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Come le piattaforme inseguono i palinsesti

Rivoluzione? Disruption? Forse. Sempre più spesso in realtà l’on demand riprende e adatta le tecniche che a lungo sono state appannaggio della programmazione tv lineare. Tra blocchi, flussi e sincronie.

Riportiamo qui un brano del capitolo finale di La programmazione televisiva. Palinsesto e on demand, di Luca Barra, pubblicato recentemente da Laterza (Roma-Bari, 2022). Il volume analizza l’industria e il linguaggio televisivo dal punto di vista dell’aggregazione dei contenuti nel palinsesto e poi nelle library non lineari, ricostruendo le definizioni, le tecniche, le evoluzioni nella storia della tv e in quella più recente delle piattaforme digitali. Per proporre, in chiusura, uno sguardo sui rapporti tra broadcasting lineare e on demand che ne evidenzia, soprattutto, la continuità e complementarità.

Se gli ultimi vent’anni hanno visto moltiplicarsi i canali lineari, e di conseguenza aggiustarsi le logiche e le regole di costruzione dei loro palinsesti, anche sul versante apparentemente alternativo dell’offerta di contenuti audiovisivi on demand quella che è cominciata come un’alterità radicale, un’opposizione netta ed esplicita ai modelli classici del broadcasting, sulla media e lunga distanza rivela, a uno sguardo attento, qualche sfumatura in più. Il passare del tempo ha infatti condotto, in Italia come in tutto il mondo, al progressivo assestarsi sia delle pratiche di consumo, sia dei modelli editoriali e industriali. Da una parte, le piattaforme digitali superano “l’egemonia delle norme lineari e quella delle demographics” (Lotz, 2020), svincolando i contenuti dalle precomprensioni su stagioni e orari e la valutazione del loro successo dalla presenza di specifici target di pubblico riuniti davanti allo schermo, dal momento che le loro strategie riguardano l’insieme dell’offerta, l’ampiezza e la varietà, più che i risultati del singolo testo. Ma, dall’altra parte, anche in condizioni strutturali innegabilmente differenti, sia pure con formule meno legate a una stringente temporalità, ritagliate sull’insieme degli abbonati e non sull’utente specifico, molte procedure e criteri dell’offerta on demand presentano un’aria di familiarità rispetto alle routine e agli obiettivi del palinsesto. Dopo lo sforzo muscolare di rottura dell’ordine costituito, entrati nelle abitudini quotidiane di un pubblico ampio, i servizi audiovisivi si stanno ora accorgendo che quelli che parevano vincoli da superare in realtà sono legati a bisogni, desideri e volontà profonde degli spettatori. Nella competizione sfrenata è utile (anche) tenersi strette quelle caratteristiche delle griglie di programmazione che risultano funzionali e utili rispetto alle modalità di fruizione, alle spinte creative e ai modelli di business. Spesso si tratta di criteri supplementari, che si aggiungono ad altri in direzioni opposte, lasciati lì a disposizione per gli utenti meno attivi e più nostalgici; ma sempre di inseguimento e di imitazione si tratta.

Ordine e flusso on demand

In primo luogo, dai palinsesti tradizionali le piattaforme on demand traggono un principio di ordine, di collocazione dei contenuti in sequenze pianificate e organizzate. Di fronte alla sovrabbondanza, alla disponibilità di library sempre più ricche e di un’ampia produzione originale, anche per il non lineare è utile ricorrere, in aggiunta o in alternativa alle proposte dell’algoritmo, a liste e gruppi in cui si possono presentare e organizzare i contenuti, non dissimili dal blocking della programmazione classica: la scelta di carattere editoriale o commerciale compone moduli omogenei, colloca i testi in categorie legate ai temi affrontati, al genere e alle sue sfumature, ai gusti del pubblico previsto. Certo si perde la dimensione di obbligo che aveva il blocco in palinsesto, ma resta il velato suggerimento di una disciplina consapevole e attivamente cercata dallo spettatore, di una fiducia verso chi organizza e propone i materiali. I sistemi di referenze, consigli e segnalazioni, in tutto o in parte automatici o esplicitamente “umani”, brandizzati e curati, aiutano a mettere in fila i titoli altrimenti dispersi di un deposito infinito, spesso inafferrabili per l’utente che non sappia già di preciso cosa vuole. In molti casi, come sperimentazione o creando “vetrine” esplicitate e promosse, alla libera fruizione del catalogo anche i servizi on demand maggiori aggiungono sempre più spesso alcuni canali lineari “artificiali”, realizzati con il solo scopo di consentire un’ulteriore via di accesso a film e serie che altrimenti rischierebbero di restare sepolti nell’offerta, e di aiutare nella scoperta chi ha poco tempo a disposizione o poca voglia di investirvi tempo ed energie.

Già uno dei motti usati da Netflix, “see what’s next”, “guarda cosa c’è dopo”, implica una sequenza successiva, una continuità, un flusso di visione, tipico quindi non solo della tv tradizionale ma pure dell’esperienza dell’utente on demand, meno libero e interattivo di quanto annunciato in promozione. Tante piccole scelte smussano i bordi e i confini che separano i singoli contenuti tra loro.

Una seconda dimensione in cui i servizi audiovisivi a richiesta cercano di riprodurre alcune dimensioni del broadcasting tradizionale è poi costituita dalla ri-creazione del flusso, o almeno di un’impressione, una sensazione per lo spettatore simile al fluire continuo e ininterrotto di contenuti disparati. L’esperienza creata dalle piattaforme on demand è infatti (anche) quella di una molteplicità di “vari tipi di flusso volti a interessare gli spettatori e a orientare il loro consumo” (Re, 2020: 88). Qui non è tanto il dettaglio delle singole operazioni (spesso molto differenti da quelle che regolano le reti lineari) che conta, ma l’effetto complessivo che si ottiene come loro risultato: “se non esistono due spettatori che hanno una stessa esperienza di flusso, guardare Netflix produce però un senso riconoscibile di flusso, spesso alimentato dall’abilità della piattaforma nel raccogliere dati sulle abitudini di visione e di generare raccomandazioni e menu personalizzati. Gli utenti costruiscono loro sequenze di fruizione, ma la piattaforma incoraggia specifici percorsi” (Johnson, 2018b: 10). Di fronte al rischio di perdere spettatori in una competizione sfrenata per il loro tempo e la loro attenzione, che sia contro il sonno o contro tutti gli altri fornitori di contenuti, informazioni e prodotti mediali, anche l’on demand cerca di fidelizzare l’ascolto, per tenere a lungo lo spettatore davanti allo schermo, per farlo tornare più volte possibile sulla piattaforma. 

Già uno dei motti usati da Netflix è molto significativo da questo punto di vista: “see what’s next”, “guarda cosa c’è dopo”, implica una sequenza successiva, una continuità, appunto un flusso di visione, tipico quindi non soltanto della tv tradizionale ma pure dell’esperienza dell’utente on demand, meno libero e interattivo di quanto annunciato nella promozione. Tante piccole scelte e possibilità contribuiscono a dare forma a questa sensazione, smussando i bordi e i confini che separano i singoli contenuti tra loro: il tasto che, se premuto, consente di saltare la sigla di testa dei programmi (skip intro) o il riassunto degli episodi passati (skip recap); l’eliminazione o la riduzione dei titoli di coda; il passaggio automatico, dopo pochi secondi, alla puntata successiva della stessa serie (a meno di azioni che lo blocchino, ma la prosecuzione è quella di default), non molto diverso in fondo dal back-to-back dei palinsesti lineari; la sovrapposizione di altre informazioni promozionali sugli stessi titoli di coda; le raccomandazioni, con un suggerimento secco o la proposta di più alternative, una volta terminata la visione integrale di un programma. 

L’autoplay del trailer per contenuti collocati in una posizione di rilievo nell’interfaccia o di qualsiasi blocco anche solo velocemente sfiorato dal cursore dell’utente rende dinamica anche la staticità della ricerca, generando un flusso video promozionale e contribuendo a confondere i confini dei testi, in ingresso e in uscita: la sequenza dei promo, in casi limite ma piuttosto frequenti, è persino l’intera, sola fruizione del servizio, quando si esce dalla piattaforma senza aver cominciato a vedere alcunché. La pubblicità si trasferisce nei contenuti, finendo per ibridare programmi e spot, mescolandone ancora di più i rispettivi statuti. Dopo un lungo periodo di inattività la piattaforma chiede conferma della presenza dello spettatore, ed eventualmente si spegne, ma l’intera esperienza è costruita per consentirgli (se lo vuole) di abbandonarsi allo scorrere di contenuti, intervallato ogni tanto da finte scelte volte a sancire le decisioni già prese dal servizio, in un piano inclinato. Il flusso è interno a un singolo programma, isolato (Perks, 2015; Jenner, 2018), ma è anche la linearizzazione dell’interfaccia e del database. L’invito a continuare a vedere spiega quanto sia preziosa, nell’economia dell’on demand, l’attenzione di lunga durata, idealmente perenne.

L’impatto del tempo

Una terza direttrice di inseguimento, infine, è data dal tentativo inesausto di ricostruire una temporalità, di evidenziare momenti specifici in questo flusso continuo e di scandire ritmi e sincronie di visione. Di fronte al caos della fruizione dove, quando e come si vuole, alla troppa libertà che rischia di diventare impegno gravoso, o addirittura un “blocco dello spettatore”, le piattaforme tornano a ipotizzare più di una forma di sincronizzazione, forte o debole, per costruire comunità di visione, per ricreare in provetta un meccanismo di pressione sociale, per sfuggire agli spoiler o, ben più temibile, all’indifferenza verso le nuove uscite. Netflix e gli altri servizi on demand che mettono a disposizione in un unico momento tutta la stagione dei loro titoli originali sembrano infatti “bruciare” di colpo l’hype nel corso di un solo weekend, con una release immediata che sostituisce il dipanarsi settimana dopo settimana e il crescere nei discorsi degli spettatori e dell’opinione pubblica, e devono così ricorrere ad altri “effetti speciali”. 

In primo luogo, proprio il weekend di uscita è cruciale: programmato con attenzione e cura, soppesando le necessità del contenuto e le richieste di tutti i mercati in cui è presente il servizio, dato che è sempre più frequente il day-and-date, l’uscita ovunque nello stesso giorno, in quasi contemporanea (restano infatti le differenze dovute ai fusi orari). Alcuni paesi sono più rilevanti degli altri, ci sono centri e periferie, ma ogni decisione porta comunque con sé altre scelte “a cascata”, successive e concatenate. Ed è su questo momento allora che convergono tutti gli sforzi promozionali, con potenti e costose azioni di marketing che creano attesa per il contenuto, cercano di spingere gli utenti al binge watching subito nei primi giorni di disponibilità, allineano e sincronizzano gli articoli dei critici e le discussioni dei fan. La rilevanza del primo weekend e la necessità di sincronizzazione sono confermate anche da operazioni eccezionali in cui le piattaforme “invadono” i palinsesti lineari per creare attesa: l’esempio italiano più rilevante è stata la colonizzazione della programmazione di Italia 1 da parte di Netflix, il 3 luglio 2019, con film e promo a tema Stranger Things in vista del lancio della terza stagione; ma alcuni programmi realizzati ad hoc e il progressivo intensificarsi della pubblicità svelano la rilevanza per l’on demand degli spazi e dei tempi lineari per allargare il pubblico, generando curiosità e abbonamenti. Con la release immediata si perdono ovviamente molte dimensioni del palinsesto, ma la natura differente del fine settimana, con un pubblico svincolato dai ritmi del lavoro e dello studio, o le differenze tra stagioni arrivano proprio da lì.

Di fronte al caos della fruizione dove, quando e come si vuole, alla troppa libertà che rischia di diventare impegno gravoso, un “blocco dello spettatore”, le piattaforme tornano a ipotizzare più di una forma di sincronizzazione, per costruire comunità di visione, ricreare in provetta un meccanismo di pressione sociale, sfuggire agli spoiler o, ben più temibile, all’indifferenza verso le nuove uscite.

Un’altra strategia di ri-temporalizzazione, poi, è il recupero dell’aggancio di alcune narrazioni ai ritmi del pubblico: da una parte, nell’eccezionalità di festività, ricorrenze e fenomeni stagionali che valgono ora in chiave globale, o almeno occidentale, ora su una dimensione nazionale e locale, con i film e gli special di Natale, i riferimenti al calendario civile nei documentari, nei programmi comici e nelle news, i periodi di vacanza su cui convergono le narrazioni, i finti count-down per anticipare il Capodanno ai bambini, le ore di legna che arde lentamente in un camino messi a disposizione durante l’inverno; dall’altra parte, con il recupero di abitudini e familiarità dal carattere più quotidiano e consueto. Se è vero che il non lineare allarga la possibilità di fruizione audiovisiva a temporalità prima meno battute, conquistando la notte e sbilanciando la visione su ore tarde (Tana et al., 2020), allo stesso tempo le vite personali e professionali di ogni utente continuano a imporre limiti rispetto al tempo e all’energia che si possono dedicare alle piattaforme. 

La disponibilità di strumenti che accelerano la visione, aumentando la velocità dei prodotti e riducendone il tempo, nel cosiddetto speed watching, non serve solo a consentire a chi lo vuole di fruire di un numero maggiore di titoli, ma può contribuire a inserire meglio una serie nei ritmi e negli obblighi della vita quotidiana. Il perfezionamento di funzionalità che consentono la visione e il commento di una serie o di un film entro gruppi privati e ridotti (group watch) provano anche a ricostruire una specie di pressione sociale simil-palinsestuale che porti alla risincronizzazione almeno nel caso di alcuni consumi pregiati. Di più, alcuni contenuti conservano una ritmicità settimanale, con episodi distribuiti in giorni e a orari fissi, in modo analogo ai palinsesti televisivi: in alcuni casi, si tratta di acquisizioni che in altri paesi vanno in onda sulla tv lineare, e quindi l’on demand è costretto ad adattarsi alla temporalità di uscita e preferisce centellinare il contenuto invece di farlo arrivare tutto insieme ma in ritardo; in altri casi, invece, si tratta di una decisione consapevole, legata ai generi time-sensitive, quali le interviste o gli approfondimenti seri o comici sull’attualità; in altri casi ancora, nella serialità, è un tentativo di tornare in sordina a narrazioni che si dispiegano lente, un tassello alla volta, lasciando al pubblico il tempo di formulare ipotesi e previsioni, di leggere analisi e discutere, di decantare e rivedere testi complessi, di centellinare il contenuto evitando il rischio che sparisca dai radar in poche ore o pochi giorni. 

Infine, anche solo per praticità e abitudine, le procedure del palinsesto ispirano le modalità di proposta al pubblico dei contenuti della piattaforma: non solo nelle vere e proprie griglie di programmazione dei servizi di ad-based video on demand collegati alle offerte lineari, ma anche nei prospetti preparati e condivisi da molti SVOD, a partire da Netflix e Amazon, per annunciare tutto ciò che sarà reso disponibile, tra acquisizioni e produzioni originali, nel mese successivo. Queste liste e infografiche diffuse sui social ricordano da vicino le paginate di programmi su giornali e riviste e cercano di dare all’abbonato una sensazione di valore e di abbondanza, o persino di trasmettergli quella fear of missing out (FOMO) tipica del digitale, la paura di perdere qualcosa, bisogno indotto che proprio l’on demand può placare – fino a quando almeno i contenuti restano sulla piattaforma; e la loro sparizione se si esauriscono i contratti di licenza è un altro di quei momenti in cui la temporalità reclama inevitabilmente il suo spazio.
Certo del palinsesto televisivo non rimane proprio tutto, nell’arena ribollente delle piattaforme digitali, ma il fondato sospetto è che le sue funzioni siano lì in qualche modo ricostruite, surrogate. Il salto dalla composizione delle griglie di programmazione all’accorta curation delle library digitali non è così ampio: ci sono professionisti, gli uomini e le donne dietro agli algoritmi, ci sono le playlist da costruire, ci sono le linee editoriali da seguire, ci sono i blocchi di contenuti e i tempi degli spettatori. Tutto ritorna.


Luca Barra

Coordinatore editoriale di Link. Idee per la televisione. È professore ordinario presso l’Università di Bologna, dove insegna televisione e media. Ha scritto i libri Risate in scatola (2012), Palinsesto (2015), La sitcom (2020) e La programmazione televisiva (2022), oltre a numerosi saggi in volumi e riviste.

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