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Intervista a Ivan Cotroneo

Sceneggiatore, regista, produttore, una somma di esperienze, tra tv e cinema, che porta sulla strada per ambire al ruolo di showrunner.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 23 - Autori Seriali del 25 giugno 2018

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Ivan Cotroneo, con il suo talento poliedrico, è la dimostrazione vivente di come si possa diventare showrunner solo grazie al saper fare. Con l’originalità di Tutti pazzi per amore, nato da una sua idea, ha spinto il regista a confrontarsi con lui su ogni cosa: casting, coreografie, location. Con La criptonite nella borsa e Il bacio, ha dimostrato di poter essere un valido regista cinematografico. E con la sua casa di produzione, 21, ha sperimentato, insieme a Indigo, il formato breve, da sei minuti, di Una mamma imperfetta, e ha anche gestito la complessità di una produzione piccola, sì, ma di alto livello. Insomma, se Cotroneo, dopo moltissime fiction da sceneggiatore, spesso in coppia con gli amici Monica Rametta e Stefano Bises, ha potuto essere accreditato come showrunner (seppure il ruolo non sia riconosciuto dall’industria) per Sirene, una ragione c’è, ed è molto chiara: essere in grado di svolgere a un certo livello molti lavori diversi, sempre con la stessa carica di creatività.

E allora: è giusto che sia lo sceneggiatore a essere considerato l’autore della serie?

Penso di sì. È una tendenza che si è accentuata molto rispetto a quando ho iniziato a fare televisione, dieci anni fa. Al cinema sono rarissimi i casi in cui un copione già scritto trova un regista, e quando pure lo trova poi il regista riscrive e firma il film che andrà a girare. In televisione invece la prassi è quella di individuare il concept, sviluppare il soggetto di serie e il soggetto di puntata, a volte fare anche la prima stesura della sceneggiatura per poi, soltanto allora, andare a cercare il regista. Vedo che sempre più spesso le serie sono identificate sulla base dell’autore che le crea e le sviluppa. È successo anche a me, le serie di cui sono stato autore sono riconosciute come mie, alla pari del lavoro del regista.

Qual è stata la prima serie di cui sei stato, oltre che autore, figura di riferimento per tutti gli aspetti creativi e produttivi?

Quella per cui l’ho fatto in modo compiuto è Sirene, dove firmo da showrunner, da ideatore del progetto di serie. Per la prima volta mi è stato riconosciuto un ruolo che ho svolto appieno, mentre prima lo svolgevo parzialmente e molto dipendeva dalla disponibilità del regista a condividere le sue scelte con me. La prima volta che mi è successo, che mi è stata riconosciuta questa capacità di influenza sulla realizzazione è stato con Tutti pazzi per amore, nata da una mia idea e sviluppata con Monica Rametta e poi, dopo le prime sceneggiature, con il regista Riccardo Milani. Quando Milani è entrato nel progetto ha iniziato a interpellarci: voleva il nostro parere sulla scelta degli attori, voleva confrontarsi sulla scena dei balletti, ci portava a vedere i sopralluoghi, ci ha coinvolto via via in una serie di decisioni che avevano a che fare con la messa in scena. E questo ha reso felici tutti, la produzione, Riccardo, la rete, ed è stata la prima volta che ho sentito un regista interessato al modo in cui vedevo la serie, anche se poi a livello di contratto non mi è stato riconosciuto un ruolo da head writer.

“Mi hanno presentato Monica Rametta e ci siamo subito capiti su molte cose, in particolare su un certo tipo di commedia che, brutalmente, faceva ridere entrambi. Ed è lì che per la prima volta abbiamo lavorato tutti insieme. Abbiamo un rapporto speciale, con ruoli ben definiti. Scriviamo lunghe sceneggiature e ognuno mette le mani nella sceneggiatura dell’altro. E condividiamo una visione del mondo”.

Durante Tutti pazzi per amore andavi sul set?

Sì, sono stato invitato sul set, soprattutto quando c’erano cose su cui confrontarsi, come i balletti o le scene più particolari, ma non con continuità. Con continuità ci sono andato solo anni dopo, con Sirene.

Quanto ha inciso su questo il fatto che tu avessi già nozioni di regia?

Il mio primo lavoro è stato di assistente alla regia per Libera di Pappi Corsicato, e poi per I buchi neri. Ho cominciato subito dopo il diploma, senza scrivere nulla. Sono stato a stretto contatto con i registi nelle scelte delle sceneggiature. Mine vaganti di Ozpetek ha avuto questo andamento: l’abbiamo scritto insieme, e ho partecipato a tutte le prove con gli attori, restando sempre sul set.

Perché secondo te i registi che hai citato hanno avuto questa (rara) propensione nei tuoi confronti?

Non lo so, ma non credo sia un caso che tutto sia nato con Tutti pazzi per amore. La serie era particolare già durante la scrittura, e Riccardo aveva il desiderio-bisogno di confrontarsi con chi l’aveva scritta, anche solo per sapere come potessero entrare le visualizzazioni dei momenti di canto e ballo. Quindi sia una particolarità del soggetto, sia un’attitudine di Riccardo, conservata in altri progetti come Una grande famiglia. Sono sempre stato sui set, senza imporre la mia presenza. Quando i registi mi chiamavano andavo volentieri, pensando di dare una mano. E questo Riccardo l’ha sentito, secondo me.

Quanto è stata importante per te l’esperienza di Una mamma imperfetta, progetto piccolo, ma con una eco molto grande?

Molto. Oltre a esserne l’autore e il regista, ero anche coproduttore. Ho un casa di produzione che si chiama 21 (Ventuno) che l’ha prodotto con Indigo Film (ed è produttore associato di Sirene). Ma la risposta a questa domanda sta nel modo in cui si è sviluppato il progetto. Prima di Una mamma imperfetta Indigo Film aveva prodotto il mio primo film per il cinema, La criptonite nella borsa, e stavo pensando con loro (Francesca Cima e Nicola Giuliano) il mondo che avrei voluto raccontare nel mio secondo film. Per motivi personali, e anche per una certa predisposizione alla commedia, ero affascinato dal cambiamento di prospettiva che vedevo nelle famiglie dei miei coetanei rispetto a quelle in cui sono stato bambino. Da bambino cercavo di fare di tutto per compiacere i miei genitori, e ora invece vedevo intorno a me genitori che facevano di tutto per compiacere i figli e farsi sentir dire “bravo” da loro. Ho detto ai produttori che avrei voluto raccontare la storia di una madre lavoratrice, il suo quotidiano. Loro erano interessati e ho incominciato a sviluppare l’argomento, ma ho capito quasi subito che non mi interessava fare una storia chiusa ma un diario, dove raccontare le piccole cose quotidiane senza uno sviluppo, una crisi e una catarsi. Per me era una narrazione seriale, puntate brevi e quotidiane. Allora mi sono rivolto al web, in una forma particolare, e alla televisione.

E cosa hai fatto?

Sono andato al Corriere della sera, che ha una sezione chiamata la 27esima ora dedicata a temi femminili, e a Rai Fiction, presentando loro il progetto. Pillole quotidiane di 8 minuti per 5 giorni alla settimana: non avevo in mente solo il tema e i personaggi, ma anche le modalità di racconto e quelle distributive. Per il Corriere questi minuti erano troppi (già dopo due minuti gli utenti online si stancano di un video) mentre per Rai Fiction la durata così breve televisivamente non esisteva. Ma ho insistito. Nella prima stagione ero autore, regista e coproduttore; nella seconda invece ero diventato showrunner, con un altro regista (Stefano Chiantini). Era la prima volta che assumevo un ruolo produttivo, e mi è piaciuto parecchio.

Il tuo rapporto con Bises e Rametta: avete lavorato spesso insieme e sembrate molto affiatati.

Si. Tra l’altro mi fa ridere, perché stiamo per andare insieme a cena! Siamo molto amici e abbiamo fatto tante cose. Abbiamo progetti su cui stiamo lavorando proprio per il piacere di fare qualcosa insieme. È capitato anche di lavorare solo con Rametta mentre Bises era impegnato su Gomorra e altri progetti. Siamo arrivati a conoscerci da strade diverse: tanti anni fa ho scritto un progetto per la tv con Stefano, mentre Monica l’ho conosciuta quando ho avuto l’idea per Tutti pazzi per amore, capendo che da solo non ce l’avrei fatta. Mi hanno presentato Monica e ci siamo subito capiti su molte cose, in particolare su un certo tipo di commedia che, brutalmente, faceva ridere entrambi. Ed è lì che per la prima volta abbiamo lavorato tutti e tre insieme. Abbiamo un rapporto speciale, con ruoli ben definiti. Scriviamo lunghe sceneggiature e ognuno mette le mani nella sceneggiatura dell’altro. E condividiamo una visione del mondo.

Riesci a raccontarcela questa visione del mondo?

Tutti e tre abbiamo contemporaneamente voglia di raccontare ciò che succede intorno a noi e di trovare modi nuovi per farlo, usando una chiave ironica, senza dare lezioni a nessuno, evidenziando il lato buffo delle cose.

Qual è il tuo rapporto con Rai, e nello specifico con Eleonora Andreatta? Ti è stato concesso molto credito e la possibilità di azzardare strade nuove…

Il rapporto di fiducia si è costruito nel tempo. Con Andreatta ci siamo conosciuti mentre scrivevo la sceneggiatura di Una donna per amico, con Elisabetta Gardini ed Enzo Decaro. Il rapporto è continuato con gli anni, stava a Raiuno quando ho iniziato Tutti pazzi per amore e poi è diventata capostruttura. Con lei ho un rapporto molto schietto e franco, una fiducia sana, messa sempre alla prova dal lavoro, ma inalterata al di là dei singoli risultati. Sono sempre preoccupato dalla fiducia cieca, ho bisogno di ritrovare le ragioni di quella fiducia ogni giorno. Molti mi hanno chiesto come mai la Rai ci avesse permesso di inserire tante cose folli (i balletti e gli spezzoni cantati) o di trattare temi mai affrontati in prima serata su Raiuno (come un genitore che parla della sua omosessualità ai figli), e la risposta è che noi, fin dall’inizio, siamo stati spronati a fare qualcosa di diverso, che prima non c’era.

Da lì nasce la volontà di fare progetti che abbiano una certa dose sperimentale, penso a Sorelle. Qual era il tuo ruolo lì?

Monica Rametta e io siamo stati autori del soggetto di serie e sceneggiatori, ma poi nella regia di Cinzia Th. Torrini siamo entrati poco. Lei ha un modo di lavorare autonomo, segue se stessa e le sue idee.

“Una regia di Cinzia Th. Torrini”…

Sì, lei è una figura di regista forte. È stata molto rispettosa delle nostre sceneggiature, ha messo in scena quello che avevamo scritto. Con Riccardo Milani è capitato che mi chiamasse di notte per farmi sentire un tema musicale su cui aveva lavorato, mentre con Cinzia no.

Passando a Sirene, vorrei sapere qualcosa di più del tuo ruolo di showrunner.

Un giorno sono andato da Rosario Rinaldo, di Cross Productions, dicendogli che avrei voluto fare una serie ambientata nel Golfo di Napoli, raccontando di quattro sirene a cui era scappato un tritone sulla terraferma. Sono una madre e tre figlie, e questa premessa mi è utile per raccontare la diversità, i nostri affetti, i nostri mondi, la società vista da un occhio non umano. Pensavo alle sirene come un matriarcato che si confronta con un mondo terrestre sessista dove gli uomini hanno il potere. Rosario si è molto divertito e siamo andati insieme a raccontarlo alla Rai. Ho condiviso il concept con Monica Rametta e anche a lei è piaciuto. Con Rosario abbiamo deciso che io entrassi da showrunner e coproduttore. Da un lato con Rosario si è sviluppato il rapporto produttivo con la Rai legato allo sviluppo della serie, mentre dall’altro con Monica ho scritto i soggetti e la prima sceneggiatura. Da una parte siamo andati avanti con lo sviluppo editoriale, con la stesura dei soggetti e le sceneggiature delle puntate; e dall’altra abbiamo scelto il regista, Davide Marengo. Abbiamo condiviso le scelte sulle location, sui casting, sul piano di lavorazione, abbiamo scelto gli effetti speciali, i costumi di Rossano Marchi. Più che una forma di controllo è stato un confronto, sono stato una spalla creativa. Si è creato un rapporto molto bello, Davide sapeva di poter contare su di me ogni volta che serviva. Sono stato spesso sul set, abbiamo riscritto alcune scene insieme, abbiamo continuato insieme con il montaggio, le musiche, gli effetti speciali. Lo showrunner non è un controllore ma è lì per fare in modo che quello che ha scritto si confronti con la realtà della produzione.

“Questi successi sono nati da azzardi: eravamo convinti che il pubblico fosse pronto per un cambiamento, lo cercasse. Questo ha smosso le cose, ha fatto sì che non ci fossero formule sicure o garanzie. Ma avere idee originali paga di più che andar dietro a quelli che pensiamo potrebbero essere i gusti del pubblico sulla base del successo precedente. Mi sento anch’io parte, insieme agli altri, di tutto questo movimento”.

Un clima di collaborazione, insomma…

Abbiamo trovato anche il tempo di divertirci molto. All’interno di Sirene c’è una telenovela che si chiama Colpi di cuore, e abbiamo deciso che l’avrei girata io. Un giorno stavamo girando insieme, io la soap a cui si appassionano le sirene e lui la serie vera e propria. Mi sono sentito rispettato, mai “il capo”. E credo che questo derivi dal mio passato di sceneggiatore, in cui a volte, come tutti, mi sono sentito completamente tradito dalla strada scelta dal regista. Se avessi voluto mantenere un controllo totale, e fare una serie proprio come l’avevo immaginata, non avrei avuto bisogno della creatività di Davide. Nessuno di noi ha mai fatto una prova di forza, dovevamo semplicemente realizzare la cosa migliore.

Dopo questa esperienza stai già lavorando su altri progetti con lo stesso approccio?

Sto lavorando a La compagnia del cigno, una serie su un gruppo di sette ragazzi che a Milano studiano al conservatorio. L’ho scritta con Monica Rametta e sarò anche il regista. Si tratta di un progetto a cui tengo molto, perché già al cinema, nel mio ultimo film, Un bacio, ho trattato storie di ragazzi appassionati e determinati, e volevo continuare a farlo. Negli ultimi anni ho visitato molte scuole per parlare di bullismo, mi sono confrontato con giovani molto diversi dal modo in cui sono raccontati nel discorso pubblico. Dopo Un bacio mi era rimasta la voglia di parlare di questi ragazzi, il cui problema principale è il mondo che abbiamo costruito loro intorno, e ho deciso di trattare il talento, l’impegno nella scuola, in questo caso una scuola di musica.

Dal tuo punto di vista, come sta cambiando la fiction italiana? Perché proprio adesso?

Mi verrebbe da dire che sta succedendo perché abbiamo dato tutti quanti insieme buone prove. Il lavoro di Bises su Gomorra, di Corbucci su Non uccidere e su 1992 e 1993 (con Fabbri, Rampoldi e Sardo), di Cesarano. Tutte narrazioni originali che non nascono da format stranieri, tutte storie complicate e difficili da realizzare. Stefano su Gomorra ha tirato fuori dei personaggi da un mondo che era fatto di cronaca, sono ammiratissimo. Ma cito Stefano per indicare anche tutti gli altri. Questi successi sono nati da azzardi: eravamo convinti che il pubblico fosse pronto per un cambiamento, lo cercasse. Questo ha smosso le cose, ha fatto sì che non ci fossero formule sicure o garanzie. Ma avere idee originali paga di più che andar dietro a quelli che pensiamo potrebbero essere i gusti del pubblico sulla base del successo precedente. Quando leggo progetti che hanno caratteri di originalità e che mescolano generi, mi sento anch’io parte, insieme agli altri, di tutto questo movimento. E ne sono contento.


Fabio Guarnaccia

Direttore di Link. Idee per la televisione, Strategic Marketing Manager di RTI e condirettore della collana "SuperTele", pubblicata da minimum fax. Ha pubblicato racconti su riviste, oltre a diversi saggi su tv, cinema e fumetto. Ha scritto tre romanzi, Più leggero dell’aria (2010), Una specie di paradiso (2015) e Mentre tutto cambia (2021). Fa parte del comitato scientifico del corso Creare storie di Anica Academy.

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