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Intervista a Emily Nussbaum

Poche sono le autorità in materia di tv, ma la firma del New Yorker è senz’altro una di queste. E con lei abbiamo parlato della critica, della televisione che cambia, di serie e reality.

Dal 2011, Emily Nussbaum è la critica televisiva del magazine The New Yorker. Nel 2016 ha ricevuto il Premio Pulitzer per le “recensioni televisive scritte con una passione che non sminuisce mai l’acutezza delle sue analisi o la facile autorevolezza della sua scrittura”. A giugno ha pubblicato negli Stati Uniti il suo primo libro, I Like To Watch, una raccolta di saggi (alcuni editi, altri inediti) in cui riflette su come la tv è cambiata negli ultimi vent’anni e sull’impatto avuto sulla cultura e sulla società in generale. Sagace, con uno stile personale che stimola la partecipazione del lettore, provocatoria, dura a volte, Nussbaum non si tira indietro se c’è da ridimensionare una serie di successo che non trova interessante o da dare, al contrario, il giusto peso a prodotti meno conosciuti ma che ritiene di qualità. Sempre con un solo obiettivo: celebrare la tv in quanto tv, tutta la tv, senza soggezioni. Per questo oggi Nussbaum è una delle voci più rispettate del giornalismo televisivo, non solo negli Stati Uniti.

Aveva mai pensato di diventare una critica televisiva?

È curioso, la gente me lo chiede spesso. Sono cresciuta negli anni Settanta e Ottanta, quando anche solo pensare di essere un critico televisivo era un po’ strano. La stessa televisione era molto diversa, non molto ben vista dentro alla cultura. Molta gente scriveva di tv, ma in generale non erano considerati critici seri. Molti scrivevano di tv come industria e poi c’era un tipo di scrittore-intellettuale che scriveva di tv ma per prendere di mira la cultura pop. Non era come essere critici letterari o cinematografici. A dire il vero, credo di non aver mai pensato proprio di diventare un critico. La svolta è stata alla fine degli anni Novanta: non dico che all’epoca ho deciso improvvisamente di diventare critico, ma è allora che ho scoperto una vera passione per la televisione e deciso che volevo scrivere di quello.

È in quel periodo che si è iniziato a prendere sul serio la tv, a considerarla una forma d’arte? 

È difficile segnalare un momento preciso…

Ci sono stati I Soprano, per esempio, e la tv è cambiata per sempre. Anche se lei racconta spesso che è stata un’altra serie ad avere un grande impatto sulla sua vita…

Per me, che frequentavo la scuola di specializzazione, vedere Buffy l’ammazzavampiri ha rappresentato un punto di svolta. Ma negli anni Novanta c’erano programmi ottimi, anche prima di Buffy o I Soprano. Per esempio, X-Files o Seinfeld. E anche negli anni Settanta c’erano cose ambiziose e interessanti. La tv però era completamente diversa. Possiamo dire che alla fine degli anni Novanta la tv inizia a occupare uno spazio più centrale nella cultura. Ma la tv è sempre stata insieme medium di massa e forma artistica. È solo che la tecnologia è cambiata così tanto nel tempo da permettere alle persone che producono tv di fare cose diverse. E la tecnologia, per esempio l’arrivo di internet o dei dvr, con cui potevi fermare il video o tornare indietro, ha cambiato il modo in cui la tv era percepita e il modo di fare critica. 

“Possiamo dire che alla fine degli anni Novanta la tv inizia a occupare uno spazio più centrale nella cultura. Ma la tv è sempre stata insieme medium di massa e forma artistica. È solo che la tecnologia è cambiata così tanto nel tempo da permettere alle persone che producono tv di fare cose diverse”.

Come cambia la critica? È obsoleto il modo in cui si scrive di tv, se ognuno la guarda come e quando vuole?

È un tema a cui penso spesso. Si può parlare di tv in molti modi dal punto di vista critico. A volte si improvvisa. Anche per me che, se vogliamo, scrivo ancora in modo abbastanza tradizionale, un articolo ogni due settimane e a volte un post per l’online. Mi chiedo se devo scrivere di un programma all’inizio, a metà stagione, o quando finisce, o addirittura dopo qualche stagione. La tv è un oggetto di analisi strano per un critico, perché è formata da parti ma anche da un tutto, e si sviluppa nel tempo. Online ci sono molti modi di occuparsi di tv, come i recap pubblicati dopo ogni episodio. Ci sono anche persone che scrivono di tv dal punto di vista visivo, usando clip per analizzare lo stile o i costumi. Si può parlare di tv in modi molto diversi, non c’è un modo corretto o sbagliato. Soprattutto perché scrivere di tv non significa dare la propria opinione dalla cima di una montagna, ma assomiglia di più a una conversazione.

Intende questo quando dice che la critica è una forma di espressione teatrale?

Sì, perché si tratta di coinvolgere i lettori e, per certi versi, di sfidarli. Quello che scrivo entra in circolo con quello che altre persone stanno dicendo su un programma. È un’attività intellettuale che presuppone una voce personale ma è anche una forma di espressione pubblica. 

Con la tecnologia è cambiato il rapporto che gli spettatori hanno con i contenuti e i loro creatori. A volte, come è successo recentemente con l’ultima stagione di Game of Thrones, le reazioni possono sembrare un po’ esagerate…

Sì, a volte i fan possono essere un po’ aggressivi con le loro richieste ai produttori dei loro programmi preferiti. Ma in generale il rapporto tra spettatori e programmi è una delle cose più stimolanti della tv, uno dei tratti che definiscono il mezzo. Per così dire, la tv è prodotta davanti ai nostri occhi ed è alterata dal modo in cui il pubblico risponde, con gli ascolti certo, ma non solo. I programmi sono realizzati nel tempo, a volte per anni, e hanno un rapporto circolare con gli spettatori. Capire fino a che punto si riesce a resistere alle richieste del pubblico è stimolante, per gli autori reagire alla pressione è una sfida costante. Alcuni dei migliori programmi sono tali perché hanno ascoltato le richieste dei fan, non sempre accontentandole, anzi respingendole. Vale per I Soprano, per esempio.

Anche il rapporto dei critici con gli spettatori è cambiato. Lei è molto attiva su Twitter…

Riconosco che Twitter ha diversi problemi, ma mi aiuta a uscire dalla mia bolla sociale di New York e mi dà la possibilità di avere accesso a un pubblico tv globale. Spesso chiedo: “Cosa mi sto perdendo?”. Ci sono molte serie che mi sono sfuggite ma di cui vale la pena parlare. Twitter mi aiuta a scoprirle. E magari le fa scoprire anche a chi legge le risposte alla mia domanda. Per esempio, lì ho scoperto una meravigliosa serie australiana, Please Like Me. Di solito faccio una lista. Ormai è lunghissima. Non riesco mai a stare al passo!

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Oggi nessuno riesce a vedere tutto quello che ci sarebbe da vedere in tv… C’è troppo contenuto disponibile. Soffriamo tutti un po’ d’ansia per paura di restare fuori dalla conversazione.

Ci sono troppe scelte e ci sentiamo sopraffatti. A volte mi chiedono se ho nostalgia di quando c’erano solo tre reti e un unico titolo di successo di cui tutti parlavano. Certo che no! Quel programma magari era visto da milioni di persone, ma non aveva molto di interessante da raccontare. Mentre c’erano storie o persone di cui non si parlava perché non c’era spazio e nessuno poteva fare una serie su di loro. La tv oggi è più interessante perché si possono raccontare anche storie per pubblici più piccoli. 

C’è troppo contenuto e ci sono troppe piattaforme. Davvero il pubblico potrà pagare per avere tanti servizi diversi?

Sta diventando un problema anche economico. Per vedere tutto è necessario avere troppi abbonamenti e, se non te li puoi permettere, devi decidere quali mantenere. Diventa frustrante. Faccio un esempio. Mi lamento spesso di Cbs All Access. Devi spendere quasi sei dollari al mese per vedere praticamente solo due programmi nuovi, Star Trek e The Good Fight. Certo, The Good Fight è un’ottima serie, ma non posso chiedere alla gente di spendere così tanto per vederla!

Le piattaforme digitali rendono disponibile anche molti programmi del passato. Molto archivio televisivo è disponibile. C’è gente che oggi riscopre, o scopre per la prima volta, serie come Friends o The Office. E a volte succede che quelle serie siano giudicate con la prospettiva di oggi. Cosa ne pensa?

Mi sono sempre lamentata del fatto che fosse difficile accedere ai programmi più vecchi, perché credo sia importante che la gente abbia una sorta di educazione culturale sulla storia della tv. E ora tutti hanno accesso a tutto. C’è molta gente che fa binge watching di serie degli anni Settanta e Ottanta, è bizzarro! Ma è interessante vedere come oggi ci avviciniamo a certi contenuti cercando di spiegare come il pubblico ha reagito all’epoca. Non sopporto gli articoli che hanno titoli come “10 battute controverse di Friends”, non credo che aggiungano nulla. Dobbiamo aiutare a capire il contesto in cui le battute furono scritte e pronunciate, si possono capire molte cose sulla cultura di allora solo vedendo come si rifletteva in tv. 

Oggi sono disponibili programmi di tutti i Paesi e in tutte le lingue. Lei conosce o ha visto alcune serie italiane?

Ho visto L’amica geniale. Non ne conosco molte altre. 

E Gomorra?

No, me la segno.

“Si può parlare di tv in molti modi dal punto di vista critico. A volte si improvvisa. Mi chiedo se devo scrivere di un programma all’inizio, a metà stagione, o quando finisce, o addirittura dopo qualche stagione. La tv è un oggetto di analisi strano per un critico, perché è formata da parti ma anche da un tutto, e si sviluppa nel tempo. Non c’è un modo corretto o sbagliato. Scrivere di tv non significa dare la propria opinione dalla cima di una montagna, ma assomiglia di più a una conversazione”.

Le piattaforme digitali stanno modificando i contenuti e il modo in cui sono prodotti?

Le cose cambiano velocemente, a volte è difficile assorbire tutte le trasformazioni. Se ci pensiamo, non molto tempo fa, diciamo cinque anni fa, non c’era alcun servizio di streaming. Ora i programmi sono prodotti in modo completamente diverso. Il peso e l’influenza maggiori di registi e creatori è uno dei cambi più significativi. È un’epoca stimolante. Anche se, lo ammetto, una delle cose che meno mi piacciono è quando un autore dice: “Ho fatto un film di 8 ore”. È ridicolo! È una serie, con episodi da un’ora o mezz’ora, la sua forma artistica è questa. Mentre loro vogliono dire che quello che stanno facendo non è televisione, ma assomiglia piuttosto al cinema o alla letteratura. 

È proprio cambiata la definizione stessa di cosa sia la televisione…

Prima eri costretto a fare 20 episodi di una serie a stagione. Ma non tutte erano adatte. Adesso abbiamo serie di 8 o 10 puntate. È più giusto, le serie sono di maggiore qualità. Ci sono diversi modelli, non solo serie da un’ora e sitcom da mezz’ora, come prima. Dramma e commedia si mescolano, nascono generi nuovi, ci sono serie di diversa durata, trasmesse in modo diverso… È un caos, ma è una buona cosa.

Ci sono autori televisivi con una voce personale che le sembrano particolarmente interessanti oggi?

L’esplosione di voci femminili degli ultimi anni, specialmente nella comedy, è incredibile. Per esempio, Girls, la serie Hbo, aveva un grosso problema: le chiedevano di rappresentare ogni donna, la pressione era enorme. Ora invece posso citare una decina di donne che producono serie fantastiche, aggressive, adulte, divertenti. Nessuna di loro ha l’obbligo di rappresentare tutte le donne. Ed è così che dovrebbe essere. È meglio per la tv, per le donne, per l’arte. Questa è una delle cose più affascinanti della tv. È sempre un mezzo che si basa sul lavoro collettivo, ma contemporaneamente riesce a trovare il modo di far emergere voci nuove, anche molto personali. Per citarne una, Phoebe Waller-Bridge, creatrice di Fleabag e Killing Eve. È un’attrice straordinaria e una grande autrice. Sono tutti pazzi di lei.

Abbiamo parlato molto di serie. Parliamo anche di reality. Ci sono sempre molti pregiudizi se si parla dei programmi di intrattenimento, quasi ci fosse una gerarchia in cui in alto ci sono le serie, in basso il resto. In realtà, anche i reality ci possono raccontare molte cose sul modo in cui cambia la società, contribuiscono a plasmare la realtà in cui viviamo…

Sì, è così. Infatti il mio prossimo libro sarà proprio sulle origini dei reality! I programmi unscripted sono essenziali dal punto di vista culturale. Bisogna prenderli sul serio. Certi reality sono considerati di livello inferiore, ma in realtà sono più sofisticati di quello che sembrano. E succede anche con alcune serie, per esempio Jane The Virgin, che è una delle mie preferite e che alcuni considerano solo un guilty pleasure. Ci sono tv diverse che la gente guarda per ragioni diverse. I reality hanno il ruolo che prima era di tutta la tv: oggi si parla dei reality con quel pizzico di imbarazzo con cui prima si parlava della tv in generale.

Per esempio, quale programma di intrattenimento l’ha sorpresa ultimamente?

Recentemente ho scritto di The Masked Singer. È un programma folle, quasi carnevalesco. Con i miei figli poi guardiamo spesso Queer Eye

I suoi figli sono adolescenti. Guardate spesso la tv insieme o stanno sempre su YouTube?

Ci sono cose che guardiamo insieme. Abbiamo visto 30 Rock, The Good Place e Parks and Recreation. Quando sono soli, invece, guardano le loro cose su YouTube. Spesso cercano di coinvolgermi e lo faccio volentieri. È un fenomeno interessante.

Parlando di reality e della loro influenza sulla società, non posso non chiederle di Trump…

Mark Burnett, il produttore di The Apprentice, è il principale responsabile dell’elezione di Trump. Senza quel programma non sarebbe mai stato eletto. Lì ha creato il suo brand di uomo d’affari di successo. Chiunque come me sia di New York sa che non è vero, che è un imprenditore fallito. Ma lì era rappresentato come l’emblema del capitalismo. E quando si è presentato alle elezioni chi lo aveva visto in tv ha creduto che il ruolo che interpretava in quel programma fosse la verità. Per loro era un modello. È un fenomeno molto pericoloso. Può sembrare apocalittico, ma gli effetti di certi programmi sono innegabili. Anche alcune serie ne hanno parlato. Penso a “The Waldo Moment” di Black Mirror o alla recente serie britannica Years and Years. Se scrivi di tv non puoi proprio ignorare la politica, sono legate.


Algerino Marroncelli

Quando era bambino, passava i pomeriggi costruendo scenografie di plastilina e giocando “alla tv”. Da grande, ha lavorato in Italia come autore e regista e ha scritto due saggi sulla televisione. Fino a sbarcare nel 2008 a Madrid per lavorare prima a Magnolia e ora a FremantleMedia, dove si occupa dello sviluppo di programmi originali e dell’acquisizione di format internazionali. Su Twitter è @AlgeMarroncelli.

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