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Futurama, la serie che non voleva morire

Per l’ennesima volta, torna con nuovi episodi Futurama. Ed è una buona scusa anche per rivedere i vecchi episodi, ancora perfettamente contemporanei. E fare il punto sulla carriera di Matt Groening.

Prima di essere una delle personalità che ha contribuito a cambiare il modo in cui i cartoni animati sono considerati dal pubblico (non solo prodotti di consumo per bambini, ma produzioni adulte, sofisticate), Matt Groening era proprio come i suoi personaggi: senza una vocazione. O, meglio, una vocazione l’aveva, ma fino all’età adulta non aveva capito come metterla a fuoco. Nato a Portland, in Oregon, nel 1954, terzo di cinque figli, Groening passò l’infanzia tra le urla dei leoni dello zoo locale e quelle dei programmi tv. Tra i suoi preferiti, le serie che idealizzavano la vita suburbana del dopoguerra come Il carissimo Billy o Father Knows Best. Studente discreto, perfino eccelso a sentire i racconti della madre (“forse non vuole che si sappia in giro”, disse lei nel 1990 al Seattle Times), Groening mal sopportava le convenzioni del sistema scolastico e rifiutava di prendere parte agli obblighi sociali dei suoi coetanei.

Da Life in Hell ai Simpson

Questa duplice natura, sovversiva eppure in accordo con le consuetudini, avrebbe caratterizzato tutta la sua vita professionale. Lui che dei boyscout disse che “vanno bene se non hai altro da fare, o ti piace far finta di essere nell’esercito e adori fare il saluto alla bandiera”, diventò uno di loro, perché forse non aveva altro da fare, e durante una funzione religiosa scappò dal gruppo per visitare il Psychedelic Shop, un negozio dove scoprì Zap Comix. Grazie al lavoro del padre, pubblicitario e regista con un passato da vignettista politico, in casa non mancavano New Yorker, Esquire e Punch, riviste alternative che Groening accompagnava con la lettura di Zio Paperone, Peanuts e gli altri fumetti del fratello maggiore, pronti a rimpiazzare una tv piena di programmi smussati agli angoli e rivestiti di certezze confortevoli.

Con i suoi amici fondò un club che si ritrovava per leggere fumetti e riviste, e disegnare. Qui, Matt disegnò Joe, una versione deformata di Charlie Brown: labbro sporgente, nasone e occhi enormi posti sullo stesso lato della faccia. A Matt e ai suoi amici quest’ultimo dettaglio faceva molto ridere. Ad affascinarlo, in particolare, era la serie di Ronald Searle St. Trinian’s School, ambientata in un collegio femminile dove gli insegnanti sono aguzzini sadici e le alunne delinquenti in gonnella. Al college, l’Evergreen State College, che vantava un’impostazione progressista fatta di lezioni libere e assenza di voti, diventò l’editor del giornale del campus, il Cooper Point Journal, e conobbe Charles Burns, Jim Chumpa e Lynda Barry. 

Dopo la laurea, il suo futuro di adulto gli appariva nebuloso. “Avevo alcuni amici dalle grandi ambizioni con cui avevo in comune un sacco di scuse sul perché non stavamo ottenendo ciò che volevamo”, spiegò al Daily Nexus. Ispirato dalla canzone dei Talking Heads “Artists Only”, in cui sono accampate una serie di scuse “da artisti” (“non posso fartelo vedere finché non è finito / non devo dimostrare a nessuno di essere un creativo”), “decisi che non potevo più permettere a quelle scuse di definirmi”. Nel 1977, Groening si trasferì a Los Angeles. Accumulò una serie di lavori scadenti come tuttofare di un vecchio regista di serie B − che gli affidò i compiti di autista e ghostwriter della sua autobiografia − e copywriter per un’agenzia che pubblicizzava film horror. Sfogò le sue ansie in un fumetto autoprodotto dal titolo Life in Hell, con protagonisti Binky, un coniglio anaffettivo con un figlio illegittimo, Bongo, una coppia di gemelli (e amanti), Akbar e Jeff, intenti a vivisezionare i loro rapporti amorosi, le loro angosce e ansie sociali. Iniziò a distribuirlo, a due dollari ad albo, nel negozio di dischi in cui lavorava, il Licorice Pizza, finché un editor di Wet, eclettico magazine fondato da Leonard Koren, lo volle a bordo. Da lì passò al Los Angeles Reader, che nel 1980 lo assunse come redattore, fumettista e critico musicale.

Gli autori scrissero alcuni episodi per accontentare l’emittente Fox che voleva un cartone “terra terra, più sitcom, meno fantascienza”. Ma il gruppo di lavoro scoprì che gli episodi in cui c’era una storia di fantascienza che sottolineava l’elemento comico erano i preferiti dai fan e che la comicità funzionava comunque, anzi migliorava, se prendevano sul serio la fantascienza.

Con i suoi fumetti, diceva Groening, “volevo solo offrire un’alternativa al pubblico e mostrare loro che esiste qualcos’altro oltre alla spazzatura generalista che è spacciata come l’unica cosa possibile. È una pretesa egotistica dire che quello che offro abbia del valore, ma mi piace rendermi parte del mercato. C’è questo pregiudizio nel mondo underground che tutto il mainstream sia senza speranze”. Con l’aiuto della fidanzata, Groening riuscì a creare una piccola industria a tema Life in Hell comprendente raccolte, calendari e oggettistica varia che fecero intuire al fumettista le potenzialità della commercializzazione. La scenografa Polly Platt, che aveva ricevuto una nomination all’Oscar per Voglia di tenerezza e voleva ringraziare il regista James L. Brooks per la collaborazione, comprò un originale di Life in Hell del 1982 intitolato The Los Angeles Way of Death, in cui sono mostrati nove modi per morire nella città degli angeli, gli ultimi due dei quali sono il successo e il fallimento. E quel regalo avrebbe stravolto la vita di Groening, che si sarebbe ritrovato protagonista di un colossale fenomeno: I Simpson. La sofisticazione delle sceneggiature, la tenuta degli episodi a fronte di visioni ripetute, il flusso magmatico di umorismo scemo e citazioni colte hanno reso I Simpson un oggetto culturale esaminato fino allo spasmo, prima geniale e poi, con il passare delle stagioni, insulso e stanco, per poi tornare, come testimonia un articolo di Vulture, “di nuovo bello” – il merito sembrerebbe del nuovo showrunner, Matt Selman, nome storico della serie ma finora mai messo in condizioni di gestire il programma se non per qualche manciata di episodi. Che si sia parlato così tanto della serie è un traguardo, ma che ci sia ancora voglia di parlarne alla trentaquattresima stagione (ma altre due sono già confermate) è ancora più sbalorditivo.

L’invenzione di Futurama

Non è però l’unica serie di Groening di cui gli spettatori non si sono, apparentemente, stancati di parlare. Su Hulu (via Disney+) è arrivata la nuova stagione di Futurama, la commedia fantascientifica in cui il giovane Philiph J. Fry finisce nell’anno 3000, creata nel 1999 da Groening insieme a David X. Cohen, su insistenza della Fox che agognava un altro successo. L’infornata di episodi arriva dieci anni dopo l’ultima stagione, ed è solo l’ultimo capitolo di una storia produttiva a dir poco travagliata. Groening descrisse il periodo di progettazione di Futurama come “il peggiore della mia vita”, giudizio confermato da Cohen a Fumettologica. “Non c’erano precedenti per una serie comica di fantascienza per adulti, quindi ci furono molte, molte decisioni di fondo da prendere per centrare il tono della serie”.

Groening dovette vedersela con Fox e combattere battaglie per quanto riguardava i contenuti e la direzione della serie. “Eravamo preoccupati di spingere troppo sul lato sci-fi, e di certo anche la Fox lo era”. Gli autori scrissero alcuni episodi (come Io, coinquilino, in cui Fry cerca un appartamento in cui vivere) per accontentare l’emittente che voleva un cartone “terra terra, più sitcom, meno fantascienza”. Ma il gruppo di lavoro scoprì che gli episodi in cui c’era una storia di fantascienza che sottolineava l’elemento comico erano i preferiti dai fan e che la comicità funzionava comunque, anzi migliorava, se prendevano sul serio la fantascienza. “L’epopea spaziale e l’epicità drammatica della fantascienza sono sfondi grandiosi su cui proiettare le minuscole insicurezze ed emozioni umane dei personaggi”, spiegò Cohen. “La serie migliorò molto, una volta che ci lasciammo andare con le storie fantascientifiche”.

Non è difficile capire di cosa erano preoccupati i dirigenti Fox, nel concreto. Futurama vuole da subito fare un world building alienante, strano, diverso a tutti i costi per giustificare i mille anni di distanza temporale che separano i personaggi dagli spettatori. Ecco che nelle cabine agli angoli della strada, quelle che nel 1999 erano ancora un elemento persistente del panorama urbano, il gettone si mette per suicidarsi, invece che per chiamare qualcuno. E il lavoro è assegnato attraverso un chip che definisce una carriera professionale impossibile da cambiare, pena una punizione abbastanza severa: essere lanciato con un cannone al centro del sole. Futurama nasconde, sotto le battute e i tormentoni, temi esistenziali come la predestinazione stoica, lo spaesamento post-adolescenziale, l’alienazione lavorativa. Fry è un ragazzo talmente insoddisfatto del suo presente da trovare la sua dimensione ideale soltanto in un altro tempo. Il prologo della prima puntata, Pilota spaziale 3000, si chiude con la consapevolezza che tutti gli amori e gli affetti di Fry sono scomparsi per sempre, ma invece di struggersi, il ragazzo esulta di gioia. Nello stesso episodio Leela si licenzia dal proprio impiego e Bender tenta il suicidio perché con il suo lavoro ha contribuito a creare delle macchine di morte. Togliendo la tara dei riferimenti culturali, rivedere oggi Pilota spaziale 3000 resta un’esperienza contemporanea tanto quella di vedere le storie di una famiglia disfunzionale di Springfield o l’alienazione di conigli losangelini.

Racconto a strati

Futurama è, se possibile, un prodotto tanto stratificato quanto lo erano I Simpson nelle prime stagioni. Nel calderone di ispirazioni in cui bollono gli episodi (Guida galattica per autostoppisti è il modello più evidente e al tempo stesso celato) c’è spazio per cinismo ma anche tanto cuore, in una ricetta che non fece altrettanta presa sul pubblico, ma si guadagnò il duraturo sostegno di fedelissimi. Nel corso della serie, gli episodi migliori destreggiano il delicato equilibrio tra il commento sociale (nonostante sia ambientato nel 3000, Futurama parla dei problemi contemporanei molto più di quanto faccia I Simpson), vicende umane, estremamente emotive (l’amore tra Fry e Leela, il rapporto di Fry con la sua famiglia, la fede), la commedia e l’iniezione di idee fantascientifiche che provino a uscire dai canoni del genere.

Futurama nasconde, sotto le battute e i tormentoni, temi esistenziali come la predestinazione stoica, lo spaesamento post-adolescenziale, l’alienazione lavorativa. Fry è un ragazzo talmente insoddisfatto del suo presente da trovare la sua dimensione ideale soltanto in un tempo altro. Il prologo della prima puntata, Pilota spaziale 3000, si chiude con la consapevolezza che tutti gli amori e gli affetti di Fry sono scomparsi per sempre, ma invece di struggersi, il ragazzo esulta di gioia.

A plasmare Futurama, Groening lasciò David X. Cohen, showrunner della serie, e Ken Keeler, due sceneggiatori appassionati di fantascienza e nerd della matematica che inseriranno nel cartone gag e battute dotte, finendo persino di coniare un teorema. Futurama funziona perché prende in giro cose in cui crede fortemente. Crede nella fantascienza che spernacchia. È questa la differenza con Disincanto, la terza e più recente produzione groeningana: Disincanto mette un personaggio come Fry, la principessa Beanie, in un mondo a cui gli autori non credono, un semplice sfondo generico privo di quell’amore e quella conoscenza che invece contraddistingue Futurama. Diventata da subito un prodotto di culto, anche se meno pervasivo de I Simpson, fu ostacolata da Fox, che la riteneva troppo adulta, zeppa di nudità, violenza, e iniziò a pasticciare con la programmazione. La trasmise in orari infelici e ne affossò gli ascolti. Chiusa dopo quattro stagioni, fu resuscitata dall’home video, che nei primi anni Duemila permetteva a ogni produzione con uno zoccolo duro di fan di avere una seconda vita: furono prodotti quattro lungometraggi, a cui si aggiunsero due stagioni, trasmesse su Comedy Central tra il 2010 e il 2013, e ora un rilancio targato Hulu e Disney. Data la precarietà di ogni rinnovo, Futurama vanta il record di maggior numero di “puntate finali”.

Che si parli di Life in Hell, de I Simpson, Futurama o Disincanto, i lavori di Groening sono tenuti insieme da una sfida al potere, da una ribellione intrinseca che è il tratto più caratterizzante e, in ultima analisi, la cifra stilistica dell’autore. Ma, con la propria firma scolpita a vivo nell’immaginario pop, è possibile per Groening essere ancora il ribelle che lavorava all’interno del sistema o la patina rivoluzionaria è stata scalfita a colpi di cestini per il pranzo con l’effige di Homer e Bender? “Non è che le paure umane se ne vanno via solo perché il mio problema più grande è diventata l’infestazione di molluschi sotto lo yacht”, disse una volta a Mother Jones. “Penso si debba intrattenere lo spettatore prima di sovvertirlo”, spiegò in un’intervista del 1991 al The Comics Journal. “Anche se, invecchiando, la sovversione sta diventando un punto di domanda. Non so se questa roba sia in grado di cambiare l’opinione delle persone. Alla meglio, penso che dia conforto a persone con cui sei già d’accordo”.

Se sia ancora viva quella scintilla di necessaria espressione non è dato saperlo, ma se c’è una cosa che trentacinque anni di Life in Hell, settecento e rotti episodi de I Simpson, le nuove stagioni di Disincanto e Futurama hanno dimostrato è che in tutta la sua carriera Matt Groening ha ostinatamente smentito il mantra che declamava David Byrne in Artists Only: “Non devo dimostrare di essere creativo!”.


Andrea Fiamma

Scrive (soprattutto) di fumetti, cinema e tv su Fumettologica, Rivista Studio e The Comics Journal.

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