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Flop

Molto hype per nulla

L’attesa, l’aspettativa sono elementi costanti del nostro paesaggio mediale. Ma quando si pretende molto da qualcosa, è più facile che poi deluda. E l’hype prepara il flop.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 24 - Flop. Il fallimento nell'industria creativa del 03 dicembre 2018

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Tutta quella fila solo per bere un caffè. È la formula più o meno ironica di quelli che, sui social media o magari nel loro bar preferito, parlano dei tanti in fila per entrare nel nuovo Starbucks italiano, in piazza Cordusio, Milano. L’apertura è stata preceduta da mesi di leak e smentite, voci non verificate e notizie ufficiali, palme e palme bruciate, polemiche e anticipazioni. In una parola: hype. Quindi si formano due file ordinate: da una parte quelli che aspirano a essere tra i primi, gli early adopter, quelli che “io c’ero” (e magari poi tornano più delusi e depressi dei giapponesi con la sindrome di Parigi); dall’altra chi ripudia l’aspettativa gonfiata e si distingue a priori da quei “pecoroni” in fila dicendo che lui mai la farebbe, lui ha una moka, e non se la beve quella pubblicità lì.

L’hype è qualcosa da cui i giornalisti ci mettono continuamente in guardia: non credeteci! Nella politica (“Non credete all’hype sull’accordo tra Trump e l’Unione europea”, New Yorker); nel giudizio estetico (“Spegnete l’hype e ammettete che la televisione non è grande arte”, Financial Times; “Buona qualità? Nah. È l’hype che conta”, Hollywood Reporter), nell’economia (“Non credete all’hype, la ‘sharing economy’ maschera l’economia del fallimento”, avverte Evgeny Morozov sul Guardian); nei prodotti tech alla moda (“Ignorate l’hype sulle grandi aziende tecnologiche. I loro prodotti sono per lo più inutili” è il monito di un corsivo d’opinione del Guardian). Gli esempi sono tanti, ma tutti dicono una cosa: hype è l’opposto del vero, diffidate.

(Don’t) Believe the Hype

L’hype è anche qualcosa di cui semplicemente dubitare (“Wellness: just expensive hype, or worth the cost?”, Guardian). Talvolta è qualcosa a cui, finalmente, dopo tante raccomandazioni, poter credere. Su Vanity Fair si legge nel sottotitolo di A Star Is Born, il film con Lady Gaga e Bradley Cooper: “It is now safe to believe the hype”, il film ha rispettato le aspettative. Ma pare più la classica eccezione che conferma la regola (e poi è tutto da vedere: potrebbe essere l’ennesimo esempio di hype per un film candidabile agli Oscar). L’hype è una creatura liquida, adattabile e volubile, può manifestarsi nel discorso politico, tecnologico, musicale. Lady Gaga con ArtPop ha subito il paragone con il proprio esordio, e non è riuscita a mantenere le aspettative che lei stessa ha creato, e questo è accaduto anche a Katy Perry con Witness e Rihanna con Anti; Lana Del Rey è diventata un fenomeno nel 2012 e ha subito un “contraccolpo, un contro-contraccolpo, e un contro-contro-contraccolpo ancora prima avesse debuttato” (“Lana Del Rey: Anatomy of a super-hype”, NY Daily News). Zayn ha lasciato gli One Direction, doveva diventare il nuovo Robbie Williams: non è successo. I negozi Apple sono presi d’assalto a ogni nuovo prodotto, e al contempo alimentano dubbi su quanto effettivamente valgano e siano competitivi rispetto ai concorrenti – oltre al marketing e al fascino del brand, s’intende (“Ah da quando non c’è più Steve Jobs…” è il commento più frequente). I servizi come Hbo o Netflix capitalizzano l’hype sia per ogni nuovo prodotto sia per quelli già consolidati, da La casa di carta a Stranger Things, da Sharp Objects a True Detective (e spesso chi deve scriverne si lascia nutrire da queste manovre di marketing come un’oca da paté: meglio difendere a spada tratta un prodotto mediocre, intascando un gadget da esporre su Instagram, che esporsi con un’opinione critica).

A proposito di La casa di carta, ecco alcuni tweet che ci danno la misura. “Sto vedendo La casa di carta e raga è stupendo. Che geni! Hanno programmato tutto, passo passo. Che menti” (produzione di alte aspettative); “Amici ho iniziato anche io La casa di carta. Bella, ho visto cinque puntate consecutive. Ma non capisco tutto l’hype che si è creato” (delusione); “Quando una cosa viene così idolatrata io la evito come la peste, adesso state tutti in fissa con La casa di carta il che vuol dire che probabilmente non lo guarderò mai se non fra dieci anni quando vi passa l’hype” (rifiuto e distinzione). Probabilmente chi è rimasto fuori dall’hype ha anche visto la serie in un modo diverso. Forse è riuscito persino a godersela perdonandone i difetti.

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La casa di carta

Studiare l’hype

Nei media studies le analisi dedicate al tema rimangono una nicchia. Al momento si individuano due strade. La prima consiste negli studi che lo trattano come un processo interno ai media, come effetto e conseguenza di una copertura mediale intensiva. Per capirci: l’invasione degli immigrati, gli italiani che sparano ai neri etc. sono casi in cui l’onda di notizie generata dai media si auto-rafforza. A capo di questi studi c’è il lavoro di Peter Vasterman, che ha analizzato la stampa danese in From Media Hype to Twitter Storm. News Explosions and Their Impact on Issues, Crises, and Public Opinion, notando come casi di hype sui media possono influenzare l’operato politico o persino danneggiare la reputazione. È evidente soprattutto nelle proprie filter bubble: tutti parlano di un programma tv e innescano un effetto cascata. Solo il giorno dopo scopri che tutti quelli che hanno visto il programma erano lì a parlarne su Twitter, e non ha superato lo zero virgola.

Il secondo filone studia l’hype come genere promozionale (marketing, branding, pubblicità). È Jonathan Gray ad aver dato uno dei contributi più utili nel merito. Gray usa la nozione di paratesti sulla scorta di Gérard Genette, e considera l’hype come una soglia che crea senso. Scrive Gray che l’hype “funziona meglio circondando completamente un testo con gli annunci” e che “l’obiettivo non è solo che il maggior numero possibile di persone senta parlare di un testo” ma che ne senta parlare da chi quel testo lo ha prodotto e ne controlla la narrazione. Se il pubblico giudica il libro dalla copertina, lo studioso studia la copertina. L’hype non ci dice solo di consumare, come fa la pubblicità, ma ci dà dei motivi per guardare questo libro, per vedere quel film, o ascoltare quell’album. Cioè aggiunge un fattore distintivo.

Quindi è sia un processo culturale che produce nuovi significati all’interno dell’audience che lo consuma, sia un testo in sinergia con gli altri paratesti e oggetti di promozione (trailer, case di produzione, tv, nuove stagioni di una serie). Insomma, Gray ci sta suggerendo che oggi il consumo del prodotto è importante ma non è tutto. Al centro dell’attenzione di produttori e promotori culturali c’è – fin troppo ossessivamente – l’esperienza. Anzi, l’Esperienza: questo feticcio della contemporaneità che è diventato un passe-partout per ogni cosa (dal venderti uno smartphone, al prendere un caffè o all’annoiarsi con Marina Abramović). Ma all’interno della nostra esperienza dei beni di consumo si ritaglia un ruolo sempre più importante il momento del giudizio, quello in cui tutti possono giocare il ruolo del giudice, esercitare la facoltà di valutazione, testare il “paradigma dell’esperto” (Henry Jenkins). Giudizio! Qualsiasi cosa sia (basta persino l’emoticon a forma di cuore).

Al centro dell’attenzione di produttori e promotori culturali c’è l’esperienza. Anzi, l’Esperienza: questo feticcio della contemporaneità che è diventato un passe-partout per ogni cosa (dal venderti uno smartphone, al prendere un caffè o all’annoiarsi con Marina Abramović). Ma all’interno della nostra esperienza si ritaglia un ruolo importante il momento del giudizio, quello in cui tutti possono giocare il ruolo del giudice.

La distinzione

E possiamo anche spingerci oltre e dire che non sono solo i blog, i gruppi Facebook, i trailer e i tweet a essere in sinergia tra loro, ma anche i pubblici, o gli interfan, come i gruppi di hater che ti dicono quanto a loro faccia schifo il prodotto che tu ami. In campo musicale ci sono vere faide tra fan e antifan: per esempio i beehive, i fan di Beyoncé, bisticciano con i navy, i fan di Rihanna; o i little monster, fan di Lady Gaga che litigano con i madonnari; spesso questi gruppi mettono a confronto visualizzazioni di video, vendite di canzoni, persistenza in top ten per stabilire (inters)oggettivamente la superiorità del proprio gusto. In campo televisivo credo siano meno forti e meno esibite le fan community rispetto al campo musicale (un tempo avremmo potuto dire fan di Star Trek vs. fan di Star Wars, e i rispettivi raduni di cosplayer), ma in realtà esistono alcuni noti esempi, già documentati e studiati, sul modo in cui spettatori più vecchi prendono in giro quelli più giovani (o per usare un termine tecnico, i “bimbiminchia”); o tra i fan di Twilight vs. i fan di Harry Potter, o tra quelli della DC e quelli della Marvel. Discussioni tra nerd.

Ovviamente, i giudizi attorno a un prodotto televisivo sono una forma di distinzione culturale. Internet è quel posto dove arrivare cinque minuti prima ti fa sentire un trend setter. Essere all’avanguardia di un pubblico di sofisticati e attenti spettatori dei prodotti che contano. Tra le forme comportamentali note: arrivare prima su una serie o un programma tv, essere impazienti di dirlo al mondo con post o tweet, definirsi in base al tempo di consumo (chi vede una cosa in anteprima non manca di farlo sapere, chi la “recupera” si affretta a giustificarsi contrito), il giudizio che se ne dà viene esso stesso sottoposto a scrutinio (la distinzione passa per la valutazione di un prodotto culturale, una serie, un disco, un film: sei ciò che scrivi che ti piace/non piace). Quante volte leggiamo “una serie imperdibile”, “serie dell’anno”, “un film geniale”, o la pubblicazione di foto, screen cap, citazioni che dicono: sto guardando questo, dovresti farlo anche tu (o il contrario: sto guardando questo prima di tutti, lasciate perdere).

L’hype prepara il terreno ai flop. La notorietà dovuta all’hype non è automaticamente convertita in capitale reputazionale, e non ti fa diventare una celebrity. Un caso recente è quello dello youtuber Young Signorino: milioni di visualizzazioni, concerti semi-deserti.

L’hype come bolla

Di cosa parliamo quando parliamo di hype. In Note sull’Hype di Devon Powers, sulla falsa riga delle intuizioni di Susan Sontag sul camp, la ricercatrice tenta di dare una definizione di questa creatura ambigua e un po’ fumosa: “è uno stato di anticipazione generato dalla circolazione delle informazioni promozionali, che si traduce in una crisi di valore”. Powers sostiene che la nozione di hype è una caratteristica tipica della cultura promozionale digitale contemporanea, e studiarla serve a spiegare come funziona la circolazione dell’informazione. Il che non significa immaginare sia un fenomeno nuovo, ma solo ribadire quello che dice Howard Bragman, uno dei più influenti PR di Hollywood, quando racconta che “in passato la comunicazione era top-down – creavamo una campagna per il film e la vendevamo al mondo. Ora è un movimento bottom-up”, e quindi pagine Facebook, monitoraggio del word of mouth, stimolazione del buzz. È il purché se ne parli. (“Perception better than reality? That’s hype!”, Hollywood Reporter).

L’hype si presenta insieme al suo disconoscimento. È una pubblicità contaminata costruita dall’alto (brand, advertiser, giornali) e dal basso (i consumatori che ne parlano, buzz, memi). Nel 2008 il magazine hipster di Brooklyn, n+1, ha pubblicato un editoriale intitolato “The Hype Cycle, in cui analizza le conseguenze che può avere il clamore sull’arte. Il suo autore considera l’hype come un’interferenza negativa nella formazione del gusto che “travolge l’artefatto che ha promosso” arrivando al punto di “diventare la vita emotiva del capitalismo”. E ancora “Il ciclo di hype sostituisce il giudizio estetico con qualcosa di più vicino all’investimento speculativo in titoli”. Una bolla pronta a esplodere? O più semplicemente il paradigma arbasiniano: giovane promessa, solito stronzo e forse, se si ha successo, venerato maestro. In fondo è questo che significa “tanto hype per nulla”, gonfiare a dismisura e in modo riflessivo un oggetto culturale, costringendoti a riequilibrare il giudizio con l’ironia o la critica. “La cosa strana”, si legge nelle conclusioni dell’editoriale, “è che non siamo contenti quando agli altri piace quello che ci piace”. Quando gli altri iniziano a condividere il tuo stesso apprezzamento per un prodotto, passi al prossimo. Passi alla next big thing per caratterizzarti, identificarti e distinguerti. Per sentirti aggiornato.

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A doppio taglio

L’hype prepara il terreno ai flop. La notorietà dovuta all’hype non è automaticamente convertita in capitale reputazionale, e non ti fa diventare una celebrity. Un caso recente è quello dello youtuber Young Signorino: milioni di visualizzazioni, concerti semi-deserti. Il consumo culturale non è sinonimo di approvazione o di giudizio estetico positivo. D’altra parte neppure quando c’è una produzione autoriale possiamo rimanere riparati dalla delusione. Il ritorno di Twin Peaks dopo 25 anni dalla messa in onda sembrava interessare milioni di persone che sognavano di cullarsi nella retromania, ma era un effetto della filter bubble: “La costosa ripresa di 18 episodi di Showtime del cult di David Lynch degli anni Novanta ha affascinato la maggior parte della critica, i fan confusi e, nella media della domenica sera, raramente ha richiamato più di 300.000 spettatori”. In questo caso non è propriamente un flop, perché la rete sognava un ritorno di immagine che ha avuto finanziando una pubblicità al brand per potersi definire prestige tv, ma lo è stato in rapporto al clamore sproporzionato. Come dice Jessica Lange in un episodio di American Horror Story: “Too bad your ambition outweighs your talent”.

L’hype è un’arma a doppio taglio: ti promette ciò che non può mantenere. E ti delude. “La Nbc ha scommesso 69 milioni di dollari su Megyn Kelly, poi gli spettatori sono scomparsi”, questo titolo del Wall Street Journal contiene le prime due fasi dell’hype: le grandi promesse e le aspettative tradite. Abbiamo sentito parlare di Kelly, ex anchor di Fox News, quando Trump le ha dato della mestruata: proprio mentre lei, che moderava il dibattito, gli chiedeva se fosse sessista. Poi Nbc ha pensato di strapparla con un super contratto, di farla diventare il volto di un talk del mattino, Today, che è diventato il Megyn Kelly Today. Ma l’operazione di rebranding non ha funzionato. “Quando ho sentito per la prima volta che Megyn Kelly stava passando da Fox a Nbc, ho pensato: ‘cattiva mossa’. È estremamente difficile per le celebrità riposizionarsi (rebranding), soprattutto se erano brave in quello che facevano prima. E Megyn Kelly era molto brava nel suo ruolo a Fox News”, scrive Suzanne Venker su USA Today. Spostare una star repubblicana su un canale liberal non porta automaticamente più spettatori. È stato un flop iniziale su cui tutti hanno infierito, da Jane Fonda (che si è rifiutata di rispondere a una tipica domanda sulla chirurgia estetica) a Vulture che collezionava tweet maligni in articoli pieni di imbarazzo (“Everything That Went Wrong on Megyn Kelly’s First Week on Today). Ad agosto Page Six ha scritto che c’è una piccola ripresa, più persone stanno iniziando a guardare il programma. È la terza fase: quella in cui passando in un baleno da fenomeno imperdibile a grande cagata, finalmente sei passato di moda.


Manuel Peruzzo

È nato nelle valli inquinate del comasco e alle gite a Chiasso preferisce il divano, la tv e il wifi. Si finge uno di quegli scrittori culturali del secolo scorso per Il Foglio, Forbes, Linkiesta, Esquire. Vive nel timore di essere scoperto.

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