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Il nuovo match è per i documentari sportivi

Il racconto delle competizioni e dei personaggi sportivi è un nuovo terreno di sfida tra reti televisive e non lineare. Se non puoi trasmettere le partite, devi ricostruire un’atmosfera.

Nel settembre 2004, in occasione del terzo anniversario dell’attentato alle torri gemelle, Hbo mandò in onda un documentario, prodotto tra gli altri da Ross Greenburg e Rick Bernstein, dal titolo Nine Innings from Ground Zero. Il programma ricostruiva le vicende delle squadre di baseball di New York, gli Yankees e i Mets, all’indomani dell’11 settembre, mescolando le testimonianze di giocatori, politici e gente comune e le immagini di uno degli sport più amati dagli americani, di partite, spalti e punti messi a segno. L’obiettivo dichiarato era di contribuire a ricomporre un senso di coesione e di vicinanza in una comunità lacerata da una tragedia epocale. Più che per il successo di pubblico, Nine Innings from Ground Zero è ancora oggi un caso paradigmatico di come lo sport e la televisione possano dare vita a linguaggi innovativi, veicolare messaggi dal potente impatto sociale, e in definitiva radicare mitologie e immaginari destinati a durare nel tempo e rafforzare legami e sentimenti di una comunità nazionale.

Il documentario, un vero tv movie, ha svolto un ruolo decisivo nel superare i traumi dell’11 settembre, cercando di normalizzare, attraverso un lucido e quanto più possibile didascalico racconto del reale, una situazione di evidente inquietudine. Lontano dalle logiche della spettacolarizzazione che caratterizzano offerta e fruizione dello sport americano, Nine Innings from Ground Zero giocava la carta dell’inchiesta, di una narrazione funzionale a mettere ordine nel flusso degli eventi, sulla scia di uno stile e di un formato che in quegli anni riscuotevano interesse e curiosità (si pensi ai lavori di Michael Moore, come Bowling a Columbine o Fahrenheit 9/11). Lo sport come espediente narrativo per riallacciare fili spezzati, guardare avanti e consolidare immaginari, a cui negli anni successivi diversi player mediali hanno attinto – basti ricordare lo straordinario Once Brothers, film-documentario trasmesso nel 2010 su Espn che ripercorre le vite di due campioni della pallacanestro ex-jugoslava, il serbo Vlade Divac e il croato Dražen Petrović, e la loro amicizia frantumata dalla guerra dei Balcani. Un percorso che il rapporto tra sport e tv (e più in generale, il mondo dell’audiovisivo) ha abbracciato in molteplici occasioni e nelle direzioni più varie.

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Nine Innings from Ground Zero

Oltre l’epica, la memoria e la nostalgia

Anche il sempre più diffuso filone della memoria ha avuto (e continua ad avere) questo obiettivo: far rivivere epopee del passato, gesta eroiche e imprese sportive inserite nel complesso groviglio di eventi, cause ed effetti della Storia (quella con la maiuscola) sociale, culturale e politica di una nazione è una chiave di lettura che negli ultimi due decenni ha raccolto successo nei palinsesti dei canali free e pay di molti paesi, ciascuno con le proprie specificità. Le domande a cui questi prodotti cercano di rispondere, in fondo, sono sempre le stesse. Come riorganizzare l’offerta sportiva in una fase di abbondanza e di tematizzazione dei contenuti? Come aggiornare il linguaggio di un genere costituzionalmente capace di generare ascolti e rimescolare i profili delle audience? Come bypassare la mancanza di diritti per la trasmissione degli eventi live, il vero punto di forza della tv contemporanea?

Netflix, Amazon o Dazn hanno consentito di familiarizzare con contenuti e formati nativi in cui il behind-the-scenes, la sfida estrema (contro se stessi, l’avversario o la natura) o persino l’esaltazione del fallimento diventano cifre stilistiche di un’offerta nuova e peculiare. Si pensi a Sunderland Till I Die, una docu-series diventata testimonianza autentica dell’incredibile vicenda e caduta della squadra inglese.

In Italia, il racconto dello sport in chiave documentaristica ha una storia lunga, che attraversa generi e formati. Spesso confinato in rubriche speciali e fasce di palinsesto meno pregiate, negli ultimi vent’anni ha vissuto una rinnovata fortuna che ha comportato, insieme, rischi di saturazione e facile emulazione. Con un programma come Sfide, in onda sulla Rai dal 1999, la dimensione epica e memorialistica dello sport trova un rilievo e un linguaggio nuovi, in bilico tra informazione e intrattenimento, esplorazione storica e indagine sociale, prospettiva agiografica e sguardo nostalgico. Le pay tv tematiche, dal canto loro, hanno fornito altri spunti di approfondimento, potendo contare sulla forza di brand riconoscibili e riconosciuti nel macrogenere dello sport e su pubblici competenti, appassionati e affezionati. Solo negli ultimi anni, Sky Sport ha visto la proliferazione di originals significativi, come gli innumerevoli “speciali” di Federico Buffa (un autentico “affabulatore”, con Storie mondiali, Storie di campioni, il ciclo sul ’68 o quello sulle icone sportive e sociali del passato come Jesse Owens e Muhamad Alì), e quelli dai toni più dimessi e didascalici di Matteo Marani (1964: il Bologna Paradiso, Checkpoint Trieste, Ho visto Maradona). Tutti prodotti che al di là del valore intrinseco hanno assunto rilevanza nelle strategie di palinsesto e promozione del canale (si pensi al caso del pop-up channel Buffa racconta per il lancio della serie sullo sport durante i rivolgimenti sociali del ’68), incastonandosi perfettamente dentro le logiche editoriali e commerciali del broadcaster, dialogando con il resto di un’offerta tutta schiacciata sul racconto in presa diretta degli innumerevoli eventi nazionali e internazionali delle maggiori discipline.

La focalizzazione sullo sport (o meglio, sulla storia dello sport) è una mania che attanaglia anche altri player tematici della tv a pagamento, compresi quelli tradizionalmente orientati su una linea editoriale del tutto differente, per certi versi più “alta”. Nel 2018, in occasione dei mondiali in Russia, History Channel ha mandato in onda in oltre 160 paesi uno speciale di sette puntate sulla competizione di calcio più importante al mondo. In Italia, History of Football (questo il nome della serie) ha stravolto la programmazione del canale con una maratona 24/7 durata due settimane. Aneddoti, interviste, filmati d’epoca con un “trattamento” tutto nazionale: a introdurre gli episodi con brevi pillole storiche e tecniche di inquadramento è stato, infatti, chiamato l’ex calciatore Gianluca Vialli, volto noto di Sky e commentatore tra i più abili nel dominio del mezzo televisivo, già protagonista di una contaminazione tra sport e intrattenimento con il talent Squadre da incubo (senza grandi fortune, per la verità). Persino National Geographic, un brand che ha nelle scoperte scientifiche e nel binomio tra natura e cultura gli elementi di distinzione e riconoscibilità, non ha esitato a gettarsi nello sport con un racconto coerente con i contenuti del canale: uno degli episodi del ciclo Le verità nascoste, realizzato dalla casa di produzione Stand by Me, è stato infatti dedicato a Diego Armando Maradona, all’ascesa, i successi, la crisi e le miserie di uno dei personaggi più amati e controversi della storia del calcio. Un taglio da documentario televisivo classico, con interviste ad amici e a ex compagni di squadra, un’immersione narrativa in linea con il marchio. Si tratta di operazioni finalizzate a diversificare i bacini di pubblico, consapevoli del ruolo che lo sport (in tutte le sue forme, anche quelle non strettamente connesse all’evento live) gioca nel ridefinire l’identità di una rete e sperimentare traiettorie narrative e meccanismi produttivi inediti.

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Le verità nascoste – Maradona

Gli sportivi come celebrity

Con l’avvento sul mercato delle piattaforme streaming e over-the-top, la geografia del documentario sportivo subisce ulteriori trasformazioni. Netflix, Amazon o Dazn hanno consentito di familiarizzare con contenuti e formati nativi in cui il racconto si sviluppa nell’arco di più episodi e in cui, soprattutto, il behind-the-scenes, la sfida estrema (contro se stessi, l’avversario o la natura) o persino l’esaltazione del fallimento diventano cifre stilistiche di un’offerta nuova e peculiare. Si pensi, a questo proposito, a due titoli del catalogo Netflix come Losers, una raccolta di storie di “perdenti”, o Sunderland Till I Die, una docu-series sull’incredibile vicenda della squadra di calcio inglese del Sunderland, il cui obiettivo era quello di raccontare l’immediato ritorno in Premier League dopo la retrocessione e che si è rivelata invece la testimonianza autentica di un’ulteriore débacle e della caduta nella terza serie.

Le piattaforme on demand hanno la necessità di arrivare al pubblico con proposte dirompenti. La ricerca di talent sportivi, da un lato, e di quell’alchemico groviglio di emozioni (adrenalina, fatica, sofferenza, ma anche tifo, colore, passione) che lo sport produce, dall’altro, sembra la strada più efficace per generare curiosità e hype, in una precisa strategia promozionale che sappia far parlare di sé anche fuori del giardino protetto degli asset prevalenti quali il cinema e la serialità. Che l’attenzione crescente, sempre più mirata e curata, nei confronti dello sport sia il preludio all’ingresso nella battaglia per l’acquisizione dei diritti degli eventi sportivi? Un modo per testare e, allo stesso tempo, preparare il pubblico delle piattaforme Vod a una nuova – l’ennesima – trasformazione epocale del rapporto tra sport e audiovisivi? Difficile dirlo, anche se in alcuni Paesi europei alcune piattaforme hanno giocato (e in parte vinto) la partita per aggiudicarsi e trasmettere importanti competizioni sportive. Di certo, c’è che con gli over-the-top il modo di raccontare lo sport si è arricchito di tasselli ulteriori. Un primo scarto evidente rispetto agli esempi dei canali tradizionali consiste nell’abbandono di una retorica fondata sul passato, sulla rievocazione di un’impresa sportiva consolidata nella memoria collettiva, per abbracciare al contrario il mito dell’atleta e del campione colto nella quotidianità, nella costruzione certosina della sua immagine e del successo (o insuccesso). È un cambio di paradigma rilevante, basato sull’idea che lo sport può generare interesse non solo per l’evento o per la riproposizione di gesta celebri, ma anche per tutto ciò che nasconde l’impresa, il racconto vivido e maniacale che solletica ammirazione e aspirazione.

È un cambio di paradigma rilevante, basato sull’idea che lo sport può generare interesse non solo per l’evento o per la riproposizione di gesta celebri, ma anche per tutto ciò che nasconde l’impresa, il racconto vivido e maniacale che solletica ammirazione e aspirazione.

Il punto centrale per cogliere la mutazione tematica e di linguaggio è da ricercare nell’idea dello sportivo come celebrity: secondo Influencer Marketing Hub, tra i 25 profili Instagram più seguiti nel 2019 almeno 6 fanno riferimento al mondo dello sport (Cristiano Ronaldo, il più amato in assoluto, poi Leo Messi, Neymar, ma anche l’ex wrestler Dwayne Johnson, il marchio Nike e il profilo ufficiale del Real Madrid). In una classifica dominata da popstar e top model, l’unico settore a sgomitare con successo è quello dei grandi e strapagati campioni dello sport. Anche da qui passa l’esplosione di un’autentica ossessione per gli sportivi che spinge i grandi produttori e distributori di contenuti ad assicurarsi una copertura estesa e a lavorare su una creatività pienamente inserita nelle logiche on demand. In parte Netflix e soprattutto Amazon hanno tracciato un solco che possiamo immaginare troverà terreno fertile nei prossimi anni. Curiosamente, il primo esperimento del colosso di Los Gatos dedicato al calcio ha avuto l’Italia come protagonista, con il docureality First Team: Juventus, firmato da D. B. Sweeney e distribuito nel 2018. Un progetto che sembra essere rimasto isolato, almeno per quanto riguarda temi e protagonisti dello sport di casa nostra. Un limite di First Team: Juventus, paradossalmente, è nel suo essere un resoconto largo, eccessivamente didattico; alla dimensione patinata, senza sbalzi, che lo fa spesso virare verso l’archetipo di una promozione corporate, non fa mai da contraltare l’aspetto ruvido e passionale, quello che spinge sul sentimento e sulla mitologia prima che sulla professionalità rigorosa o sull’estetica glamour.

Qualità della scrittura

Quello che manca alla serie sulla Juventus è il contorno, l’impasto di colori, calore, suoni e conflittualità che troviamo invece, per esempio, in un’altra produzione Netflix come Boca Juniors Confidential, una serie argentina in quattro puntate incentrata sulla squadra di Buenos Aires, dove a dettare il ritmo della storia è l’imprevisto, la difficoltà, la tifoseria, e ancor più il rapporto con la città e il quartiere di riferimento. La voce narrante è di Juan Pablo Varsky, padre dello storytelling sportivo sudamericano, che consente quindi un’immersione più genuina e meno ostentata dell’universo Boca Juniors: un viaggio nell’anima di una squadra e del suo radicamento, più che nell’inevitabile componente commerciale. Uno sguardo sul contesto sociale di riferimento che si ritrova anche nella già citata produzione sul Sunderland: a rendere ancora più drammaturgicamente credibile e funzionale la caduta improvvisa della squadra è il declino tangibile e malinconico di una città ex industriale, dove il calcio (e la passione per il club) rappresenta un elemento di identità ancora intenso. Errori, sconfitte e disastri societari sono accompagnati con la voce dei tifosi, che diventano i protagonisti della serie, il filo conduttore di un racconto che ha nel ribaltamento dello schema narrativo il suo indiscutibile tratto caratterizzante.

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Proprio in Gran Bretagna, come è facilmente intuibile, lo stato del genere è particolarmente brillante e vivace e l’investimento in questa forma di narrazione sportiva è più avanzato e concretamente ancorato a valori e celebrità nazionali. Ha fatto discutere e parlare di sé (anche per inevitabili controversie legali), per esempio, un titolo come All or Nothing: Manchester City, un docureality distribuito da Amazon Prime Video che ripercorre da vicino le tappe salienti della vincente stagione 2017-18 della squadra allenata da Pep Guardiola. Si tratta di un racconto in otto puntate che, con l’incedere del romanzo, una scrittura incalzante e dettagli registici e fotografici di alto livello, conduce lo spettatore in un’altalena continua tra dentro e fuori, tra la profondità dello sguardo sugli spogliatoi, sulle sedute di tattica, sull’infermeria, e la panoramica del contorno, la maestosità del calcio inglese (il più ricco al mondo) con le infrastrutture, le tradizioni secolari e le modernità avveniristiche. Con la musica degli Oasis a fare da sfondo, due figure si stagliano: il voice-over inarrivabile dell’attore Sir Ben Kingsley e la teatralità innata del tecnico catalano, capace di attrarre e appassionare al di là delle competenze e del linguaggio per addetti ai lavori.

E sempre sulla piattaforma di Jeff Bezos è arrivata in estate la serie This is Football, viaggio in sei puntate alla scoperta della passione e funzione del calcio in ogni angolo del pianeta; realizzata con il contributo di Starbucks, esplora tramite sei parole chiave altrettante storie che fanno del calcio il linguaggio globale per eccellenza, un alfabeto comune capace di regolare le vite di comunità frastagliate e sfaccettate. Una “febbre” per la docu sportiva (per parafrasare Nick Hornby) ha contagiato i broadcaster tradizionali: discreto successo ha avuto Harry’s Heroes, documentario realizzato da Fremantle per Itv, che ha seguito le avventure di un team di ex calciatori inglesi del recente passato (questa volta, sì, con un occhio anche alla nostalgia…), guidati in panchina da Harry Redknapp, manager degli anni Novanta in squadre di non primissima fascia, riuniti appositamente per un match contro i rivali storici della Germania. E pure in Spagna Amazon ha avviato un percorso sul genere: nel 2018 ha proposto Six Dreams, racconto reale di sei calciatori di squadre minori della Liga, mentre più di recente ha prodotto due serie su personaggi iconici del calcio spagnolo, Luis, el sabio del éxito, su Luis Aragones, tecnico che ha portato la nazionale a vincere il primo titolo mondiale nel 2018, ed El corazón de Sergio Ramos, che immortala vita pubblica e privata del capitano del Real Madrid. Forte della sua posizione privilegiata nella trasmissione di eventi live, infine, anche Dazn sperimenta produzioni originali che possano arricchire l’offerta e trattenere pubblico anche al di fuori delle dirette di competizioni nazionali e internazionali: due titoli sono la tedesca Being Mario Götze, incentrata sul calciatore della nazionale, e la spagnola Lo llevamos en la sangre, che celebra un’altra grande tradizione dello sport iberico, il motociclismo.
L’Italia sembra scontare ancora alcuni ritardi, legata a doppio filo a un racconto sportivo che privilegia la figura del volto-narratore da un lato e la dimensione epico-suggestiva dall’altro. Tuttavia, si scorgono primi segnali di inversione di tendenza: Wildside ha infatti acquistato i diritti del successo letterario Un capitano, biografia di Francesco Totti scritta dal giornalista Paolo Condò; al documentario, diretto da Alex Infascelli, collaborerà anche la casa di produzione Capri Entertainment. Simbolo di Roma e della “romanità calcistica”, la scelta di Totti è in linea con l’idea di celebrità vincente che trasmette messaggi positivi e puliti, popolare ed equilibrata allo stesso tempo. Un modello che trasporterà finalmente lo sportivo italiano (e il suo modo di raccontarsi e farsi raccontare) in una dimensione contemporanea.


Paolo Carelli

Svolge attività di ricerca presso il Ce.R.T.A. (Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi) ed è coordinatore didattico del Master “Fare TV. Gestione, sviluppo, comunicazione” dell’Università Cattolica di Milano. Tiene corsi sui media presso lo stesso ateneo e l’Università di Bergamo.

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