Il flop è un orizzonte possibile di ogni attività creativa, musica pop compresa. Ma a volte sbattere la faccia contro il muro è quello che serve, per ricostruire su solide basi una fama arrivata troppo presto.
Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 24 - Flop. Il fallimento nell'industria creativa del 03 dicembre 2018
“Raccontare dei successi. E dei fischi non parlarne mai”.
(Una città per cantare, 1980, parole di Lucio Dalla, voce di Ron)
In effetti, è così che funziona. Le classifiche di vendita italiane sono da sempre reticenti a quantificare le vendite, ed è complicato conoscere il numero effettivo di spettatori di tour e concerti. Però non c’è addetto ai lavori che non sia ogni giorno informato da fonti ufficiali che in questo preciso istante chiunque sta avendo un successo straordinario. Anche se non svetta in classifica, il management garantisce: il suo artista furoreggia nello streaming – magari non su tutte le piattaforme, magari solo nei primi due giorni – oppure è in tendenza su Twitter, o cliccatissimo su YouTube specie nella sua regione, oppure miete sold-out nel tour teatrale (in piccoli posti dove c’è il vero contatto con il pubblico). Oppure durante la sua ospitata c’è stato il picco di ascolti nel programma in seconda serata… Oppure.
Se qualcuno – per turpi motivi, si presume – fa notare che un album o un concerto non sembrano (condizionale davvero d’obbligo) raggiungere le cifre del ciclo precedente, la reazione è veemente: dall’ex ragazza mite Laura Pausini che dal palco di San Siro ostenta il medio “a quello stronzo che ha scritto che stasera non c’era nessuno” all’ex ragazza impetuosa Emma Marrone che ad Amici confessa la sua pena per il calo di vendite – premiata dal pubblico commosso le settimane seguenti. Il successo è poi il valore supremo nel rap, dove genera impagabili colpi di scimitarra tra i big (vedi la faida social tra Fedez e J-Ax da una parte e Marracash e Gué Pequeno dall’altra).
Nel maggio 2018 è successa una cosa interessante attorno a Jovanotti: un giornale (il Quotidiano Nazionale) ha scritto che l’ultimo album Oh, vita non aveva avuto il successo dei due precedenti (oltre 250mila copie). L’ufficio stampa (uno dei più importanti d’Italia) e la casa discografica (la più importante al mondo) hanno reagito irritate, attaccando il giornalista ed esigendo immediata smentita “perché l’album è a quasi 150mila copie vendute”. Nel giro di poche ore – letteralmente – sono arrivati la certificazione da parte della Fimi del terzo disco di platino (e quindi 150mila copie tra cd e streaming) e l’acquisto di una pagina intera su un altro quotidiano per esultare di tale trionfo. Il tour del 52enne artista, chiusosi a luglio, non ha sofferto delle difficoltà di un album che tra produzione (affidata al leggendario Rick Rubin) e singoli è apparso da subito meno immediato dei predecessori. Ma va preso atto dell’ipersensibilità dell’entourage rispetto a quello che peraltro non è neppure un flop, in una carriera entrata nel quarto decennio e in generale inscalfibile. Forse nessuno dei suoi coetanei, nemmeno Eros Ramazzotti, gli si avvicina per quantità di dischi di platino e di stadi riempiti, continuità e autorevolezza.
Quando Laura Pausini debuttava a Sanremo, lui era già passato dalla sua prima resurrezione, quella più rilevante nell’ambito di un percorso che non è costante ma conosce frenate, cali e ripartenze (è stato così anche per Rolling Stones, Michael Jackson e Madonna), sempre però nell’alveo di una vastissima popolarità. Nel caso di Jovanotti poi, il primo flop fu determinante per il riposizionamento e accettato come lezione. E rese possibile la separazione dall’inizio del percorso.
Il decollo
“Durante il servizio militare ho registrato l’album La mia moto nelle libere uscite. Ho partecipato a Sanremo durante una licenza ordinaria arrivando quinto. In cambio di una licenza ho scritto la sigla di un telefilm assurdo di Italia 1 dedicato alla naja. Ma la cosa più bella di quell’anno fu la copertina di Sorrisi e Canzoni con me in divisa insieme a Roger Rabbit e il titolo Due ragazzi irresistibili”.
(Jovanotti, Gratitude, Einaudi)
La popolarità del Jovanotti di fine anni Ottanta è ardua da rievocare persino per chi c’era: non è accostabile ai boom di Fedez, Rovazzi o Sfera Ebbasta. Dal 1987 al 1989 era semplicemente ovunque: le sue buffonerie supergiovani e provocazioni gommose non erano ignorabili dagli adulti e dagli intellettuali. Proprio come trent’anni prima i giornali si rivolgevano a Montanelli o Fallaci per indagare i “fenomeni” Mina e Celentano (tra l’altro, suo quasi-suocero grazie alla relazione con Rosita), con il Fenomeno Cherubini si cimentarono Beniamino Placido, Natalia Aspesi e Michele Serra, che lo definì “una delle più implacabili rappresentazioni dell’idiozia mai apparsa sotto il sole”, mentre Walter Veltroni ironizzò sul suo essere nocivo per i giovani più di qualsiasi rocker satanico. Un entusiasta Roberto D’Agostino scrisse un’introduzione in rime (tipicamente orrende: “Jovanotti è un tipo in bomber / Jovanotti è una bomba di hamburger”) all’oggi introvabile prima autobiografia Yo! Siamo o non siamo un bel movimento (Vallardi), uno stupidario che rivaluta gli attuali youtuber. Lì il pupillo di Claudio Cecchetto proclama che le donne migliori sono “quelle che stanno zitte e ci stanno”, “i vecchi fanno schifo perché gli puzza il fiato”, “uno ricco come Berlusconi non può essere antipatico”, “mi piacciono i politici tosti, fa niente se dicono stronzate: se mi gasano parlando vanno bene”.
Quando il comico Beppe Grillo davanti ai 16 milioni di spettatori di Sanremo 1989 lanciò la sua invettiva (“Il mio fallimento è essere qui e parlare di uno come Jovanotti. Non puoi mica fare una battuta su uno così. L’unica cosa che puoi fare è andar lì mentre canta Gimme five, dargli un calcio e dirgli: va’ a lavorare! Vai IN MINIERA!!!”), l’Italia maggiorenne approvò sganasciandosi. Il giovane giullare non fece una piega ma nemmeno la Rai, che pensò a lui per la conduzione di Sanremo 1990 a fianco di Gigliola Cinquetti. L’idea naufragò in extremis, pare a causa dei continui attacchi ai cantanti del momento (“Eros Ramazzotti, che due palle, poi tra le canzoni fa pure i discorsi”, “A me Luca Carboni fa schifo come tutta la roba che parla di cose tristi, di moscerie”). Però qualcun altro colse la palla al balzo.
Fantasticherie
“…poi è arrivato Pippo che mi ha detto Giovanotto /cosa fai sabato sera, passo a prenderti alle otto / ehehe!!!”
(Saluti a chi, 1990). “Dovrei forse stare a casa a guardare la tv? /A sentire le stronzate che mi dice Pippo Baudo?”
(Cosa dovrei fare, 1991)
Nell’autunno 1990 Baudo annuncia che Jovanotti avrà uno spazio autogestito (con “100 giovani presi in discoteca e per le strade, tutti ragazzi che rappresentano la gioventù d’oggi”) all’interno del caposaldo del sabato sera Fantastico, nonché la sigla finale, Ciao mamma. Ma qualcosa non ingrana. Quando LA FESTA si trasferisce nella polverosa e controllatissima sala di papà Pippo, i giovanissimi voltano le spalle alla star 24enne; nel contempo gli hater scatenano l’offensiva, ansiosi di seppellire lui e l’entità un po’ confusa che si è poi chiamata anniOttanta. Alle mazzate di Repubblica si unisce il Corriere della Sera, con il decano della Rai Sandro Bolchi che lo stronca in prima pagina. Baudo inizia a limitarne le iniziative; peraltro la musica nel programma è appaltata a ospiti di altro stampo: Morandi, Bennato, Berté, Barbarossa, Ramazzotti – che è lecito immaginare con un sorriso beffardo anche perché è uscito l’album Giovani Jovanotti e va piuttosto male. A novembre la tensione esplode e Jovanotti diserta le prove lamentando un’indigestione di castagne.
La Rai incredula manda il medico fiscale, che conferma il problema – eppure il rapper appare il giorno dopo, pronto ad andare in diretta. Il capostruttura (Maffucci) lo rimanda a casa e dichiara alla stampa: “Il cowboy farà le sue scuse”. Maso Biggero del Corriere attribuisce a “voci insistenti” una “crisi da disco non molto venduto” e accenna a una “strategia promozionale alla Celentano”. Scende in campo Cecchetto: “Jovanotti ha finito il servizio militare, ma non sapevo che a Fantastico si fosse sotto le armi”. L’artista rincara: “Io sarò giovane ma ho le idee chiare. Non mi piace la linea di uno show nazionalpopolare a tutti i costi nella speranza di accontentare tutti. La gente si è rotta le scatole di veder mischiati il balletto alla cultura” (quello che in questi tempi felici chiameremmo “l’alto e il basso”).
All’ultima puntata a Jovanotti si unisce una co-star di Fantastico, Marisa Laurito, entrambi giurano: “Mai più con Pippo”. Lui spiega: “Considerato che oltre a me stesso cerco di rappresentare anche i ragazzi che mi seguono, non intendo adeguarmi ai codici paternalistici, dittatoriali e antichi di Pippo Baudo. Ho accettato di partecipare per far conoscere i contenuti del mio nuovo disco al pubblico e creare situazioni di spettacolo al passo coi tempi”.
Il passaggio
“Ho scoperto Battisti fine anni 60 ed Emerson Lake & Palmer, così è nato un disco diverso”.
(Intervista a Mario Luzzatto Fegiz, Corriere della Sera)
I primi album di Jovanotti, ispirati in parte dai Beastie Boys, erano la via italiana a quella semplicità in auge nell’hip-hop e nella house dell’epoca (“Due sintetizzatori e un budget di 7 milioni di lire”). Ma a differenza di Jovanotti for president e La mia moto, che avevano superato le 400mila copie, Giovani Jovanotti non entra in top ten. Malgrado la discreta popolarità di Ciao mamma e Gente della notte (tuttora eseguite live), le radio concorrenti si prendono la rivincita su Cecchetto e Radio Deejay, e oscurano anche i singoli. Dopo due mesi il disco frana sotto il numero 100. Il team produttivo era quello abituale: Cecchetto, Michele Centonze, Luca Cersosimo. Ma il budget ora è consistente, per pagare musicisti mitologici: Keith Emerson, Billy Preston (Beatles, Rolling Stones), Mick Talbot (Style Council), Memphis Horns.
Il problema è che Jovanotti non sa ancora pensare musica in modo diverso. “Non sapevo cosa ero diventato, tranne esser sicuro di non essere più quello de La mia moto. Non sapevo cantare e non sapevo suonare nessuno strumento, in questo consisteva la distanza tra me e le possibilità di fare vera musica […]. Claudio mi dava da ascoltare dischi che non avevo mai frequentato: Battisti, i Beatles per esempio, che erano il massimo del songwriting insieme popolare e di qualità. Pensammo di coinvolgere musicisti ‘veri’. Forse c’era sotto un desiderio di far pace con la Musica, di chiedere anche educatamente scusa per aver fatto tutto quel casino cantando canzoni sgangherate”. Ci sono citazioni dal vintage rock, della black music più ricercata, qualche influenza delle nuove correnti acide e psichedeliche. La sensazione è quella di un artista che sta aggiungendo colori alla tavolozza. Ma trent’anni dopo, resta l’unico suo album che non ha mai ottenuto un disco d’oro. Non è nemmeno disponibile su Spotify. Tuttavia “imparai molto dalle settimane di lavoro in studio per quel disco. Imparai molto sui musicisti e su come relazionarsi con loro, lo imparai attraverso gli errori, le cantonate che sono sempre delle benedizioni mascherate, i soldi buttati al vento”.
Ma la vita si complica. Perché oggi il flop di un album è compensabile con il tour successivo, i due tipi di produzione non sono strettamente collegati. Ma all’epoca Jovanotti non era l’artista live che conosciamo oggi. Così, la Cbs chiude il rapporto. Poi “Cecchetto decise di mettermi alle strette e si ritirò dalla società che avevamo al 50% lasciando il 90% a me”. E un giorno capita “un signore di una banca che tu non sai nemmeno che faccia ha, che ti telefona per dirti che non hai più un fido e devi rientrare. Rientrare dove?”.
“Io sarò giovane ma ho le idee chiare. Non mi piace la linea di uno show nazionalpopolare a tutti i costi nella speranza di accontentare tutti. La gente si è rotta le scatole di veder mischiati il balletto alla cultura. Ho accettato di partecipare per far conoscere i contenuti del mio nuovo disco al pubblico e creare situazioni di spettacolo al passo coi tempi”.
Il deserto
“Dopo gli scarsi risultati di Giovani Jovanotti, le case discografiche non se la sentivano di rischiare, non volevano investire sul disco successivo. Gli dissi che poteva sempre contare su di me. ‘Ricominciamo tutto! Cosa vuoi fare d’ora in poi?’ ‘Il rap!’ ‘Ok’, ed è quello che abbiamo fatto”.
(Claudio Cecchetto, In diretta, Baldini & Castoldi)
Nel 1991 Jovanotti è dato per superato come le meteore cecchettiane su cui ironizzare, tipo Tracy Spencer e Sandy Marton. La tv continua a trovarlo interessante, ma come conduttore di programmi per ragazzi. “Bonolis quell’anno avrebbe lasciato Bim bum bam e proposero a me il posto. Mtv stava aprendo in Europa e voleva che mi trasferissi a Londra a fare il vj per loro. Ma dissi di no. La musica è sempre stata la mia storia e per me in quel momento di casino c’era una sola cosa possibile all’orizzonte: un disco”.
Una tribù che balla, uscito un anno e mezzo dopo Giovani Jovanotti, è un disco-ponte. Significativo che Centonze e Cersosimo restino nei posti-chiave della produzione, però spalleggiati dal ventiduenne bassista Saturnino Celani, che traghetta il suono verso un funky più caldo e meno elettronico, cantabile. Più adatto ai concerti, in linea con gli anni Novanta e indirizzato a un pubblico giovane ma non giovanissimo e non jovanotto, malgrado il nome rimanga. “Le mie quotazioni erano bassissime, ma io non avevo molti dubbi, si trattava solo di passare un tratto di deserto”. Il disco stavolta sfiora la top ten e a fine anno sarà nei cento più venduti – in un’umile ma incoraggiante sessantunesima posizione.
“Imparai molto dalle settimane di lavoro in studio per quel disco. Imparai molto sui musicisti e su come relazionarsi con loro, lo imparai attraverso gli errori, le cantonate che sono sempre delle benedizioni mascherate, i soldi buttati al vento”.
Riposizionamento
“Se qualcuno fa qualcosa di grande e fallisce la prova successiva, è probabile che presto torni al suo livello iniziale. Penso a Lorenzo a Fantastico 90 di Pippo Baudo. Non fu un’esperienza felice e molti pensarono che fosse la fine del fenomeno Jovanotti. Io che lo conoscevo bene sapevo invece che sarebbe diventato più forte di prima”.
(Claudio Cecchetto, In diretta)
L’anno dopo il nome “Jovanotti” va in secondo piano: sul nuovo disco il titolo Lorenzo 1992 sovrasta una foto che lo ritrae seduto in casa, fisico (non troppo muscolare) in evidenza, un po’ di barba grunge. Nelle interviste prega di essere chiamato Lorenzo Cherubini. Il team è lo stesso, sempre Centonze e Cersosimo che compaiono anche come autori, come del resto (curiosa la ricorrenza della C) Celani e Cecchetto. Quest’ultimo si porta il chitarrista Marco Guarnerio, uno dei collaboratori che stanno contribuendo al suo nuovo fenomeno: gli 883. Ma c’è spazio anche per un inatteso re del pop italiano anni Settanta, Augusto Martelli. Il suono è irrobustito da due musicisti di segno completamente opposto: Demo Morselli (fiati) e Giorgio Prezioso (scratch). Le prime parole sono: “Sono io, sono io, quello di ‘è qui la festa’ / Quello con il cappellino quello senza la testa”. Il brano si chiama Il rap, cioè “Questo genere del quale io mi sento una balia […] musica incazzata contro la violenza”. Il disco è spesso esplosivo, i testi sono cosparsi di intuizioni cui il pop italiano non è abituato ma senza strafare (in futuro capiterà). I singoli Non m’annoio e Ragazzo fortunato divampano in tutta Italia. Su Repubblica Ernesto Assante scrive: “E se Jovanotti diventasse improvvisamente simpatico? Forse è giunto il momento di ridiscutere quello che era quasi un dogma per tutti gli amanti della buona musica”. Il rebranding completo richiede un anno e mezzo, un tour con Luca Carboni (proprio lui), un nuovo album con tanto di bandiera cubana, e un’apoteosi di pensiero positivo cattocomunista che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa.
Non sarebbe corretto sospettare Jovanotti di opportunismo: complici anche alcuni venti di cambiamento di quel periodo (dalla caduta del muro di Berlino alla liberazione di Nelson Mandela) il clima dei primi anni Novanta risulta radicalmente diverso rispetto agli Ottanta, e con il consolidarsi della forma grunge del rock e l’ascesa del rap, anche nel pop internazionale si registrano molti casi di spontanea evoluzione stilistica: rispetto al decennio della consacrazione, Sting, George Michael e Depeche Mode entrano in una fase più impegnata sia nella musica sia nell’interpretazione del proprio ruolo di star. Gli stessi Beastie Boys, primi modelli di Cherubini, ottenuto il loro “right to party” si rivelano una band più ambiziosa. In sostanza, il flop del 1990 può essere interpretato come l’occasione per leggere meglio il proprio tempo, mettere in discussione se stesso e ripensarsi – a Jovanotti va riconosciuto di averla saputa cogliere nel modo migliore.
Paolo Madeddu
È di Milano. Collabora con aMargine, Rolling Stone, HvsR e TRX Radio. Possiede una televisione.
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