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Contro la tv

Nel destino di ogni influencer c’è la tv

La celebrità sembra essersi trasferita dai programmi tv agli schermi degli smartphone. Eppure la visibilità della tv generalista è ancora cruciale per diventare famosi davvero.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 25 - Contro la tv. Venticinque miti da sfatare del 06 dicembre 2019

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TV… Oh, I remember those. We still have one of those in my gym”. (Succession, Hbo)

C’è un prima e un dopo nei nostri comportamenti culturali. Il prima è andare a noleggiare Matrix o Salvate il soldato Ryan da Blockbuster, comprare un disco qualunque dei Radiohead in un negozio, entrare in un’edicola e chiedere il supplemento culturale sniffando il profumo della carta. Il dopo è scanalare tra video su YouTube, godersi il concerto di Beyoncé su Netflix, leggere (anzi, commentare) le ultime notizie su Facebook. Si chiama disruption, e alle aziende conviene trovarsi dalla parte giusta della barricata. Quella parte in cui gli inserzionisti che ci mettono i soldi credono che tu sia utile alla promozione dei loro prodotti. E la televisione da che parte si trova oggi?

Dalla parte sbagliata, se consideriamo l’evento pop contemporaneo del 2018: il matrimonio dei Ferragnez. In milioni hanno visto lo sposo, Fedez, citare Bukowski, e la sposa, Chiara Ferragni, dire: “Mi emozionerò sempre a vedere il tuo nome apparire sul telefono”. Poi musica tamarra, luna park tutto per gli ospiti, abiti Dior e il putto di ghiaccio che piscia vodka circondato da influencer, star, musicisti. Osservavamo l’evento pop, sì, ma non in televisione: sui social network.

Dalla parte giusta, invece, se consideriamo che i nostri Carlo e Diana (per la portata dell’evento tv del loro matrimonio all’epoca, non perché io sia fermo alla generazione reale degli anni Novanta) hanno scelto di produrre uno spettacolo social, ma lo speciale docu-film realizzato per l’occasione dai due sposi è stato proposto senza successo a Sky, Netflix, Hbo. È meno interessante il rifiuto delle emittenti rispetto al fatto che le due più importanti celebrità pop italiane volessero essere in tv (Chiara Ferragni ha ripiegato sul Festival del Cinema di Venezia, presente con un documentario sulla propria vita, Chiara Ferragni. Unposted, tiè e bacioni ai rosiconi).

Ma perché una coppia con un pubblico consolidato a cui mostrarsi in ogni momento senza intermediari promuovendo il nuovo smartphone Samsung o il latte in polvere del figlio Leo dovrebbe desiderare anche il pubblico di quel ferro vecchio della tv? Perché Chiara Ferragni si agghinda per farsi intervistare da Fazio o da Alessandro Cattelan e Fedez corre da Maurizio Costanzo per cercar di capire le domande biascicate sottovoce? La risposta più irriflessiva è perché persino il Movimento Cinque Stelle ci ha ripensato e ha presidiato ogni canale, figuriamoci chi di mestiere vende la visibilità. Ma c’è di più.

Dal telecomando allo smartphone

Tutto è iniziato quando abbiamo mollato il telecomando, impugnato il cellulare mettendoci a condividere la nostra esperienza televisiva con altri, per una visione comune, ironica o sacrale, fatta di hashtag, gif e meme, così che il presentatore di turno potesse dire che sì, non esistono più i milioni di spettatori di una volta, ma “siamo stati trending topic tutta la sera”. Tutto è cominciato quando abbiamo iniziato a immaginarci pubblico, bolle informative, nicchie di gente che sta guardando la stessa cosa non perché è l’unica disponibile ma perché è ciò che ti interessa. La tv doveva sparire nell’irrilevanza e invece è onnipresente sui social, nei giornali, nei discorsi online. Certo, ha perso pubblico e centralità nella vita domestica, è innegabile, ma non ha smarrito il suo ruolo nel dare forma ai successi culturali. Potremmo dire che la televisione, anziché essere relegata in soffitta, ha inglobato internet per salvarsi.

Pensate a tutte le volte in cui una notizia virale diventa argomento di discussione in un programma contenitore del pomeriggio. Non esisterebbe nessun caso Prati se non fosse arrivata la tv a rimettere in fila i frammenti, le numerose menzogne di tutti gli attori coinvolti, per riempire il palinsesto con una soap che interagisce con i social passando a setaccio ogni profilo, dichiarazione, schermata sospetta. È il tipico esempio in cui il pubblico diventa co-autore di un programma tv selezionando aree di interesse, smascherando bugie, sollecitando il racconto, passando in disamina la realtà alternativa, i complottismi, le fake news e ne costruisce un racconto generalista che ci ha intrattenuto per mesi. Attingendo a tweet con una risonanza, articoli online, unendo stampa specializzata e non (commistione continua tra alto e basso, si direbbe; ma anche solo di basso con il più basso), lavorando sull’interesse di una nicchia per farne da cassa di risonanza per un pubblico più ampio, analizzando il tipo di pubblico come fanno le aziende per avere un “sentiment”, un responso del proprio brand, anche la tv ottiene un’informazione autoriale e indizi su come costruire il programma, che tipo di tono usare. “Io rimarrò sempre un’artista perché il pubblico è vasto”, ha detto Pamela Prati in uno dei tanti sublimi momenti camp che la riguardavano. “C’è una parte di pubblico intelligente, che capisce, e una parte di pubblico, che si nasconde dietro ai social, che scrive delle cose orribili”. Ma saranno davvero due entità diverse?

Ezio Greggio che pesca comici online per un riempitivo estivo, Barbara D’Urso che invita casi umani (e si augura virali) e li fa ballare schioccando le dita, la Gialappa’s che bullizza CiccioGamer e prende per il culo serenamente Giulia De Lellis. Sono tutti casi in cui il casting s’è fatto online, scandagliando chi il pubblico ce l’ha già, sperando possa servire per aumentare il proprio in tv: un travaso di medium (che poi nella realtà dei fatti segue sempre il principio dei vasi comunicanti). Uomini e donne come fucina senza fondo di influencer che un tempo facevano la staffetta nelle discoteche di Vibo Valentia, firmando autografi, facendosi foto e dando qualche bacio (sembra quasi la descrizione di una normale campagna elettorale italiana), poi hanno iniziato a bere FitTea nelle stories Instagram e, uh, quant’è buono e che pancia piatta, ve lo dico con sincerità amici, e che ne dite di questo lucidalabbra, non è perfetto?

L’influenza dell’influencer

“Intanto voglio capire chi dà i 650 euro a ’sti deficienti”, si è chiesto Flavio Briatore a Non è l’arena di Massimo Giletti, “io vorrei vedere un imbianchino, un ragazzo che è riuscito a fare impresa, queste cose qui [il successo online] sono cose che succedono a una persona, non puoi pensare che possa succedere anche a te”. Ma non è quel che è sempre accaduto? Un tempo volevano fare tutti i calciatori e le modelle, poi i tronisti e le veline e ora farsi una foto in costume e prendere diecimila like e magari svoltarci un lavoro. Come ha detto Carlo Freccero: “La tv pubblica voleva fare tutti colti, la tv privata tutti ricchi, oggi i nuovi media tutti influencer”. Persino Fabrizio Corona, in quel breve interstizio tra una galera e l’altra, si era messo a promuovere il suo fashion brand su Instagram e in televisione (che è il modo in cui, da Rihanna a Guglielmo Scilla, si guadagna veramente, mica con i dischi o la radio).

A volte scappa la mano. “Dovevo ascoltare me stessa. Non ho avuto la forza, anzi ne ho approfittato come se fossi ‘drogata’ dalla tv”, ha detto la sfortunata Sara Affi Fella, prima concorrente di Temptation Island e poi di Uomini e donne dove fingeva di trovare l’amore e invece cercava sponsor per il suo canale social. Infatti non si è mai lasciata con il fidanzato che aveva finto di ripudiare all’isola dei cornuti, e ha ingannato la produzione fingendosi single, perché? Per accumulare pubblico, like, brand, costruirsi una carriera più simile a Patrizia Rossetti che a Kim Kardashian, promuovendo di continuo oggetti, vestiti, ombretti. Poi il pubblico l’ha scoperta e ha iniziato a punirla nel modo peggiore: levandole visibilità. Calano i follower, si interrompono i contratti, si torna alla realtà. La tv non si molla, continua a essere il palcoscenico di chi ci spera, con le Maddalena Cecconi che vendono le figlie per un provino, a trovare un lavoro nello spettacolo e trarre finalmente profitto da tutte quelle foto in mutande su internet.

Il ciclo dell’influencer è: andare in tv, acquisire popolarità/visibilità, aumentare follower per poi fare televendite, o per darsi un tono, branded content. “Tesoro portami il trolley che vado all’aeroporto”, dice Madre, il personaggio inventato da Marcello Cesena per Sensualità a corte. “Vado a fare Natale a Dubai, poi prendo una mongolfiera e mi faccio due selfie tanto per, atterro a Londra e vado in skateboard alla première di un film. Ricordati, tua madre è influencer, e mai come adesso vale oro”.

Influencer è un termine ombrello che comprende youtuber, instagrammer, videomaker, comici e più in generale persone con un pubblico, consumatori, dati (la moneta di questo secolo). La piramide può contare su una base molto larga di wannabe che sperano di raggiungere la punta, formata da quelli che effettivamente possono chiedere 600 euro a gente disposta a seguire corsi (gli infelici alla base della piramide di cui sopra, o gli incompresi di Briatore) su come diventare un influencer, quelle lezioni in cui ti dicono di abolire i trattini o i repost perché “non è professionale” o quelle in cui ti si insegna a fare lo smokey per sfondare nelle foto. Può succedere che si passi dal web alla tv, o accade il percorso inverso (pensate a Salvini che condivide le sue pastasciutte, fidanzate e bacioni amici) e trovi personaggi tv che si riciclano in web personality. Sgarbi ha avuto un rinnovato successo grazie all’uso dei social, come Mara Venier che interrompeva le dirette all’Isola dei famosi per farsi un selfie ed è stata chiamata di nuovo a condurre Domenica In.

“Il futuro della tv generalista non cambierà mai tanto”, scrive Costanzo in Il tritolo e le rose, “abbiamo una popolazione anziana. L’età media del pubblico di Raiuno è intorno ai sessant’anni. Eppure, mi chiedo: i ventenni di oggi, a quaranta, quarantacinque anni, con mogli e figli, che faranno, giocheranno a briscola? No, guarderanno la tv, la milionesima puntata del Maurizio Costanzo Show, dopo l’ibernazione”. Un tempo il MCS serviva per lanciare talenti. Indimenticabile Sgarbi che dal pubblico si alza e fa l’apologia delle marchette commerciali: lo spazio della televendita è il luogo dove anche le vecchie mummie resuscitano perché si accende in loro il fuoco della creatività. Abbiamo assistito a Carmelo Bene che annunciava al suo pubblico di zombie “Io non esisto” e visto Roberto D’Agostino chiedergli “Se lei non esiste, perché si tinge i capelli?”. Lì sono nate molte personalità televisive che ci hanno migliorato le serate, ma oggi? Non serve più a scovare talenti o mostri ma a istituzionalizzarli. Il ciclo dell’influencer è: andare in tv, acquisire popolarità/visibilità, aumentare follower per poi fare televendite, o per darsi un tono, branded content. “Tesoro portami il trolley che vado all’aeroporto”, dice Madre, il personaggio inventato da Marcello Cesena per Sensualità a corte. “Vado a fare Natale a Dubai, poi prendo una mongolfiera e mi faccio due selfie tanto per, atterro a Londra e vado in skateboard alla première di un film. Ricordati, tua madre è influencer, e mai come adesso vale oro”.

Dal web al nazionalpopolare

Nella chiacchierata con Fabio Rovazzi, Marco Montemagno chiede: “Hai proprio preso una fascia sempre più ampia di pubblico, a cosa è dovuto?”, e Rovazzi risponde: “Andiamo a comandare è stato un tormentone nazionalpopolare, poi sono andato da Fazio”. Ecco la televisione, che ritorna persino dove penseresti che sia ininfluente. Rovazzi è stato anche a Sanremo e da Maria De Filippi, sempre a proprio agio, sempre adattabile a dove lo metti: programma, spot, video musicale, e in trattore in tangenziale. Montemagno gli chiede scettico se secondo lui la tv è ancora rilevante. Rovazzi, da analista consumato, conferma: “Sì, tanto, i media tradizionali sono seguiti da una fascia importante”, e ci fa sapere che la penetrazione nel nazionalpopolare non arriva all’improvviso ma è un processo lungo, stratificato, continuo nella memoria del pubblico. Un modo per dire “Ciao a tutti sono Rovazzi, quello dei tormentoni, ma anche quello che duetta con Al Bano, quello che piace a Fiorello, quello che va da Maria De Filippi e tiene perfettamente la scena”. Se non è catastrofista lui, non vedo perché dovremmo esserlo noi.

Non è solo quel desiderio d’essere riconosciuti per strada, il fatto è che la visibilità oggi ha un valore ed è contrattualizzata. Qualsiasi schermo vale a patto ci sia qualcuno interessato a guardarti, e per ora il discorso riguarda tanto una diretta Facebook quanto un programma televisivo (chi di lavoro ha bisogno del favore del pubblico passa da una all’altro di continuo).

La televisione è oggi il corrispettivo di un video di Rovazzi: un mashup di vecchie glorie nazionalpopolari rilanciate attraverso il montaggio ironico e il linguaggio online, parlando a un pubblico dai 12 ai 70 anni. Certo non sono tutti Rovazzi, gli influencer. L’influencer medio di successo è Yuri Pennisi, un ragazzo di diciannove anni con i tatuaggi profondi (il fenomenologico “life is now” e il più velatamente umile “blessed”), la sua bio recita “Catania/Milano”, “Gym addicted” e “Collaboration”, con l’indirizzo mail per contattarlo per gli ingaggi. Intervistato da Webbo, sito dedicato alle personalità online, ha ammesso circa il suo futuro: “A me piacerebbe entrare in televisione o fare l’attore. Lo so, bisogna studiare. Il mondo dello spettacolo lo sento molto vicino a me, l’ho sempre sognato”.

Il sottobosco di giovanissimi che entrano nel demi-monde delle sponsorizzazioni è infinito. Sono tutti mediamente belli, depilati, tatuati, atletici e con un pubblico soprattutto femminile. Sono l’evoluzione degli One Direction.“Ho appena ricevuto una chiamata shock. Vi dico solo una cosa: mi vedrete in tv. Domani vi svelo tutto, restate aggiornati, sono scioccato. Sarò in uno dei programmi più seguiti di sempre, vi dico solo questo”, scriveva ai follower Denis Dosio su Instagram prima di apparire in una puntata di Domenica Live. Dosio nasce a Il collegio, quel programma in cui i ragazzini ignoranti rivivono le gioie di un passato scolastico senza cellulare e con un’educazione dura, come una volta. Usciti da lì, ottenuto l’ambito diploma della visibilità, iniziano a fotografarsi con gli abiti nuovi regalati dai marchi: guardami mamma, ce l’ho fatta.
Non è solo quel desiderio d’essere riconosciuti per strada (sia tu un famoso immunologo o uno che ha ammazzato la madre, come scriveva Umberto Eco nella Bustina di Minerva), il fatto è che la visibilità oggi ha un valore ed è contrattualizzata. Qualsiasi schermo vale a patto ci sia qualcuno interessato a guardarti, e per ora il discorso riguarda tanto una diretta Facebook quanto un programma televisivo (chi di lavoro ha bisogno del favore del pubblico passa da una all’altro di continuo). Ma solo nel secondo caso ottieni una certificazione in più, una pubblicazione, un passaggio dal basso verso l’alto. Il prestigio televisivo conta ancora, seppure in modo simbolico. E nella malaugurata ipotesi tutto finisca e ci si ritrovi con un pugno di mosche bisogna saperla prendere bene come Denis Dosio: “200.000 follower, e se tutto dovesse finire domani: mi sento un vincitore”.


Manuel Peruzzo

È nato nelle valli inquinate del comasco e alle gite a Chiasso preferisce il divano, la tv e il wifi. Si finge uno di quegli scrittori culturali del secolo scorso per Il Foglio, Forbes, Linkiesta, Esquire. Vive nel timore di essere scoperto.

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