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Eterno ritorno

Il mucchio selvaggio di internet

Siamo sempre convinti che tutto sia nuovo. Ma molti dei fermenti che caratterizzano i creator, i social e i contenuti video di oggi ricordano (inconsapevolmente) gli anni folli delle piccole reti tv locali.

Tra i tanti film nati dallo storico sodalizio tra Alberto Sordi e Rodolfo Sonego, ce n’è uno che non è mai diventato particolarmente celebre. Potremmo quasi dire che Assolto per aver commesso il fatto, del 1992, è stato quasi dimenticato: ignorato dalla tv, boicottato dal mercato dvd, rimane solo qualche sbiadita copia in vhs, che YouTube, il portale del ritorno del sommerso, ci ha restituito dopo anni di oblio. Esclusa la solita formidabile interpretazione di Sordi e la solita brillante intuizione narrativa di Sonego, in effetti, il film non è un capolavoro. Nel libro Il cervello di Alberto Sordi, Sonego definisce quella pellicola “un instant movie”, ragione per cui, al di là della sua riuscita, resta un documento interessante: è la storia di un ex commissario della Siae che truffa imprenditori miliardari comprando televisioni private, compresi i loro debiti, sfruttando il principio del too big to fail. Era il 1992, e il decennio che si era appena concluso era stato il decennio della televisione-Far West, terra di nessuno e di tutti, terra di decreti e di conquiste, di guerre al monopolio e di manovre al limite con la legalità, prima che arrivasse la legge Mammì a mettere un punto. In Assolto per aver commesso il fatto, infatti, c’è un tycoon all’italiana che tutti chiamano “il Cavaliere”, un imprenditore deciso a comprare tutte le piccole emittenti sparpagliate per l’Italia e crearne un’unica, magnifica, indistruttibile; il resto, potremmo dire, è storia. Ma se la storia si ripete sempre due volte, oggi siamo nel pieno della farsa: internet, i social, la moltitudine audiovisiva, la corsa alla conquista di terre vergini, le fette della torta che si assottigliano, gli universi sommersi del web, i giganti che provano ad assorbirli sotto un unico, grande broadcast.

“La strabiliante, epica, inverosimile ma vera storia della televisione locale in Italia”

Nel 2006, due giornalisti, Sandro Piccinini e Giancarlo Dotto, firmano per Mondadori una rocambolesca inchiesta sulle televisioni locali e private italiane. Il libro si chiama Il mucchio selvaggio. La strabiliante, epica, inverosimile ma vera storia della televisione locale in Italia, e più che una vera e propria accurata indagine giornalistica, è una divertente immersione in tante piccole storie di personaggi assurdi che nel corso degli anni Settanta e Ottanta hanno popolato le sedi sperdute delle televisioni regionali. Alcune vere, altre un po’ più romanzate, dal ritratto del Baffo da Crema a Wanna Marchi, da Nonno Ugo ad Aiazzone, fino al progetto visionario di Pippo Baudo e Mario Ciancio Sanfilippo, che sognavano in grande con Antenna Sicilia – dove peraltro esordì una giovanissima Barbara D’Urso –, Il mucchio selvaggio è un titolo che descrive con precisione la nutrita raccolta di paragrafi che raccontano la quantità enorme e confusionaria di realtà frastagliate di cui era composta la galassia tv di quegli anni. 

Passando in rassegna tra le avventure di Telebiella e Telecapri, c’è un aspetto strutturale che emerge come minimo comune denominatore di tutti i protagonisti del Far West televisivo descritto dagli autori: la necessità che si fa virtù. Pochi mezzi a disposizione, molta inventiva, ma soprattutto, molta voglia di esplorare le infinite possibilità che la televisione, anche la più stracciona e raffazzonata, poteva dare a chi era così coraggioso da imbarcarsi in una missione ai confini della presentabilità. Questa atmosfera confusionaria, intraprendente e, soprattutto, ingenua, priva di quella istituzionalità che poi è l’essenza della grande tv generalista – gli studi di posa, le coreografie – ricorda per molti aspetti ciò che succede su internet da quindici anni circa. Da quando ogni utente è diventato creator, da quando ogni scampolo di materiale è diventato content, da quando, insomma, ogni cameretta è diventata scenografia, da quando le ring light sono diventate le luci della ribalta. 

L’internet del sommerso

Sempre nel 2006, sempre per Mondadori, Aldo Grasso pubblica un saggio sulle televisioni private che si intitola La tv del sommerso. Viaggio nell’Italia delle tv locali. Il sommerso, l’upside down di Stranger Things a cui si accede dal tubo catodico, un mondo che, al contrario della maestosa verticalità generalista si muove nell’ombra dell’orizzontalità underground. Quando internet è sbarcato nelle nostre esistenze, l’idea di sottosopra e di sommerso era alla base della sua novità: Matrix, il film che chiude il XX secolo, mostra proprio questo, un’enorme tana del bianconiglio dentro cui ci si perde, un viaggio dall’altro lato della barricata che, nel 1999, era l’ignoto futuro futurista, un forum, una chat, un tunnel di aggregazione nascosta, dove poter vivere nella libertà tanto agognata del peer-to-peer. Oggi, dopo vent’anni, tra connessioni wi-fi e fibre ottiche, l’essenza di internet come luogo di alterità rispetto alla realtà è molto cambiata: le norme si sono imposte col tempo, il codice del villaggio globale si scrive in itinere

L’atmosfera confusionaria, intraprendente e, soprattutto, ingenua delle prime tv private ricorda per molti aspetti ciò che succede su internet da quindici anni. Da quando ogni utente è diventato creator, da quando ogni scampolo di materiale è diventato content, da quando, insomma, ogni cameretta è diventata scenografia, da quando le ring light sono diventate le luci della ribalta.

In Italia, i profili Instagram dei Ferragnez, punte di diamante dell’intrattenimento contemporaneo, sono molto più vicini a Canale 5 negli anni d’oro della rete, quando la tv era il mezzo di comunicazione per eccellenza, che a un sito molto visitato del 2002. Certo, il loro è un caso quasi unico, ma l’esposizione generalista a cui ambiscono i creator oggi è un dato di fatto. L’elemento interessante di questo processo di massificazione dei contenuti digitali è che, spesso senza neanche la consapevolezza delle proprie ambizioni, internet riproduce con i suoi mezzi a disposizione le strutture di rappresentazione della tv. Esattamente come le televisioni private – in modo naif e improvvisato – ripetevano rituali, forme e messaggi delle grandi tv, anche sul web si può osservare un principio di emulazione diffusa. Ancora più frammentato e con meno soldi a disposizione, l’internet del sommerso affonda le sue radici sotterranee in un rimpasto post-postmoderno di usi e costumi della televisione, con un risultato spesso goffo ma non per questo inefficace: è l’era del pastiche audiovisivo.

Comizi d’amore

Non era sicuramente negli intenti di Fedez e Luis Sal evocare il titolo del saggio di Dotto e Piccinini quando hanno lanciato su YouTube e Spotify il format Muschio selvaggio, eppure in qualche modo sono collegati. Uno studio senza particolari scenografie, due camere, una fissa e una per i primi piani, una parete verde, una scrivania. Il set del podcast più seguito degli ultimi due anni è, da un punto di vista formale, la versione contemporanea di una televendita di Alessandro Orlando su Telemarket, ma non ci facciamo caso, semplicemente perché la sciatteria su internet è concessa. Anzi, quel senso di try hard che può scaturire da un eccesso di cura nella confezione di un programma è l’anti-estetica dei creator. I Me contro Te sono passati da una camera fissa piantata nella stanza da letto a un vero e proprio studio degno di Bim Bum Bam, i soliloqui di Sofia Viscardi nei suoi diari puberali trasmessi dal letto a castello sono diventati salotto bene in Canale di Venti, moderno Harem ma senza il prurito di Catherine Spaak.

L’evoluzione automatica del set internettiano è sempre la tv, senza sapere di essere tv. Ospite da Fedez e Luis, cuffie alle orecchie e microfono ben in vista – anche podcast e streaming hanno i loro codici estetici, spesso associati a mezzi di produzione che in tv sono camuffati, qua invece rimangono volutamente in bella vista – Belén Rodriguez, una delle ultime star televisive dell’epoca di massima espansione del mezzo, confessa di sentirsi annoiata dall’eterno ritorno che propongono i nostri palinsesti, ma al contempo stupita dalla modernità di un piccolo frammento di Comizi d’amore che ha visto per caso. La scarsa conoscenza del passato è diventata una cifra stilistica di Muschio selvaggio, tanto da raggiungere l’apice con la gaffe di Fedez su Strehler, ma questa candida ignoranza sul passato recente non è peccato su internet. Al contrario, tutto ciò che è archivio è nicchia per appassionati, mentre il futuro è già vecchio, il trend è già consumato: lo schema è sempre lo stesso, quando l’ospite è un grosso personaggio della tv dei decenni passati, ogni racconto culla i conduttori in un piacevole stupor mundi, la rivelazione dell’ignoto è parte del gioco. In questo modo, si alimenta quel principio di emulazione ingenua che rende tutto così internettiano, intrinsecamente leggero, privato della zavorra del passatismo novecentesco e al contempo utile alla notiziabilità estemporanea che genera l’indignazione per gaffe e lapsus vari che avvengono in questi luoghi di non-conoscenza. 

Il curioso caso di Affinity Reality

Nel marzo 2022, è pubblicato un trailer su un canale YouTube dal nome AffinityTV. “In una caratteristica villa nel cuore della Puglia, 28 vip fra personaggi famosi, influencer e personaggi dello spettacolo si dovranno mettere alla prova per stabilire più affinità possibili con gli altri concorrenti per poter arrivare in finale e vincere così il reality.”, è il sottotitolo del video; “Il primo reality social della tv italiana”, recita invece quello sulla pagina Instagram di Affinity Reality: scorrendo tra i post, si evince che è stato girato nell’estate 2020, un anno e mezzo prima del suo lancio online. A che scopo fare un reality social se i social sono già di per sé mezzi preposti a condividere la realtà? La risposta a questa domanda sta nel semplice fatto che di social Affinity Reality non ha niente, se non, appunto, la piattaforma su cui è condiviso. Esattamente come fu per The Lady diversi anni prima, quando il tentativo di emulazione è così intenso, e quando l’obiettivo preposto è così alto, il risultato, invece che un fallimento, diventa un successo per paradosso. Dei lunghi episodi di questo reality in cui personaggi del sottobosco televisivo – reduci di Temptation Island ed Ex on the beach, micro-influencer con un tesoretto di follower accumulato con qualche apparizione in tv, personalità di YouTube come la famosa Diva del Tubo, pornostar e personal trainer – si ritrovano insieme in una location caratteristica in Puglia con un budget di cento euro al giorno, purtroppo, non c’è più traccia. Poche settimane dopo aver graziato un pubblico di curiosi avventori, il reality è stato eliminato dal canale, lasciando orfani ma non indifferenti quei pochi che hanno potuto fruire della sua presenza estemporanea. 

Ancora più frammentato e con meno soldi a disposizione, l’internet del sommerso affonda le sue radici sotterranee in un rimpasto post-postmoderno di usi e costumi della televisione, con un risultato spesso goffo ma non per questo inefficace: è l’era del pastiche audiovisivo.

La forza di Affinity era la sua incredibile sommarietà, impossibile da riprodurre con un intento consapevole o parodistico: un patchwork di regole e idee, mutuate dai dating game di successo degli ultimi anni, cucite insieme da un Dottor Frankenstein dell’autorialità televisiva. Dai confessionali alle penitenze improbabili, come dormire in tre in una tenda sotto al sole una volta raggiunto il tetto di nomination, questo piccolo gioiello di naïveté racchiude tutta l’essenza della fase proteiforme in cui si trova la rappresentazione audiovisiva oggi. Persino un creator tra i più bravi e originali come Luis Sal, quando vuole scimmiottare i canoni della televisione, cade in quello che dalle parti di Roma chiamano “una pecionata”, un lavoro un po’ abbozzato, senza una direzione precisa: nei suoi video dal titolo REALITI, pubblicati nell’estate del 2021, l’intento è quello di documentare una vacanza di gruppo con alcuni colleghi dell’universo streamer italiano – Sdrumox, Homyatol, Il Masseo, Panetty, per citarne alcuni – utilizzando forme e stili dei reality che andavano in onda su Mtv, sulla scia di Jersey Shore. Per chi ha visto quella tv, tipica del primo decennio degli anni Zero, i contenuti di Luis Sal appaiono poco precisi, confusionari, la parodia è imprecisa – effetto straniante inedito, se messo a confronto con l’estetica chiara e puntuale che Luis Sal ha messo in piedi in questi anni di lavoro. Ma chi, invece, non ha mai avuto contatto con la matrice di questa gag sbilenca ci trova un divertente ricordo di una realtà che conosce da lontano, e la verosimiglianza, principio base del patto tra creatore e fruitore, sta in piedi.

La libertà che guida i follower

Adam Mosseri è il capo di Instagram. Il suo profilo sembra generato con un’intelligenza artificiale che mostra tutti gli elementi del social al loro grado più alto e perfetto: figli adorabili, famiglia giovane, arredamento elegante, tutto in palette e con un’uniformità estetica che ricorda le ambientazioni di Her, il film di Spike Jonze del 2013. A cadenza regolare, Mosseri parla all’enorme community che popola l’app che fu delle foto e dei filtri e che è oggi delle stories e dei reel per annunciare cambiamenti, features, innovazioni. Parla in camera come un amico, una persona che ci vuole bene e ci spiega, con calma e precisione, che la cosa che ha più a cuore Instagram è la nostra esperienza. Nell’estate 2022 però, qualcosa si è spezzato: di punto e in bianco, Instagram ha cambiato il suo aspetto ed è diventato molto più simile a TikTok. Non è la prima volta che si copiano i compiti del compagno di banco – basti pensare a Vine e a Snapchat – ma la rabbia degli utenti è così forte da innescare un passo indietro. Una sommossa collettiva che ha visto Kylie Jenner in cima al popolo, come nel famoso dipinto di Delacroix, ma con un post di protesta al posto della bandiera francese. Per sopravvivere, Instagram ha bisogno di evolversi, ma internet non è luogo di rivoluzione; di riforme, piccole e impercettibili, invece sì. Anche TikTok, dal canto suo, cambia nel tempo e imita YouTube, allungando i video fino a dieci minuti. Se la forma determina inevitabilmente il contenuto, queste trasformazioni costanti a cui sono esposti non solo i social, ma anche le piattaforme di streaming, dimostrano che la disintermediazione non ha solo spezzato la verticalità ma ha generato una forte instabilità. Le proiezioni a lungo termine sono bandite, i flussi di interesse sono in bilico su un filo sottile. Dall’altro lato della barricata, la tv resiste stoicamente restando ancorata a programmi con diversi decenni sul groppone o riproponendo format vecchi e solidi, con alcuni grandi classici tirati fuori dalle antiche stagioni d’oro. Ma la realtà, per quanto frammentata e precaria – con spettatori sempre più monadi e i contenuti sempre più specifici – non si inventa quasi mai nulla di nuovo. Se Emilio Garrone, il personaggio di Alberto Sordi in Assolto per aver commesso il fatto, fosse protagonista di un remake del film trent’anni dopo, più che televisioni private comprerebbe canali YouTube, profili Instagram, pagine Facebook. Non ci guadagnerebbe i milioni neanche lontanamente, certo; ma qualcosa di simile, nella moltitudine delle possibilità, esiste. È il nuovo mucchio selvaggio. La domanda è come sarà ingabbiato stavolta, se mai succederà.


Alice Valeria Oliveri

Autrice e musicista, si è laureata alla Sapienza in anglistica con una tesi di teoria della letteratura. Scrive su diverse testate online di cinema, tv, serie televisive, musica e attualità. Ha collaborato con Dude Mag, VICE, Noisey, Motherboard, Prismo, The Towner e The Vision, dove è stata redattrice.

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