Per resistere all’avanzata di altri operatori, i network americani imboccano nuove strade: come la soap di Empire e il falso cable di American Crime.
Le ultime sono state, nell’ordine: House (Fox), Lost (Abc), Friday Night Lights (Nbc) e The Good Wife (Cbs). Dopo, il vuoto. Tra il 2012 e il 2015, nella categoria Miglior Drama agli Emmy, i big four hanno realizzato un tragico score di 0 nomination su 25. Come disse una volta Seth Meyers, ormai sono diventati buoni solo a organizzare serate di gala in cui i premi migliori vanno al cable o a Netflix. Decenni di storia spazzati via, così? Vedremo. Le classifiche sono sempre discutibili, ma di sicuro segnalano una tendenza. Qualcosa è cambiato. Per esempio la concorrenza, che ha cominciato a sottrarre pubblico. Quando parti con lo svantaggio di non piacere alla gente che piace, hai bisogno del sostegno dei numeri, e se questo inizia a venir meno, ecco che a poco a poco si scivola via dal centro e dalla pazza folla. Meno visibilità, meno onori.
Non è solo questione di premi, c’entra anche la convinzione di poter ancora contare qualcosa, di ricordarsi chi eravamo. Se davvero ha senso l’espressione di Nuova Golden Age con cui si indica l’esplosione qualitativa a cavallo tra la fine degli anni ’90 e gli anni Zero, il merito è anche dei network che hanno tirato la volata con titoli che hanno letteralmente tagliato in due le biografie di molti di noi. Il processo di appropriazione dell’oggetto-serie, come lo viviamo oggi, parte proprio da una familiarità, un’abitudine, un allenamento che hanno reso l’audience globale pronta ad accogliere, prima di sottecchi e poi con entusiastica scioltezza, il vero meglio della serialità americana (vedi la lenta e spettacolare deflagrazione di Breaking Bad, iniziata come droga di nicchia e finita come tutti sappiamo). A un certo punto è come se i network avessero deciso di rinunciare anche solo all’idea di poter competere con gli altri: ok, sono arrivati gli invasori, abbiamo smesso di essere popolari, e allora tanto vale concentrarsi sulle comedy, continuare con il solito schema di spinoff, revival e ricicli vari, attendere tempi più chiari per decidere cosa fare.
Le nostre care, vecchie televisioni decidono, per calcolo, disperazione o semplice casualità, di occupare alcuni spazi ancora liberi in questa metà del cielo: la diversità, la rappresentazione delle minoranze, le lotte di classe.
Ma anche in tempo di assedio le nostre care, vecchie televisioni riescono sempre a farsi notare. Praticamente nello stesso momento la conservatrice Fox e la familiare Abc si affidano a Lee Daniels e John Ridley (entrambi già vincitori di Oscar) e decidono, per calcolo, disperazione o semplice casualità, di occupare alcuni spazi ancora liberi in questa metà del cielo: la diversità, la rappresentazione delle minoranze, le lotte di classe. Nascono così Empire e American Crime, stesso campionato ma esiti opposti in termini di qualità, ratings, impatto sullo Zeitgeist.
Jamal and the Primitives
“Empire is broad and niche at the same time” (Jon Earley, dirigente Fox).
Lee Daniels è uno di quei registi convinti di poter cambiare il mondo. È nero, gay e, anche se nelle interviste non vuole che si parli solo di questo, ecco, dopo cinque minuti lui parla solo di questo. Si ritiene un sopravvissuto, uno che “non doveva neanche essere qua”, uno che conosce sulla propria pelle le ingiustizie e vuole modificare opinioni e atteggiamenti del pubblico. Empire, storia di una famiglia di musicisti e discografici neri “dal ghetto al paradiso”, nasce dunque con l’idea di dare voce a chi non ce l’ha, attingendo alle esperienze dirette dell’autore (“tutto quello che si vede nella serie mi è successo veramente”) e applicando una formuletta magica che nelle sue prime due stagioni ne ha fatto di gran lunga il drama più visto dei network: ogni spettatore può vederci quello che vuole. C’è un primo livello quasi ingenuo: l’hip hop, il potere, il denaro, i tradimenti, gli omicidi, i drammi. E un secondo che invece prende continuamente le distanze, ironicamente, da quello che viene messo in scena: gente che origlia, gente che viene buttata dalle scale, la degradazione di Shakespeare e l’innalzamento di Dynasty, le personalità della vera industria discografica adulate o prese di mira a seconda dei clan (un doppio movimento presente anche altrove: a proposito del suo film Precious, Daniels ricorda che alla proiezione ad Harlem tutti risero, al Sundance invece i critici parlarono di “arte”).
Empire si rivolge a tutti, al suo target naturale e agli altri. Vuole farsi notare, a tutti i costi, in modo esagerato, sgraziato, con una disinvoltura che non risparmia niente e nessuno, neri, bianchi, gay, lesbiche, ricchi, poveri. Scene come quella in cui il personaggio interpretato da Alicia Keys “aggiusta” l’omosessualità di Jamal, o quella in cui, durante un concerto, Cookie (il cuore pulsante dello show, un incrocio tra Imma Savastano di Gomorra e Whizzy de I Jefferson) viene calata sul palco dentro una gabbia travestita da gorilla non possono essere accusate di omofobia o razzismo perché “ehi, noi sappiamo esattamente di cosa stiamo parlando”. Una missione educativa più o meno celata: i serissimi discorsi sulle condizioni nelle carceri sono diluiti in un brodo di divertimento di cui alla fine non si distinguono più i contorni, con prestiti provenienti da qualsiasi lingua possa tornare utile, persino quella della sitcom. Come ogni serie generalista che si rispetti, Empire azzera e rinnega continuamente la materia narrativa che produce a getto continuo, nelle singole puntate e, soprattutto, nella costruzione generale. L’arresto per omicidio del patriarca Lucious è perfetto come cliffhanger della prima stagione e come aggancio tragicomico ai fatti di Ferguson all’inizio della seconda, ma poi finisce per scoppiare come una bolla di sapone in pochi episodi. La cosa più importante è rassicurare, tornare subito al punto di partenza, a quello che era già scritto nel pilot, alle alleanze isteriche e ai continui cambi di campo tra la madre, il padre, il figlio gay, il figlio etero e il figlio bipolare. We. Are. Family.
Watch Don’t Tell
Come quando fai partire un vinile e capisci che viene da una “custodia che non era la sua”. Ecco a cosa assomiglia iniziare la visione di American Crime. Una sensazione di conti che non tornano. Cosa ci fa questa serie antologica su Abc, lo stesso canale di Quantico e Castle? Di solito in una serie generalista lo spettatore sa sempre dove si trova, non si pone mai troppe domande, e i personaggi sono potenziali amici con cui andare a bere qualcosa la sera. Qui invece basta un solo fotogramma per comprendere che ci troviamo in una terra straniera. L’autore John Ridley si comporta sistematicamente come se il suo referente fosse un canale cable. Disattende le aspettative ed evita ogni rassicurazione. Lo spettatore è perso. Si parte con uno sfondo nero, una chiamata al 911 e la segnalazione di un crimine (nella prima stagione un omicidio, nella seconda una violenza sessuale). Ma questo non è un procedurale né un classico “giallo”. Sin da subito ci si allontana dai codici di genere: non c’è una vera inchiesta, le figure classiche che rappresentano l’autorità sono spesso defilate se non assenti. L’intento è innanzitutto osservare quello che sta attorno al delitto. Watch Don’t Tell. Sul piano formale ciò si traduce in una serie di scelte che riguardano il ritmo, i tagli interni alle scene e le relative sovrapposizioni, la violazione della regola del “mostrare sempre chi parla”, e della solita alternanza nei dialoghi: in questo universo nessuno aspetta il proprio turno per parlare.
Una libertà creativa che mette in discussione anche la classica struttura di un episodio da 40’: possiamo assistere a una lunga scena con un balletto silenzioso che si conclude con una carrellata horror, o a un’improvvisa mutazione documentaristica con l’inserto di interviste a persone vere che supportano le azioni dei personaggi inventati. Ambizioni e sperimentazioni di natura indie (non è casuale la scelta come regista di una puntata di Gregg Araki, autore dell’affine Mysterious Skin), con il chiaro intento di smarcarsi dal resto del panorama e dai vicini di palinsesto. A differenza di Scandal, in cui la supereroina Olivia Pope si muove da padrona nel migliore dei mondi possibili (i buoni trionfano sempre, anche se sono efferati assassini), American Crime sceglie di spingersi in territori inesplorati. Sul piano della rappresentazione, quando mette al centro una donna musulmana o una famiglia messicana, e su quello dei contenuti: la vicenda dello stupro subito dal liceale Taylor viene sezionata nei minimi dettagli fino a un’illusoria oggettivazione della sofferenza. Materia incandescente, che non tarderà a travolgere tutto e tutti.
American Crime si comporta dunque da cable pur non essendolo, e deve fare i conti con una serie di concessioni al mainstream. Per esempio in quello che è lecito far dire o far vedere: le parolacce, gli insulti e l’assunzione di droghe sono censurati da frame neri e dall’interruzione dell’audio. O nell’utilizzo di una serie di elementi che possano facilitare l’ingresso nel racconto. Sia nella prima che nella seconda stagione, all’inizio, tutto è molto evidente: ci sono i bianchi, i neri, gli ispanici, le disuguaglianze profonde, le questioni razziali, il bullismo omofobico, i torti che generano altri torti. Lo spettatore vede confermati i propri preconcetti, ma poi, senza accorgersene, è portato fuori dalla propria zona conforto, con un movimento circolare che non privilegia nessuna prospettiva particolare. Ridley lavora continuamente su una dinamica di déplacement dei punti di vista: non vuole cambiare il mondo, piuttosto mostrare come lavora un pregiudizio radicato nelle coscienze. Il risultato, inedito per un network come Abc, è che lo spettatore è costretto a ridefinire i propri limiti mentali, a mettersi letteralmente in guerra contro se stesso e i propri valori. È quello che accade con il personaggio della bigotta Barb, che si merita tutto il disprezzo possibile per il razzismo dichiarato senza pudori e la mancanza di pietas. Ma poi, man mano che lo zoom si allarga, ed emerge un reticolo di altri crimini e altre responsabilità, cambia lo sguardo e arriviamo ad accettare persino la sua aberrante visione delle cose. Nel punto più basso della sua parabola, la nuora a un certo punto prova a farla rialzare (“You got to decide what you want from this life. If you want to hate, you’re gonna hate alone”), ma la risposta di Barb non arriva, perché non c’è più niente da dire. Le ingiustizie non verranno mai riparate e certi vuoti non saranno mai colmati. Allo stesso modo, più avanti, non ci viene svelato che ne sarà di Hector, Eric e Taylor. Ci sono cose che non serve sapere. È esattamente così che succede, là fuori.
Nico Morabito
Palermitano e parigino. Coautore dei film La Dernière Séance (presentato alla Settimana della critica della Mostra di Venezia 2021 e vincitore del Queer Lion) e Fuori Tutto (Miglior documentario italiano al Torino Film Festival 2019). Ha collaborato alla scrittura del film Le Favolose (presentato alle Giornate degli autoridella Mostra di Venezia 2022). È professore a contratto all’Università di Paris Nanterre, dove tiene un corso di scrittura audiovisiva dal 2019.
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