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Flop

L’opposto di pop

Il pop, per definizione, è quanto di più lontano dal flop. Ma si tratta di due facce della stessa medaglia. E sia l’industria musicale sia quella tv hanno capito come approfittarne.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 24 - Flop. Il fallimento nell'industria creativa del 03 dicembre 2018

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Nel 2005, Mtv UK trasmette un reality che accompagna la cantante Lisa Scott-Lee, componente del gruppo pop britannico Steps, nel tentativo di avviare una carriera da solista. A rendere il programma Totally Scott-Lee un po’ più gustoso, c’è una sfida: per otto settimane le telecamere seguiranno la campagna promozionale di un singolo, e nell’ultima puntata si scoprirà in diretta il suo piazzamento nella classifica di vendita. Se il singolo in questione non entrerà nella top 10 britannica, la cantante si dovrà ritirare dal mondo della musica. La premessa, in tutta la sua crudeltà, funziona per l’emittente, che registra ascolti record, ma non per Lisa Scott-Lee: il singolo Electric si piazza alla tredicesima posizione. O forse funziona pure per lei, perché senza il traino di un programma tv avrebbe venduto ancora meno copie (del resto, prestandosi a un’operazione del genere, era già in odore di flop).

L’aspetto più interessante dell’altrimenti trascurabile programma è l’incredulità della star che fino a poco tempo prima vendeva milioni di dischi e ora, pur essendo ancora famosissima in patria e facendo lo stesso genere musicale, deve lottare per qualche migliaio di copie. Media e pubblico vogliono ancora il suo volto sulle copertine e vogliono ancora parlare di lei, ma una parte di loro, stimolata da un’idea di marketing vincente a prescindere dall’esito della sfida, vuole anche il suo licenziamento simbolico sulla pubblica piazza. Quindi, ecco Lisa Scott-Lee nei negozi di dischi a comprare copie del suo stesso cd singolo, a fare il solito tour de force promozionale con tutto l’ottimismo necessario, mentre la nazione gode assistendo a un tramonto in diretta.

Flop non rima con pop: è il suo opposto. Se in altri generi musicali si può ambire anche a un successo di nicchia o parziale (molti artisti rock, per esempio, possono concentrarsi sui numeri dei concerti senza curarsi troppo delle classifiche), l’obiettivo della popstar è un successo totalizzante, ottenuto attraverso ogni parametro disponibile. Il pop esiste solo nei grandi numeri, nei record, nei premi, nelle classifiche e nelle folle, perché la sua essenza sta in un’esperienza condivisa, alla portata di tutti, e che tuttavia sorprende con la sua novità. Il pop è quindi una scommessa impossibile perché nessuna ascesa è inarrestabile. Pensate a una popstar, una qualsiasi: nessuna è riuscita nell’impresa di una lunga carriera senza flop. E quando una arriva così in alto da non essere più in competizione con il mercato, entra in competizione con se stessa e i suoi risultati passati.

I numeri del flop

Ma cos’è un flop discografico? Tecnicamente, è quando un prodotto vende meno copie rispetto alle aspettative di chi ha speso per farlo. Tuttavia, se in campo cinematografico possiamo calcolare la differenza tra gli incassi di un film e il suo costo, e in campo televisivo abbiamo i campioni di audience e share da analizzare, nella musica abbiamo molti dati ma frammentari. Salvo casi speciali, non sappiamo qual è l’investimento fatto su un artista, né tantomeno conosciamo i costi di produzione e promozione; possiamo leggere graduatorie di ogni tipo e avere comunque un quadro parziale. La classifica di iTunes, per esempio, è avvolta nel mistero: non si conoscono alcuni aspetti chiave della sua metodologia (ogni quanto viene aggiornata? Si basa solo sulle copie vendute o su algoritmi che prendono in considerazione altri aspetti, quali la novità di un titolo e la velocità con cui è comprato?) eppure rappresenta uno degli standard dell’industria discografica. E se il numero uno è durato un’ora o un giorno o una settimana, al fine della promozione non fa molta differenza: basterà mostrarlo in uno screenshot per ringraziare i fan e accertare un successo.

La classifica ufficiale italiana, pubblicata ogni settimana dalla Fimi, è invece basata su un campione segreto di punti vendita fisici e digitali più i dati delle piattaforme streaming con abbonamento. Tuttavia, non conosciamo la stima delle copie vendute finché il prodotto non arriva a un numero che gli consente una certificazione (oro, platino, diamante) e le soglie per raggiungerla cambiano sempre più spesso per stare al passo con le innovazioni tecnologiche. Nel 2018, 130 stream equivalgono a 1 download, un calcolo che rende la soglia delle 25mila “copie” per un disco d’oro più raggiungibile per molti artisti. Non è raro che un singolo mai entrato nella top 50 italiana (un flop?) oggi arrivi all’oro (un successo?). I parametri si evolvono insieme al mercato, ed esaminare tre flop storici degli ultimi vent’anni ci aiuterà a capirne cause ed effetti.

Il flop annunciato

Glitter è un album di Mariah Carey del 2001 che fa da colonna sonora a un film che la vede come protagonista. Dopo un decennio di successi, documentato da una raccolta, #1, con i 13 numeri uno che aveva accumulato dal 1990, la star cambia casa discografica. Finisce il sodalizio con la Sony dell’ex marito e scopritore Tommy Mottola e firma un contratto da 100 milioni di dollari con Virgin, che le fornisce maggiore controllo creativo. Carey sfrutta l’occasione per lanciarsi in un progetto ispirato agli anni Ottanta, ma durante la promozione sembra diversa dal solito, parla in modo sconnesso nelle interviste e lascia messaggi confusi sul sito ufficiale (ben prima che esistesse l’idea del filo diretto con i fan suggerita dai social media). Ha un esaurimento nervoso e viene ricoverata in ospedale. L’album è rimandato e debutta poi alla settima posizione negli Stati Uniti, vendendo la metà del precedente. Data di pubblicazione: 11 settembre 2001.

Carey stessa dirà che in quelle sfortunate settimane era diventata una punchball per i media nonché una specie di distrazione dalle notizie sul terrorismo, ma il flop era stato deciso ancora prima che si verificasse. Secondo un sito specializzato (chartmasters.org)che ha messo in ordine gli album che hanno venduto meno copie rispetto al precedente, Glitter non è nemmeno nei primi 50 flop più rovinosi dell’industria musicale, eppure ne è diventato un simbolo. Ma ora che le classifiche sono dettate dallo streaming, e quindi dagli ascolti effettivi, Mariah Carey ogni Natale ha la sua rivincita: All I Want For Christmas Is You torna nelle top 10 di tutto il mondo.

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Il flop ai tempi dei social

Bionic è un album di Christina Aguilera del 2010. Dopo essersi affermata con Back to Basics, un album dai suoni vintage, ambiziosamente doppio e apprezzato da pubblico e critica, l’artista sceglie di prendere una direzione più sperimentale. S’ispira a sonorità elettroniche che a quei tempi erano considerate lontane e, per molti ascoltatori, incompatibili con quelle di una cantante mainstream. L’album debutta nella top 3 negli Stati Uniti, ma vendendo un terzo delle copie del precedente, ed è forse il primo flop seguito attraverso i social media, inaugurando l’era in cui i fan del pop escono dai forum specializzati e si riversano su altre piattaforme per discutere successi e insuccessi a colpi di screenshot e gif. Bionic è ancora un campo di battaglia: da un lato, chi lo considera un capolavoro sottovalutato e a otto anni di distanza promuove ancora su Twitter l’hashtag #JusticeForBionic; dall’altro, gli hater che hanno soprannominato l’artista “Floptina” e non esitano a ricordare che la sua carriera, malgrado la parentesi come giudice da talent show, non si è più risollevata.

Dopo un altro flop con l’album del 2018 (Liberation esordisce alla sesta posizione negli Stati Uniti, e perde 92 posizioni la settimana successiva), un fan le chiede su Twitter se ha intenzione di continuare a fare promozione. Lei risponde che ha avuto grandissimo successo commerciale nella sua carriera e ora è solo in competizione con se stessa: “non rincorro i numeri, ma cerco la verità”. Eppure la verità sta nei numeri e nasconderla a un pubblico sempre più attento è difficile. Negli ultimi anni, in cui il giornalismo musicale ha assunto toni più celebrativi per incontrare i like dei lettori, spetta al pubblico districarsi tra i dati. Nascono così account Twitter dedicati ai numeri del pop – alcuni neutrali, altri shady (cioè mirati ad affossare artisti o fanbase in modo implicito) – che diventano nuovi punti di riferimento per le verità che i canali ufficiali non comunicano.

Su internet non si inventano solo nuovi modi di odiare, ma anche di amare. Troviamo Unflopped, un podcast in cui tre appassionati riscoprono, discutono e rivalutano singoli di scarso successo di grandi popstar, o Pop Music Activism, un sito nato per portare sulle piattaforme digitali dischi pop dimenticati o, per così dire, non essenziali, facendo pressioni via mail e Twitter sulle case discografiche (tra i loro obiettivi raggiunti ci sono alcuni album di Alexia, ora ascoltabili su Spotify in tutto il mondo). E infine, i social stessi, che ricongiungono la popstar trascurata o dimenticata dai media tradizionali con il suo pubblico: nessun “che fine ha fatto” resta senza risposta, e ora che la distribuzione musicale non deve per forza passare da una casa discografica, un ex-flop può continuare a esistere grazie al supporto di comunità di fan ridotte ma ben organizzate.

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La perdita del trono

Artpop è il terzo album di Lady Gaga ed è arrivato nel 2013 dopo una colossale campagna promozionale fatta di feste esclusive, cartelloni interattivi nelle più grandi piazze del mondo e una mostra al Louvre. I numeri di vendita non sono nemmeno paragonabili a quelli del bestseller del 2011, Born This Way, che tuttavia aveva goduto di una promozione a 99 centesimi su Amazon. Pur arrivando in cima alle classifiche di tutto il mondo, è ora soprannominato Artflop, ed è il simbolo della fine della fase imperiale di una popstar – quando quell’ascesa che sembrava inarrestabile di colpo non lo è più. È una fase perché un trono non si può condividere, e non è un caso se i tre flop di cui sopra sono tutti legati ad artiste. Anche gli uomini floppano: per esempio, gli ultimi album di U2, Robbie Williams e Justin Timberlake hanno ottenuto risultati lontani dalle aspettative sia tra il pubblico sia tra i critici, ma non sono stati accolti né percepiti come un capolinea (e si potrebbero citare anche altri momenti poco brillanti delle loro carriere, da cui hanno sempre avuto la possibilità di risollevarsi). Nessuno suggerirebbe nemmeno che un loro flop sia dovuto all’arrivo di artisti più giovani e innovativi che hanno preso il loro posto nei cuori del pubblico.

Le popstar femminili sono invece costantemente immaginate in disperate battaglie tra loro, a cercare di superarsi, a imitarsi. Senza scomodare Lady Gaga e Madonna, basta una story su Instagram in cui Levante mangia “cereali sottomarca” perché i fan ci leggano un attacco ad Arisa, rea di aver copiato la sua acconciatura (Arisa stessa la interpreterà così, per poi dire che si trattava di uno scherzo). Le rivalità fanno parte della narrazione da sempre, e se nel rap diventano parte integrante dei contenuti musicali, quelle tra popstar femminili raramente sono fonte di ispirazione artistica (la recente faida tra Taylor Swift e Katy Perry, tradotta in canzoni da entrambe, non giova a nessuna delle due). Si tratta più spesso di teorie del complotto alimentate dai fan o meglio, gli stan – un portmanteau di “stalker” e “fan”, reso celebre da un brano di Eminem su un seguace ossessivo. Come nota Chris Stedman su Pitchfork, il rovescio della medaglia di tutta questa devozione è “la fastidiosa tendenza nella musica pop di mettere le star femminili una contro l’altra”. E “un modo comune degli stan per difendere il loro idolo preferito è sostenere che uno dei suoi rivali sia un flop ancora più grande”.

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L’industria del flop

Nell’estate 2018, su Raiuno va in onda Ora o mai più, un talent show condotto da Amadeus che si propone di dare un’altra chance a otto cantanti italiani. Ogni concorrente è abbinato a un giudice/coach che lo aiuta nelle prove settimanali, lo accompagna nei duetti e fornisce consigli per ritrovare il successo perduto. Ma se in genere i programmi sulle meteore dello spettacolo sono allegre celebrazioni della nostalgia, Ora o mai più è impostato sul trauma del dimenticatoio: nella prima puntata, c’è chi confessa di avere abbandonato lo spettacolo per lavorare in pizzeria (la metà maschile dei Jalisse) e chi racconta la depressione nel passare dall’Ariston a un locale di pianobar vuoto (Marco Armani). L’onestà con cui Ora o mai più affronta le ripercussioni pratiche e psicologiche del dimenticatoio è forse uno dei motivi del grande successo del programma (più del 20% di share e oltre 3,5 milioni di telespettatori in media), ma c’è anche un cast di giudici/coach perfetto per illustrare la parabola del successo discografico. C’è Marco Masini, che passò da teen idol a esiliato, e poi a vincitore di un Festival di Sanremo che mai come in quella occasione significò riscatto; c’è Loredana Bertè, che nel 2004 partecipava a un programma di cui Ora o mai più è quasi un reboot: Music Farm. Anche in quel caso il conduttore è Amadeus, e anche in quel caso c’è Marco Armani tra i concorrenti. Ma oggi, Bertè è reduce da un concerto all’Arena di Verona nel 2017 e un singolo (con Boomdabash) che ha raggiunto la top 10 nell’estate 2018, quindi può sedersi in un panel che sancisce il suo status riconquistato e dire che secondo lei Massimo Di Cataldo è “pronto” a tornare in classifica. Lo è davvero? Non importa finché esiste un programma basato su quella promessa.

Dopo 15 anni di talent moderni, infatti, sappiamo che il parametro del successo che conta è quello del contenitore televisivo, non quello delle copie vendute. Per esempio, finché The Voice fa ascolti accettabili, può andare in onda in tutto il mondo promettendo a spettatori e concorrenti che ci sia una star dietro l’angolo. La realtà ha dimostrato (e nel caso di The Voice in modo incontrovertibile) che non funziona così. Dopo 15 anni di talent moderni, sappiamo anche che la freschezza di un nome non è più essenziale e, anzi, in certi casi la narrazione migliore è proprio quella su cui si basa Ora o mai più: “rimettersi in gioco”. Emma Marrone aveva vinto Popstars prima di vincere Amici di Maria De Filippi; Irama era già da passato da Sanremo Giovani prima di vincere Amici, così come Enrico Nigiotti prima di finire sul podio di X Factor; ai provini di The Voice abbiamo visto sia Alessandra Drusian dei Jalisse sia Chiara Iezzi di Paola & Chiara; e poi ci sono Tale e quale show e Ballando con le stelle, nei quali la fama antecedente è un requisito per la partecipazione. E quando anche i talent finiscono, restano i reality – ultima spiaggia (e ultima palapa) del cantante dotato di spirito di adattamento che spera di potere tornare a fare il suo mestiere.

Forse rivedremo qualcuno dei concorrenti di Ora o mai più al prossimo Festival di Sanremo, e avere riconquistato l’accesso a quel palco verrà visto come un traguardo. Eppure, Sanremo stesso, da tradizione, non è proprio un traguardo: il cantante già affermato vi partecipa nella speranza di non dovervi partecipare più se non come ospite d’onore; di non avere bisogno di quella “importante vetrina” per vendere dischi. (Immancabilmente, ogni anno, nel momento in cui viene annunciata la lista dei Big, qualcuno commenterà che non ci sono abbastanza Big veri: e perché, di grazia, un cantante all’apice del successo dovrebbe correre il rischio della competizione?).

La televisione è il rifugio del flop discografico in cerca di riscatto: si nutre delle sue speranze e ce le restituisce sotto forma di intrattenimento leggero. A volte concede qualcosa in cambio e il pubblico ritrova affetto e interesse per l’artista, tanto la materia prima non verrà a mancare: l’industria del flop non si ferma mai.


Pop Topoi

Blogger indipendente che si occupa di interpretare fenomeni e meccanismi della musica pop contemporanea. Ha collaborato, tra gli altri, con Grazia, MTV e Rockol.

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