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Estetica digitale

Questione di vibes

Sulle piattaforme ci sembra tutto uguale. Perché si è esaurita la spinta rivoluzionaria, ma anche perché i film e le serie che vediamo sono il risultato di calcoli precisi e noiosi, in cerca di vibes ed aesthetics.

Qualcosa si è rotto nel mondo dello streaming. Lo sappiamo tutti, anche se non lo diciamo ad alta voce. Lo sappiamo quando apriamo le app sulle nostre smart tv e scorriamo tra le infinite opzioni senza trovare nulla che ci attiri davvero. Lo sappiamo quando ci ritroviamo a una cena o a un aperitivo e non abbiamo più argomenti di conversazione. Allora proviamo a tirare in ballo le ultime serie tv o i film appena usciti sulle piattaforme di streaming, un argomento che, almeno fino a poco tempo fa, consideravamo l’asso nella manica da sfoderare in caso di un’impasse comunicativa, il tema perfetto per uscire dallo stallo e smettere di fissare il bicchiere. Ma ci accorgiamo che non funziona più. Che nessuno ha niente da dire, niente da raccomandare, niente da criticare. Le risposte si esauriscono in fumosi “boh” e tediati “niente di che”.

È un sentimento che proviamo tutti e che, secondo Business Insider, rivela una realtà con cui è ormai arrivato il momento di fare i conti: l’epoca d’oro della streaming tv è ufficialmente finita. L’articolo affronta il problema senza indorare la pillola: il miraggio di un catalogo inesauribile, con un’offerta di prodotti sempre aggiornata per una modica cifra mensile, si sta dissolvendo sotto il peso di un modello economico che si è rivelato insostenibile. Per anni, Netflix ha dominato il mercato fissando le regole della competizione a standard inarrivabili. Chiunque volesse partecipare alla nuova corsa verso il superamento dei rugginosi palinsesti tv avrebbe dovuto impiegare tutte le sue risorse nella produzione illimitata di programmi e film in grado di solleticare senza tregua l’appetito degli spettatori, tenendoli attaccati allo schermo in una spregiudicata battaglia contro i media tradizionali e il sonno

Strategie e risultati

Per qualche anno la strategia ha dato i suoi frutti, inducendo la nascita di diversi servizi pronti a sfidare Netflix sul suo stesso terreno di gioco. Nella prima fase della pandemia, il brillante futuro dello streaming, che la stessa piattaforma aveva contribuito a prefigurare, sembrava essere più vicino che mai. I cinema erano deserti, mentre le città entravano in lockdown per contenere il virus, e l’insaziabile catalogo di film e serie tv si presentava come l’unico rifugio possibile per svoltare le giornate e trovare conforto in una libreria di prodotti pronti a soddisfare i più eterogenei gusti per l’intrattenimento. Ma quando le restrizioni si sono allentate, e la battaglia per gli abbonamenti si è fatta più aspra, l’impero del pioniere dello streaming ha iniziato a vacillare, producendo un’ondata di licenziamenti a seguito del crollo del suo valore finanziario e cedendo all’introduzione di una forma di monetizzazione che negli anni precedenti aveva meticolosamente evitato di adottare: la pubblicità. 

Il risultato è che, per fronteggiare la crisi, Netflix ha finito per trasformarsi in quello che aveva giurato di combattere e superare per sempre: un contenitore di programmi insulsi e uniformi, che imprigiona gli spettatori in un limbo di zapping infruttuosi e riproduzioni lasciate a metà. In questo cerchio infernale, il problema più grande non è la riduzione dell’offerta, ma l’appiattimento creativo delle produzioni collegate alla piattaforma che, per non soccombere, si affidano a una strategia di risparmio che finisce per produrre narrazioni cinematografiche e seriali uniformi e intercambiabili. 

Bagliore uniforme

Lo illustra bene la scrittrice Haley Nahman che, in un’edizione della sua newsletter, conia il termine Netflix shine per definire l’insieme di scelte estetiche che accomuna i prodotti Netflix, uno stile visivo lucido e patinato che rivela una mancanza di sostanza e di originalità. Nel suo articolo, confronta due scene molto simili provenienti da film di epoche storiche diverse – Harry ti presento Sally (1989) e Moonshot (2022) – osservando gli effetti del Netflix shine sulla seconda: l’uso standardizzato di luci e inquadrature produce un glow surreale che permea lo scenario. “Tutto è inspiegabilmente blu o giallo, e brilla come se fosse stato ritoccato con FaceTune”, spiega Nahman. Ma il fenomeno del “bagliore uniformante” dello streaming moderno non si riduce a una semplice scelta estetica, rivelandosi invece il sintomo di una crisi che sta portando la piattaforma a economizzare sulle idee, riciclando senza sosta vecchi immaginari e puntando su generi collaudati e autoreferenziali. Ciò che conta non è più l’originalità della storia, ma la capacità di riprodurre all’infinito una suggestione estetica per trasformarla nel principale filtro narrativo. In altri termini, il Netflix shine sfrutta il linguaggio “emotivamente curato” delle vibes per costruire programmi basati su una retorica visiva seducente ma priva di sorprese.

Il problema più grande non è la riduzione dell’offerta, ma l’appiattimento creativo delle produzioni collegate alla piattaforma che, per non soccombere, si affidano a una strategia di risparmio che finisce per produrre narrazioni cinematografiche e seriali uniformi e intercambiabili.

In un articolo sul New Yorker, il giornalista Kyle Chayka sostiene che l’aumento esponenziale del vibe-talk sia il segnale di un importante cambiamento culturale, che riguarda soprattutto il nostro rapporto con gli spazi digitali. Le piattaforme, infatti, non si basano più sui contenuti, ma su “momenti di eloquenza audiovisiva”, esperienze effimere che, ancora prima di veicolare una storia, trasmettono una sensazione di pancia: le vibes. Luci, suoni e musica vengono attentamente assemblati per amplificare un mood e trasmettere energie tanto vaghe nella loro capacità di trovare riferimenti linguistici, quanto dettagliate sotto il profilo sensoriale. Ma mentre sui social le vibes non sono più una novità, nel mondo della produzione audiovisiva stanno diventando una presenza sempre più ingombrante.

Le vibes sono alla base del Netflix shine, il tentativo di far ruotare la storia attorno a pochi (e sempre più pigri) momenti di espressione audiovisiva, senza avere cura di mettere a fuoco il complesso contesto di relazioni e di significati da cui nasce una determinata rappresentazione. Le vibes non influenzano solo la scelta delle luci, ma anche la narrazione: sono il motivo per cui ogni singolo teen drama su Netflix ha il suo remake del “prom di sangue” di Carrie di Brian De Palma, in un citazionismo talmente esasperato da aver cancellato ogni legame con il senso della scena originale. La spietata cascata purpurea che nel romanzo di Stephen King e nel film di De Palma rappresenta il culmine di una serie di violenze perpetrate sulla protagonista è riprodotta nelle storie delle moderne reginette seriali, trasformando la scena in una posa cult riproducibile all’infinito nei diversi cosplay televisivi, da I Am Not Okay With This a Riverdale. Anche Wednesday, la chiacchieratissima serie tv di Tim Burton su Mercoledì Addams, celebra la famosa scena del prom di Carrie, ma in questo caso è l’intero telefilm a rendere ancora più evidente la combinazione vincente alla base del Netflix shine: quella di revival ed aesthetics

Mentre le vibes, infatti, si occupano di catturare e trasmettere le sensazioni di un determinato mood, le aesthetics sono alla base delle identità visive che rendiamo riconoscibili online attraverso collage e grafiche, e che riflettono un insieme coerente di scelte estetiche basate su un tema, spesso legato alla musica, alla moda, alla letteratura o, appunto, alle serie tv. Un esempio popolare di aesthetic è il cottagecore, che celebra una vita semplice e rurale, caratterizzata da un abbigliamento tradizionale con stampe floreali e maniche a sbuffo, una passione per il giardinaggio e per l’autoproduzione alimentare, e la scelta di un interior design rustico e accogliente. Sposare un’aesthetic significa impegnarsi a ricreare quel mondo estetico e le sue vibes, ovvero le sensazioni che trasmette, attraverso abbigliamenti, scenari e pose conformi all’immaginario prestabilito, sia nella vita reale che (e soprattutto) online. Il suffisso -core rende le estetiche riconoscibili e segnala che un determinato artefatto culturale è stato elevato allo status di sottocultura identitaria, e infatti Addamscore è l’aesthetic che si ispira all’indole lugubre di Mercoledì, per proporre uno stile di vita che predilige la moda vittoriana e la sottocultura goth, l’humor nero, i candelabri, gli oggetti vintage, l’arte antica e le lingue morte. 

Piatto e senza increspature

Il legame tra produzioni Netflix ed aesthetic diventa particolarmente interessante quando ci accorgiamo che la maggior parte delle serie tv sembra costruita per favorire lo sviluppo di un’estetica riconoscibile, un fil-rouge visivo e narrativo, spesso inserito in un contesto riconosciuto dalla cultura popolare, come le vicende della famiglia Addams o il prom di Carrie, e che diventa garante di hype e riconoscibilità della produzione, aggirando l’annoso problema dell’originalità. Un altro esempio, è quello che chiamo il “filone delle Mean Girls” e che, in realtà, l’enciclopedia delle aesthetics attribuisce alla combinazione degli stili Teenqueen e Pretty Preppy, due estetiche che avvolgono gli scenari iconici di Clueless, Heathers e, appunto, Mean Girls e modellano le identità delle protagoniste in divise tartan e scarpe Mary Jane, frivole eroine di drammi adolescenziali farciti di consumismo, gerarchie sociali e sfilate in slow motion nei corridoi delle high school. Non sorprende, allora, che una delle produzioni più fortunate di Netflix degli ultimi mesi sia proprio Do Revenge, un film imbevuto di aesthetics e permeato di riferimenti nascosti, anche detti easter eggs, dedicati al tributo della tradizione à la Mean Girls. Ma il fenomeno non si limita ai confini di Netflix: l’estetica Barbiecore sta già impazzando con largo anticipo sull’uscita nelle sale dell’attesissimo film diretto da Greta Gerwig, mentre Euphoria è forse l’esempio più eclatante di serie tv basata su un linguaggio estetico talmente stilizzato da assumere il carattere di una performance visiva, in cui la narrazione diventa un elemento puramente accessorio.

“Tutto è inspiegabilmente blu o giallo, e brilla come se fosse stato ritoccato con FaceTune”. Ma il bagliore uniformante dello streaming moderno non si riduce a una semplice scelta estetica, rivelandosi invece il sintomo di una crisi che sta portando la piattaforma a economizzare sulle idee, riciclando senza sosta vecchi immaginari e puntando su generi collaudati e autoreferenziali. Ciò che conta non è più l’originalità della storia, ma la capacità di riprodurre all’infinito una suggestione estetica.

Ovviamente, non si tratta di affermare che l’esaltazione di mood ed estetiche nelle produzioni televisive e cinematografiche rappresenti necessariamente un male. Il punto è cercare di capire perché, oggi, queste vengano impiegate allo scopo di riciclare le stesse storie, nel tentativo di negare la crisi creativa in cui versa tutto il settore. Una delle possibili interpretazioni ha a che fare con la crisi economica. Un articolo pubblicato su Cosmopolitan analizza proprio il legame tra la proliferazione di remake, reboot e sequel e lo stato di salute dell’industria cinematografica e televisiva. Secondo un docente, il ritorno dei revival nell’intrattenimento non sarebbe un fenomeno circoscritto agli ultimi anni, ma si tratterebbe di una situazione ciclica, che ricorre nei periodi di minore sicurezza finanziaria dell’industria. I rifacimenti sono considerati investimenti sicuri perché classificati come “proprietà” preconfezionate la cui vendita è data per assodata, perché esiste un’audience già affezionata alle vibes e alle aesthetic di quella serie. 

Da questo punto di vista, il Netflix shine e l’appiattimento creativo di un settore sempre più dominato da vibrazioni audiovisive e da riedizioni estetiche pronte all’uso non sono altro che reazioni allo stato di caos che domina le piattaforme. Vittime del sistema insostenibile che hanno contribuito a creare, invece di concentrarsi su pochi prodotti ben distinguibili tra loro, i servizi di streaming cercano di rianimare i fasti della golden age perduta rimpinguando i cataloghi di revival e relegando le produzioni a immaginari preconfezionati. Forse si tratta della fase terminale del boom, e presto vedremo una rinascita, o forse il trend è destinato a durare, considerato che proprio nelle ultime settimane sono state annunciate le serie tv reboot di Twilight ed Harry Potter. Qualcosa mi dice che ci vorrà ancora molto tempo per conoscere il finale di questa storia. Intanto, per sicurezza, una rispolverata al Wizardcore potrebbe tornare utile.


Priscilla De Pace

Scrive di cultura digitale e società. È autrice della newsletter Una goccia e del saggio Al centro dei desideri. Consumo, nostalgia, estetiche digitali pubblicato per la collana Quanti di Einaudi (2023).

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