Non solo nella serialità, ma anche nel mondo dei format unscripted è sempre più frequente il ricorso a titoli classici di quiz e game show. Che, dopo una pausa più o meno lunga, ritornano al successo.
La parola chiave per capire ciò che sta succedendo nel mercato dell’intrattenimento negli ultimi mesi è reboot. E non per la serie di Hulu, creata da Steven Levitan (quello di Modern Family), sul cast disfunzionale di una vecchia sitcom che viene riunito appunto per riprendere la serie originale. Quello dei reboot di vecchie serie scripted non è un fenomeno nuovo, anzi: ce ne sono stati moltissimi negli ultimi anni (come l’annunciato ritorno di Frasier su Paramount+). Proprio all’inizio del pilot della serie di Hulu c’è una scena in cui, quando la sceneggiatrice gli racconta per la prima volta l’idea, il direttivo della piattaforma ha un po’ di dubbi e chiede ai suoi collaboratori se si stiano ancora facendo reboot. Inizia allora un elenco lunghissimo di titoli: il direttivo si rassicura e decide di “rischiare”. Ma il 2022 è soprattutto l’anno dei reboot dei format di intrattenimento. Si parla costantemente nel settore dell’importanza delle intellectual properties, delle IP. Se ne è discusso parecchio al Mipcom. Per esempio, nella newsletter di ottobre 2022 di FRAPA si legge: “i brand famosi e molto amati tendono a essere apprezzati da tutta la famiglia, e questo conferisce ai canali lineari un vantaggio competitivo. Non a caso, questo aspetto non è sfuggito agli streamer, che stanno seguendo l’esempio”.
Vecchi ma nuovi
The Mole è tornato su Netflix, Survivor sarà di nuovo sulla Bbc, Lingo è tornato in Italia e ha una nuova versione con RuPaul, Password è stato ripreso negli Stati Uniti con Jimmy Fallon e tornerà in Spagna, The Farm va di nuovo in onda su Telecinco, Chi vuol essere milionario? è di nuovo in onda in vari Paesi, in Francia il ritorno di Star Academy è andato bene e in Germania Sat.1 riprenderà giochi classici come Jeopardy!. L’elenco è infinito: Big Brother, Gladiators, The Weakest Link. Stanno tutti tornando.
I numeri parlano chiaro. Dall’inizio del 2021 a metà 2022 ci sono stati 77 reboot di vecchi format in più di 30 Paesi. Si intende qui una nuova versione di un programma classico che, dopo non essere andato in onda per qualche anno in un Paese, torna in palinsesto. Un reboot è un nuovo inizio, che cerca allo stesso tempo di essere fedele al format originale ma anche di adattarlo al nuovo contesto culturale e di consumo. Questi format storici vengono anche chiamati “legacy formats”, a sottolineare proprio l’eredità anche culturale. I dati precedenti sono tratti da un recente studio della società di consulenza K7Media, che ha preso in considerazione format nati prima del 2010. Per essere considerato un reboot il format non doveva essere andato in onda nel Paese almeno per tre anni. Con questi criteri, si nota come i territori dove ci sono stati più reboot sono Regno Unito e Stati Uniti, rispettivamente con 19 e 10, seguiti da Germania e Australia. I format con il maggior numero di nuovi adattamenti sono il Chi vuol essere milionario (10) e Lingo (4). Il ciclo di vita di un format cambia molto a seconda dei casi e l’intervallo tra la versione originale e il reboot può variare dai 3 ai 30 anni. Name That Tune è tornato negli Stati Uniti dopo 36, Lingo dopo 28 in Italia e 33 nel Regno Unito. Ma in generale il divario più diffuso è tra i 10 e i 19 anni: 10 anni è, nei dati di K7Media, l’intervallo più comune, il tempo sufficiente per far riposare un format e riproporlo. Al 66% sono format di intrattenimento, quiz e game show, e non reality o factual.
I reboot sono meno rischiosi?
Il ritorno dei legacy formats sottolinea l’importanza dei cataloghi di grandi case di distribuzione come Banijay o Fremantle. E mostra che i format di successo sono sempre vivi: i migliori sono flessibili e si adattano a tempi nuovi. Programmi come The Price Is Right sono format solidi, attuali. In un’epoca di crisi prolungata (pandemia, guerra, crisi energetica e inflazione) danno sicurezza. Molti format nuovi non hanno avuto successo e, di fronte alla paura, si tende a scegliere quelli (apparentemente) più sicuri, che possono contare sull’effetto nostalgia o, per i più giovani che non li conoscono, “sembrano” nuovi (ma per la rete sono già testati e meno incerti). E questi format interessano anche agli streamers, che sempre più affiancano alle serie premium prodotti di intrattenimento più economici e popolari.
“Le ragioni per cui il ritorno di format conosciuti è allettante sono molte”, dice Clare Thompson, non-executive director di K7Media. “Innanzitutto, perché un format funzioni davvero bene ha bisogno di tempo per essere sviluppato e aggiustato; quindi, se sai che un programma già funziona è facile decidere di riproporlo vestendolo con un tocco moderno, invece di provare a reinventare di nuovo la ruota con uno originale. In questo momento c’è così tanta scelta che le reti devono catturare l’attenzione del pubblico con qualcosa di noto con cui agganciarlo, che si tratti di un format classico, una IP famosa o un personaggio celebre. E con le attuali restrizioni finanziarie arriva poi l’avversione al rischio; perciò, qualsiasi cosa che abbia un track record di successo aiuta a mitigare un po’ quel rischio”. Con quest’analisi è d’accordo solo in parte Siobhan Crawford, esperta di format, collaboratrice della rivista specializzata TBI e cofondatrice di Glow Media. “La competizione per spettatori e abbonati non è mai stata così agguerrita”, ci dice. “Acquistare un reboot è un po’ come cercare di comprare due tipi di pubblico: quello consolidato che sentirà il bisogno di guardare o abbonarsi per guardare uno dei suoi programmi favoriti del passato, e un nuovo pubblico a cui l’idea è introdotta per la prima volta”. Ma poi precisa: “Possiamo parlare di rischio ridotto ma non è proprio così: con i reboot la posta in gioco è alta perché il format è stato importante per tanti, che avranno grandi aspettative e lo confronteranno con l’originale”.
Come si fa un reboot?
Crawford punta i riflettori su un tema importante: riproporre un vecchio format non è facile. “Il più grande ostacolo per un reboot di successo è riuscire a far rivivere l’atmosfera del programma, e questo significa che la cosa essenziale è avere nel team qualcuno che ha lavorato nella versione originale. Molti potrebbero pensare che questo sia un ostacolo, ma in realtà bisogna pensare che i membri della troupe originale sanno come funziona il format, sono passati per tutte le possibili conversazioni sullo sviluppo, conoscono tutti i difetti e allo stesso tempo adorano il programma. Non vuol dire che ogni format deve essere prodotto dalla stessa casa di produzione. Ma penso sia meglio che nella squadra che produce il format ci siano alcuni membri originali e/o dei fan del programma perché hanno meglio il polso della produzione. Comprendere come pulsa il cuore di un format è essenziale”. Per esperienza personale, posso dire che quando qualche anno fa riportammo in onda The Price is Right sulla spagnola Telecinco, in posti chiave della produzione c’erano persone che avevano lavorato nella versione originale. Questo ci permise di lavorare in tempi più stretti e di prendere molte decisioni su quali giochi costruire con più velocità e sicurezza. I programmi sono un po’ come macchine: se sai già come guidarle il vantaggio è evidente. Avere persone che già conoscono il programma serve anche a rassicurare la rete.
Una nuova versione di un programma classico che, dopo non essere andato in onda per qualche anno in un Paese, torna in palinsesto. Un reboot è un nuovo inizio, che cerca allo stesso tempo di essere fedele al format originale ma anche di adattarlo al nuovo contesto culturale e di consumo.
È anche vero però che, a volte, chi ha lavorato tanto tempo a un format è più restio ad aggiornarlo, a rischiare soluzioni che possano avvicinarlo al pubblico di oggi. Riportare in vita un vecchio format è un processo interessante. Spesso il reboot in un Paese, se funziona, spinge al reboot in un altro. In quel caso il nuovo reboot diventa il modello per ri-adattare l’originale. Riportare in vita un programma ti obbliga a cercare di capire qual è il suo Dna, cosa l’ha reso un prodotto di successo per cercare di riprodurre quel successo senza tradire le aspettative. Allo stesso tempo però il linguaggio televisivo è cambiato ed è per questo necessario cercare forme nuove per mettere in scena gli stessi meccanismi. A seconda della rete, c’è chi sceglie di puntare sull’aspetto retro, magari riproponendo la stessa scenografia o presentatore, e chi invece, alla ricerca di un pubblico nuovo, cambia il look o il tono generale del programma. Il dubbio è sempre lo stesso: riproporre il programma com’era o cercare una veste nuova? Il filo è sottile ed è lì che si gioca il possibile successo. Non si tratta di “riscaldare un piatto”, quanto di ricrearlo usando gli stessi ingredienti cercando però un nuovo sapore.
Quali reboot funzionano?
La situazione è complessa. “Spesso i reboot non raggiungono i dati che avevano ai tempi d’oro perché il pubblico è oggi più frammentato. Ma possono essere considerati un successo anche per motivi diversi: se il format è collaudato è più facile attrarre dei brand per finanziarlo, come è successo con il ritorno di Supermarket Sweep o Changing Rooms nel Regno Unito”, dice Thompson. “Quando abbiamo esaminato i dati, abbiamo scoperto che la durata più comune per tutti i reboot in grado di andare oltre la prima stagione era di due o tre edizioni. Ma ce ne sono alcuni che sono andati eccezionalmente bene, come Queer Eye su Netflix, ripreso dalla piattaforma nel 2018, un decennio dopo essere andato in onda su Bravo, e arrivato ora alla settima stagione”. Format nuovi capaci di raggiungere questi stessi numeri si contano sulle dita di una mano. Molti si fermano alla prima stagione. Queer Eye è un esempio utile perché dimostra come, pur mantenendo la struttura originale del programma, il tono generale, il cast degli esperti e il tipo di storie narrate sono cambiati per adattarsi a oggi. Nel promo della prima stagione Netflix si dice chiaramente: “l’originale lottava per la tolleranza, noi lottiamo per l’accettazione”.
I reboot non sono nuovi, ci sono sempre stati. I format vanno e vengono… e poi tornano di nuovo. Da sempre. A volte tornano in forma di spin-off, come il recente Fastest Finger First di Itv, che trasforma il primo round del Milionario in un nuovo programma e cerca di “ereditare” il successo del format padre. A ogni ondata di reboot generi nuovi vengono rivisitati. “Quiz e game show sono stati i generi di intrattenimento che hanno dominato la tv degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta, e per questo sono stati i primi a essere ripresi quando i distributori e i proprietari dei diritti hanno iniziato a sfruttare i loro cataloghi. Stiamo ancora vedendo molti esempi di programmi davvero vecchi che tornano, come Name That Tune o Lingo. Ma ora, poiché molti reality show cominciano a raggiungere il loro ventesimo anniversario, stiamo iniziando a vedere che a tornare sono anche questi format, come Big Brother, Survivor o The Bachelor in vari territori”, conclude ancora Thompson.
I reboot arrivano anche sugli streamers
La grande novità degli ultimi mesi è che a riscoprire i vecchi format sono anche le piattaforme, non solo Netflix o Prime Video, ma anche molti servizi locali. “Per la maggior parte delle grandi piattaforme all’inizio i prodotti scripted sono stati il principale motore degli abbonamenti, ma man mano che maturano devono sviluppare un sistema misto, che include anche titoli unscripted a basso costo”, continua l’esperta di K7Media. “Mentre cercano di capire cosa fare nell’area unscripted e di convincere il pubblico ad andare sulla loro piattaforma anche per l’intrattenimento, ha senso per questi servizi ricorrere a contenuti popolari, spesso programmi le cui stagioni precedenti sono già disponibili nella library”, aggiunge Thompson. I dating e i reality sono i generi più attraenti per le piattaforme perché sono quelli che incoraggiano di più il binge watching, come le serie. “La nuova piattaforma di streaming di Itv, Itvx, sarà la nuova casa del reboot di Big Brother, perché spingerà il pubblico giovane a discutere, condividere e promuovere le storie in corso, proprio come è successo con Love Island”. Recentemente anche alcuni format asiatici sono stati rilanciati: format giapponesi molto popolari come Takeshi’s Castle (ripreso da Prime Video) o Future Diary (da Netflix) aumentano gli abbonati locali.
Molti format nuovi non hanno avuto successo e si tende allora a scegliere quelli (apparentemente) più sicuri, che possono contare sull’effetto nostalgia o, per i più giovani che non li conoscono, “sembrano” nuovi (ma per la rete sono già testati). E questi format interessano anche agli streamers, che sempre più affiancano alle serie premium prodotti di intrattenimento più economici e popolari.
Ma quali reboot si adattano meglio alle piattaforme e perché? The Mole, entrato da subito nella Top 10 di Netflix in 25 Paesi, sembra aver funzionato. Siobhan Crawford lo spiega così: “The Mole funziona come reboot su uno streamer perché ha un arco temporale forte e per certi versi urgente, vale a dire che ci obbliga a trovare una risposta e, man mano che i concorrenti sono eliminati, ci avviciniamo sempre più a quella risposta. Programmi come The Bachelor hanno le stesse caratteristiche: funzionano per accumulo e progressivamente ci avvicinano a un finale. La cultura del binge watching funziona per i generi con archi temporali urgenti. Programmi come Survivor invece non sono adatti agli streamer perché sono reality di competizione dove in ogni episodio l’enfasi è sulle prove (e sulle reazioni), conta il percorso”.
Un’ultima questione
Che ci siano tanti reboot significa che siamo di fronte a una crisi di creatività? Probabilmente no. Sul tema Cathy Payne, CEO di Banijay Rights, in un articolo di Deadline sull’ultimo Mipcom afferma: “Il reboot di un format non è facile. Che ci siano più reboot non significa che ci sia meno creatività in giro, ma penso significhi che è più difficile lanciare un nuovo format. I programmi hanno bisogno di tempo per crescere e viviamo in un mondo in cui spesso non ti viene concesso quel tempo”. E Axel Fiacco nella sua newsletter Friday’s Espresso sostiene che “la questione non sono in primis i reboot dei vecchi titoli (anche se sono davvero troppi), ma il fatto che i nuovi programmi scelti per la messa in onda, oltre a essere relativamente pochi, sono spesso ‘piccoli’ e poco ambiziosi. Come se chi compra avesse smesso di cercare ‘the next big thing’ nei format più nuovi. E questo è il vero problema”. Aggiungo un’ultima idea: e se invece i reboot fossero una palestra dove allenare il muscolo della creatività, dove – come nello sport – imparare i fondamentali di questa professione, dove riscoprire cosa rende perfetti certi format, dove affilare gli strumenti per creare la prossima hit?
Algerino Marroncelli
Quando era bambino, passava i pomeriggi costruendo scenografie di plastilina e giocando “alla tv”. Da grande, ha lavorato in Italia come autore e regista e ha scritto due saggi sulla televisione. Fino a sbarcare nel 2008 a Madrid per lavorare prima a Magnolia e ora a FremantleMedia, dove si occupa dello sviluppo di programmi originali e dell’acquisizione di format internazionali. Su Twitter è @AlgeMarroncelli.
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