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Gli Almamegretta, Sergio Bruni e Mare fuori. Intervista a Raiz

Una fiction fortunata è il momento in cui la sua faccia è diventata nota al grande pubblico. Ma la sua voce, attraverso tanti progetti musicali, è conosciuta almeno dagli anni Novanta. Una chiacchierata.

Musicista, attore e scrittore, Gennaro Della Volpe può diventare Raiz ogni volta che gli pare, anche quando insieme a lui non ci sono gli Almamegretta, la band con cui ha sconvolto il panorama musicale degli anni Novanta. Eppure resta sempre quel ragazzino cresciuto in provincia di Milano, capace di (ri)prendersi Napoli attraverso fotografie color seppia e visioni di un futuro possibile ma ancora tutto da inventarsi. Di recente lo ha fatto attraverso un tributo alle canzoni di Sergio Bruni, Si ll’ammore è ’o cuntrario d’a morte, e al ruolo di Don Salvatore Ricci nella serie televisiva Mare fuori.

Essere attore o musicista, nel tuo caso, sembra quasi non avere confini ben precisi. 

È come un prisma attraverso cui passa un raggio di luce, capace di riflettere varietà cromatiche diverse. Di fondo c’è un’esigenza espressiva comune, credo. Quando ero ragazzo volevo fare l’attore, il mio percorso è iniziato come cantante semplicemente perché è arrivata prima quella possibilità: la passione per il teatro e il cinema, in effetti, non si è mai spenta. Anche Raiz è un personaggio, una maschera della quale mi sono servito e mi servo ancora, anche se negli ultimi anni sto venendo fuori più con la mia identità “reale”. 

Quindi potremmo dire che c’è un po’ di Raiz in tutti i ruoli che interpreti dietro la telecamera? Penso anche alle collaborazioni con i Manetti Bros per Ammore e malavita e L’ispettore Coliandro.

Rimane sempre un po’ dell’attore dietro ognuno dei suoi personaggi. Io li vedo quasi come degli abiti di latex, una seconda pelle che ti infili per diventare un’altra persona: Raiz ha la forma di Gennaro, ma può accadere che alcuni personaggi prendano la forma di Raiz. È difficile da spiegare, alla base c’è una sorta di disturbo della personalità, la voglia di diventare un altro. Dal punto di vista umano è un’esperienza fondamentale sapersi immedesimare in qualcuno diverso da te, evita molti conflitti interiori.

E cosa cambia invece se hai a che fare con il cinema come musicista, magari alle prese con una colonna sonora particolare come quella di Mare fuori?

Diversi brani che ho scritto con gli Almamegretta si muovono già a partire da quel tipo di indagine sociologica e antropologica: un tentativo di entrare nelle dinamiche per le quali al sud, in particolare a Napoli, persone comuni – magari come me e te – si ritrovano ad avere a che fare con il crimine. Questo per dire che, anche quando si parla di colonne sonore, a emergere deve essere comunque la propria cifra autoriale. Insomma, è una questione che va ben oltre il timbro vocale.

A proposito: sia in studio che sul set, nel caso di Mare fuori, possiamo parlare di un incontro tra più generazioni.

Non è diverso dal rapporto che può esserci tra me e Salvatore Palomba, l’autore delle liriche che ho reinterpretato in Si ll’ammore è ’o cuntrario d’a morte, il mio album con i Radicanto in cui omaggio Sergio Bruni. C’è sempre una connessione profonda che deriva dal fare lo stesso lavoro, dal condividere un certo tipo di sensibilità. Palomba è nato nel 1933, potrebbe essere mio padre; così come i ragazzi di Mare fuori hanno un’età per la quale potrebbero essere miei figli: eppure c’è qualcosa che ci accomuna tutti, ed è meraviglioso. Ascoltare i sogni dei più giovani, magari vederli improvvisare su un beat tentando di scoprire la propria voce, provoca delle sensazioni che non mi era mai successo di vivere così profondamente.

Una bella scarica di energia, immagino.

Sì, è molto stimolante. Ovviamente mi ricorda i primi passi con gli Almamegretta, solo che adesso sono io quello a cui viene chiesto un confronto per “crescere”. Mi sono trovato dall’altra parte!

“I ragazzi di Mare fuori hanno un’età per la quale potrebbero essere miei figli: eppure c’è qualcosa che ci accomuna tutti, ed è meraviglioso. Ascoltare i sogni dei più giovani, magari vederli improvvisare su un beat tentando di scoprire la propria voce, provoca delle sensazioni che non mi era mai successo di vivere così profondamente”.

E se, invece, dovessi iniziare la tua carriera musicale oggi? Cosa farebbe, nel 2023, il Gennaro ventenne?

Probabilmente avrei usato il linguaggio del rap, ovviamente contestualizzato in questo presente in cui la cultura hip hop è declinata spesso in forma trap. È un alfabeto che conosco bene, in cui mi ritrovo. Quando sento la base di un pezzo trap, riconosco chiaramente gli echi del mio passato: il dub e le influenze delle sonorità elettroniche, per esempio. Mi piace immaginare che avrei acceso il microfono per testi non banali, quelle riflessioni che in America gravitano nell’alveo del cosiddetto conscious rap. Ecco, sicuramente non sarei stato attratto dalle solite rime in cui si ostenta potere, ricchezza e connessioni con la criminalità. Che poi, dico: “Ma se tu fossi un criminale vero, ti verrebbe mai in mente – qui e oggi – di cantarlo a squarciagola e farlo sapere a tutti?”.

Per restare a Napoli, da questo punto di vista è meno ingenuo il modo in cui “la strada” viene raccontata nel circuito della musica neomelodica. Ammesso che chiamarla così non sia troppo semplicistico, se pensiamo ad uno come Franco Ricciardi.

Possiamo considerarlo semplicemente pop napoletano, visto che le altre definizioni hanno assunto una connotazione spregiativa nel corso del tempo. Con Franco lavoriamo spesso insieme, ho scritto diversi testi del suo ultimo disco. L’altro giorno riflettevo sul fatto che sembra quasi un triangolo: io, Franco Ricciardi e Gigi D’Alessio abbiamo la stessa età, siamo tre musicisti completamente diversi, ma ci sono dei punti di contatto, interconnessioni più o meno esplicite. Forse perché comunque siamo cresciuti nello stesso ambiente, mangiato le stesse pizze, fatto il bagno nello stesso mare. Io prendo tantissimo da quella Napoli, magari digerendolo e trasformandolo in qualcosa di diverso; esattamente come Franco ha preso tantissimo dalla scena alternativa e l’ha fatto suo. La nostra collaborazione ci ha mostrato chiaramente certe comunanze, questa “musica cittadina” che è capace di unirci e ricomporre un unico mosaico che era esploso tanti anni fa, proprio dopo Sergio Bruni.

Una figura molto particolare, quella di Bruni.

Sergio Bruni è stata un po’ la summa dei cantanti napoletani della sua epoca, ha segnato un momento importantissimo. Peraltro, ha anche accompagnato la mia infanzia, da figlio di emigranti cresciuto in Lombardia alla ricerca di un’appartenenza. Da ragazzino potremmo dire che “subivo” i suoi dischi, perché erano quelli che si ascoltavano in famiglia, lontani dai miei gusti: quando mi sono trasformato da ascoltatore passivo a interprete attivo, ho capito che tutta la musica che provavo a fare – quella di derivazione afroamericana e di contaminazione con i suoni mediterranei – era in qualche modo legata a Bruni. Avevo cantato con la sua voce, in un certo senso. Un po’ come se fossi un suo allievo che tentava di mescolare Napoli con il rap, il reggae o il funk.

Tutti elementi che sono confluiti negli Almamegretta, ma anche negli altri progetti che hai firmato nel corso degli anni.

Inizialmente pensavo fosse solo il mio retaggio culturale, il mio dna, ma registrando Si ll’ammore è ’o cuntrario d’a morte ho capito chiaramente che senza una canzone come Carmela non sarebbe esistita Nun te scurdà. Che non sarei stato l’artista che sono, in definitiva. Che la mia lingua madre – intensa proprio come la lingua di mia madre – è la stessa che parlava Sergio Bruni.

“Sembra quasi un triangolo: io, Franco Ricciardi e Gigi D’Alessio abbiamo la stessa età, siamo tre musicisti diversi, ma ci sono dei punti di contatto, interconnessioni più o meno esplicite. Forse perché siamo cresciuti nello stesso ambiente, mangiato le stesse pizze, fatto il bagno nello stesso mare. Prendo tantissimo da quella Napoli, digerendolo e trasformandolo in qualcosa di diverso”.

Accostando Carmela e Nun te scurdà, viene in mente La pelle di Curzio Malaparte. Un libro folgorante, che ti ho già sentito citare qualche volta.

Quando ho letto La pelle, ho riconosciuto proprio la Napoli che raccontava mia madre. Era del 1933, nata nei Quartieri Spagnoli, e ha vissuto gli anni fotografati da Malaparte: quelli dell’occupazione americana e degli scenari apocalittici che hanno devastato la città e i suoi abitanti. Pensa che mia nonna chiudeva le figlie in casa, vedendo che molte ragazze – anche quelle molto giovani – uscivano con i soldati e rischiavano di finire in brutti giri.

Ricordi che possono diventare canzoni ma, come hai mostrato con Il bacio di Brianna, anche pagine scritte.

Proprio una delle storie ascoltate da mia madre è entrata a far parte della raccolta di racconti che ho pubblicato nel 2021 con Mondadori. È la vicenda del soldato americano, nato da una famiglia napoletana emigrata negli Stati Uniti qualche anno prima della guerra, che – rendendosi conto di avere davanti poco più di una bambina – si limita a offrirle una Coca cola e poi la riaccompagna a casa come un fratello maggiore, mettendo da parte ogni altra mira. Carmela, Nun te scurdà e La pelle si muovono in una dimensione simile. Quella in cui mia nonna stirava le camicie degli ufficiali sotto il portone dell’università e suo fratello faceva gli “scartiloffi” al mercato nero. Una famiglia dei Quartieri Spagnoli che amava ascoltare Sergio Bruni, per tornare da dove eravamo partiti.

Senti di stare chiudendo un cerchio, riportando quel tipo di repertorio sotto la luce dei riflettori? 

La canzone napoletana classica vive all’interno di un flusso interrotto, dopo Bruni sembra essersi chiusa un’era. È stato uno degli ultimi a rappresentare Napoli in senso complessivo, senza dividere il pubblico borghese, formato da chi è andato ad abitare le colline della città, e quello popolare, che ha continuato a vivere nel centro storico. In questo modo si è creata una frattura anche linguistica, che ha condizionato la musica e la sua fruizione a causa di una percezione sbagliata di ciò che veniva recepito come “volgare”, cioè del volgo. L’idea stessa di canzone napoletana ne ha risentito e si è come cristallizzata, non potendo esplicitare tutto ciò che aveva ancora da dare: non c’è più stata ricerca, né nelle melodie e né nei suoni. Si sono create piuttosto delle deviazioni, compresa quella degli Almamegretta. Invece c’è ancora tanto spazio per accostamenti con altre musiche popolari, con il fado o la musica nordafricana: una nuova apertura, capace di ascoltare il respiro della classicità senza rischiare di relegare tutto alla vetrina di un museo. E, soprattutto, guardando contemporaneamente al passato e al futuro.


Carlo Babando

Giornalista, scrittore e docente di letteratura italiana e storia. Ha collaborato con Mucchio Selvaggio, Mucchio Extra e dal 2014 firma recensioni e retrospettive sulle pagine di Blow Up, curando una rubrica mensile interamente dedicata alla cultura afroamericana. Lavora a vario titolo nel campo della musica, della radio e della televisione. È autore di Marvin Gaye. Il sogno spezzato (2016) e Blackness (2020).

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