che un utente, un gamer, fa nella piattaforma è datificato e poi inviato all’azienda produttrice, che a sua volta spesso modifica il videogioco. Questo è un bene contingente altamente malleabile, molto più di un programma tv o di un brano musicale o di un articolo di giornale.

Per chiudere, in che modo tutti i discorsi che circondano la realtà aumentata e l’intelligenza artificiale si collegano alla vostra ricerca sulle piattaforme? È qualcosa che si inserisce nella traiettoria che avete tracciato, o cambierà tutto?

Al momento è difficile immaginare in che direzione si andrà esattamente. La prima cosa da notare è che le nuove applicazioni, come ChatGPT, non sono una forma di intelligenza generale, ma sistemi di pattern recognition su larga scala. I grandi modelli linguistici sono addestrati su set di dati molto grandi, costituiti in larga parte dai materiali delle industrie culturali. I testi dei giornali sono usati massicciamente per addestrare i modelli linguistici, così come le immagini e i siti web. Ciò che viene prodotto da questi sistemi rifletterà questo contenuto. Imiterà questo contenuto. Ovviamente in modi molto complessi. Un grosso problema è la trasparenza: da dove provengono questi contenuti, quanto sono affidabili, chi è l’autore, qual è la fonte? E ci sono ovviamente enormi preoccupazioni in termini di diritto d’autore. Si sta violando il diritto d’autore delle testate giornalistiche? E delle opere di illustratori e disegnatori che sono immesse nel sistema? È utile esaminare come questo si ripercuote sul processo di produzione culturale. Nel giornalismo si può intuire facilmente come le testate vorrebbero utilizzare le tecnologie per automatizzare parte del processo di scrittura, e sta già accadendo. Ma si potrebbe pensare lo stesso a proposito degli artisti e degli illustratori. Le nostre preoccupazioni sulla concentrazione del potere nelle industrie culturali stanno diventando più urgenti, soprattutto perché ciò che succede è ancora meno trasparente, ancora più concentrato, ancora più difficile da penetrare per nuovi soggetti.


Luca Barra

Coordinatore editoriale di Link. Idee per la televisione. È professore ordinario presso l’Università di Bologna, dove insegna televisione e media. Ha scritto i libri Risate in scatola (2012), Palinsesto (2015), La sitcom (2020) e La programmazione televisiva (2022), oltre a numerosi saggi in volumi e riviste.

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