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Fenomenologia di The Midnight Gospel (e affini)

Nella serialità di animazione, alcuni titoli raccontano senza nemmeno volerlo quello che succede nella progettualità e nella collaborazione, aspetti tipici delle industrie creative contemporanee.

Alla ricerca di curiosità mediali, sono incappato in un articolo di Vice di oltre un anno fa, firmato da River Donaghey, che citava un post su Instagram di Dan Harmon, sceneggiatore e co-ideatore (insieme a Justin Roiland) della fortunatissima serie animata Rick and Morty, creata nel 2016 per Adult Swim, poi resa nota da Netflix. L’articolo riportava, con foto del post, varie idee per la quinta stagione del cartone vergate al volo da Rob Schrab, illustratore, sceneggiatore e quant’altro, collaboratore di Harmon. Sobbalzo: nell’immagine risaltava un tavolo zeppo di post-it. Di cui Vice si premurava di mettere in ordine di importanza i contenuti, le singole idee: ultima classificata, per capirsi, “perline anali” (anal beads). Certo, il ricorso ai post-it (con pubblicazione istantanea su Instagram) sottolinea la casualità di costruzione tipica della serie: nella follia visionaria delle avventure narrate, la figura dell’onnipotente nonno Rick, genio assoluto di molteplici galassie, risparmia il problema di creare grosse coerenze fra gli episodi. Analogo scollegamento, accompagnato da visionarietà strampalata, che caratterizza altre serie animate cult, da Adventure Time (creata da Pendleton Ward nel 2010 per Hbo, in Italia su Cartoon Network) al filosofico The Midnight Gospel di Ward, sui testi del comico Duncan Trussell (su Netflix).

Quella dei post-it, però, per chi si occupa di design o di facilitazione è un’ossessione, che trasforma questo oggetto nel principe dei tool progettuali: strumento ideale per buttare giù idee velocemente, magari in anonimato; per confrontarle, organizzarle, strutturarle. Un elemento base per il brainstorming e la conduzione nei gruppi, attività centrali in una marea di pratiche contemporanee di collettività: che siano chiamati in causa settori diversi di un’azienda sospinti a obiettivi comuni, comunità alle prese con problematiche diffuse o istituzioni bisognose di politiche condivise. Per cui, a me che ho praticato questo mondo, vedere Rob Schrab sorridere felice dei suoi post-it non fa venire in mente l’idea di casualità, ma di causalità: questi quadratini adesivi sono un mezzo ideale per focalizzare le idee, declinarne e condividerne il senso, orchestrarle in sequenze e azioni. Uno strumento di progettazione tout court. Ma, allora, quest’idea di visionarietà, casualità, follia che Rick and Morty si porta dietro (e Adventure Time,  e ancor più The Midnight Gospel)? E la definizione di “psichedelico” affibbiata a questi cartoon?

Mettere in scena i post-it

Innanzitutto, con l’ultimo termine bisognerebbe andarci piano. Psichedelia significa sostanzialmente (dal greco antico) “manifestazione della coscienza”: come aggettivo fu usato per la prima volta nel 1956 dallo psichiatra Humphry Osmond in una lettera ad Aldous Huxley, autore di The Doors of Perception, a proposito di sostanze capaci di liberare il pensiero da convenzioni sociali. Manifesta la coscienza Rick and Morty? Magari no, ma certo apre porte su altri ipotetici mondi, assurdi e impensabili. Ed è visionario proprio nella misura in cui fa coincidere il processo di produzione con il prodotto, ovvero mostra, nel prodotto, il suo stesso farsi. Mettere in scena i post-it significa esporre lo strumento chiave per generare concept (poi declinabili in storyboard, sceneggiature e quant’altro). E, proprio come accade nel mondo del design, la fase di concept è pezzo fondante nella realizzazione di prodotti e servizi: i concept devono dare le visioni, cioè le prefigurazioni ipotetiche di mondi, relazioni, utilizzi, forme fisiche. Quest’atteggiamento non fa altro che rivendicare la centralità del processo rispetto all’artefatto finale. È il processo a garantire la qualità del prodotto: essenziale, per riportarlo a lidi cronachistici, a far sì che il made in Italy non sia solo un bollino appiccicabile, ma una precisa tutela della qualità diffusa sulla filiera produttiva.

Cruciali diventano allora sia l’articolazione delle fasi di passaggio nella produzione, sia le logiche di collaborazione che intervengono nel processo stesso. Sulla base di una metodologia che, come tale, risulta flessibile e adattabile, strategica e tattica a un tempo, nel prevedere le ipotesi future lasciando spazio a incidenti, occasioni, e mutamenti di rotta. A questo corrispondono alcuni elementi sintomatici di fondo, partendo da Adventure Time per arrivare a The Midnight Gospel e passando per Rick and Morty: elementi che rendono questi titoli efficaci metafore, o rappresentazioni, di un mutamento di stato della cultura contemporanea e della sua produzione. Una prima questione è la dimensione dialogica, ripresa da Michail Bachtin. Il filosofo russo ragiona sulla lingua pensandola come costellata di compresenze e contraddizioni: fra particolare e generale, passato e presente, detto e non detto. Eteroglossia, la chiama. Contesto, performance, prossimità diventano fondamentali per la costruzione di una comunità linguistica, magari transitoria. Così, la dialogica va in opposizione alla dialettica, basata su argomentazioni oggettive legate alla messa in opera di ipotesi, antitesi e sintesi. Platone e i suoi dialoghi contro Aristotele e i suoi sillogismi, per dire: e i Dialoghi rappresentano a tutti gli effetti un genere narrativo, che racconta invece di analizzare. Una metonimia continua: la figura retorica che associa significati in base alla contiguità spaziale, temporale o causale (il contenitore per il contenuto, la causa per l’effetto, la materia per l’oggetto), e che guarda caso Roland Barthes associò al cinema, segnatamente di Ėjzenštejn, per la sua capacità di procedere attraverso diversi piani di figurazione (i piani della ripresa cinematografica).

Le assonanze con i cartoni sono evidenti. Anche perché in essi si intravede un percorso di progressivo scollamento del parlato rispetto all’immagine. In Rick and Morty sono i commenti ossessionanti inerenti alle relazioni interne a una famiglia che ha qualche problema di connessione fra linguaggio e realtà, per una serie di deviazioni psicologiche di vario genere: la genialità egotica di Ricky, l’insicurezza di Morty, la difficoltà nel rapporto con la figura maschile della madre, l’ignavia del padre, il cinismo della sorella. Non a caso, in un episodio, Rick si trasforma in zucchina pur di non andare (con la famiglia) dalla psicologa; ovvero, proprio colei che alle parole dà un senso profondo (specie se con la suadente voce di Susan Sarandon). La parola dunque finisce per funzionare se non è più esplicativa. Il che ben si sposa con la costruzione dei mondi de-semantizzati di Rick and Morty. Tanto che alla fine gli stessi personaggi sono intercambiabili, visto che possono essere prelevati da diversi universi: il Morty in scena nelle serie recenti non è quello originale, ma è rilevato da un altro universo parallelo. Ovvero: i mondi possibili della semiotica narrativa sono impazziti. E la loro coerenza… opinabile.

Mondi impossibili

Quella dei mondi possibili, coerenti e non contraddittori, è una definizione che negli anni Novanta è stata ripresa a partire dalla semiotica generativa di Greimas (ma anche di quella interpretativa di Eco) per equiparare i modi della finzione letteraria a quelli della marca commerciale. Mondi che appunto devono essere coerenti e non contraddittori: se un personaggio muore, non può rinascere; se siamo nel Far West, non possono esserci gli alieni. La questione crolla miseramente nella dissennata e furbesca logica pluridimensionale dei tre cartoni. Che non si preoccupano certo di scrivere un nuovo trattato di leggi della fisica per ogni universo visitato, e in ogni episodio prodotto. Fra citazioni strampalate e trovate ironiche, tra giochi a incastri e permeabilità di mondi, gli assi canonici del racconto (quello verticale dei significati e quello orizzontale della narrazione) saltano per aria. La presenza di un deus ex machina che permette di balzare da una parte all’altra della galassia (?) fa sì che non ci sia bisogno di giustificazioni per affastellare mondi che sembrano nati da una chiacchierata iperbolica al bar (a chi la spara più grossa) tra due (o più) talentuosi autori. Che poi magari annotano le loro idee velocemente sul post-it, per fare prima e non prendersi impegni, né tirarsela tanto con citazioni parasurrealiste.

Di nuovo, lo straniamento è amplificato dallo scollamento fra immagine e testo. In fondo, Rick and Morty sono I Simpson (o forse meglio I Griffin) ma con un backstage delirante. So di rischiare la morte a opera dei fan della serie, ma mi serve esagerare la metafora… Sotto entrambi gli aspetti, The Midnight Gospel ha una marcia in più. Innanzitutto, nella sua genesi: la serie è scritta da Duncan Trussell, comico e podcaster. Trussel, con The Duncan Trussel Family Hour, sotto l’egida di un logo di perfetta citazione psichedelica ospita conversazioni sulla vita (stiamo arrivando alla numero quattrocento) di un’oretta con attori, scrittori, sportivi, santoni o quant’altro, frequentemente articolate, talora intime, talora profonde. Cioè: lo script di The Midnight Gospel, che a The Duncan Trussel Family Hour è ufficialmente ispirato. The Midnight Gospel è un podcast in cui due persone dialogano su un tema (e tali temi possono avere spessori e toni emotivi diversi, ma mai banali), con sotto immagini che scorrono in libertà, all’interno di mondi resi accessibili grazie al simulatore di universi di cui il protagonista Clancy si serve (fino a fonderlo).

In un episodio, Rick si trasforma in zucchina pur di non andare (con la famiglia) dalla psicologa; ovvero, proprio colei che alle parole dà un senso profondo (specie se con la suadente voce di Susan Sarandon). La parola dunque finisce per funzionare se non è più esplicativa. Alla fine gli stessi personaggi sono intercambiabili, visto che possono essere prelevati da diversi universi: il Morty in scena nelle serie recenti non è quello originale, ma è rilevato da un altro universo parallelo. Ovvero: i mondi possibili della semiotica narrativa sono impazziti. E la loro coerenza… opinabile.

Un podcast: l’essenza dell’approccio dialogico, ovvero del dialogo come strumento di confronto e conoscenza, versus la dialettica della argomentazione logica. Di nuovo, Platone vs Aristotele; ma anche oralità (primaria o secondaria) contro scrittura. Siamo in una dimensione sintetica e performativa, e non analitica e descrittiva. La dimensione del parlato si basa sui tempi della retorica, di forma (allitterazioni, rime) e contenuto (metafore, allegorie) e non sulla pianificazione dello spazio (del foglio scritto o stampato). La performance è unica (site specific?), anche se dall’invenzione del grammofono abbiamo la fortuna di poterla registrare e replicare, con sempre maggiore fedeltà.

Ma i dialoghi di The Midnight Gospel non hanno attinenza con ciò che le immagini mostrano. Intenzione psichedelica? Allargare la conoscenza nel dissociare parola da immagine? Magari! Anche perché è molto difficile concentrarsi sui testi (intriganti, talora davvero eccezionali) e seguire il flusso di un visual costellato di trovate di ogni genere e specie, tra il dissacrante e il poetico (c’è molto pop underground nello stile grafico). Certo qualche attinenza sembra esserci: se non altro perché traspare il tentativo di lanciare una marea di metafore visuali ove sia l’utente a cogliere eventuali assonanze, e a costruirsi il suo palinsesto di significati. Una forma di retorica verbo-visiva assai singolare, apparentemente distratta ma efficace. Forse ogni utente si fa il suo racconto, o meglio costruisce il proprio orizzonte di senso sulla base delle tracce disseminate (e magari a caso) nelle avventure di Clancy. Anche qui, il prodotto si mostra nel suo farsi, ovvero nell’uso che l’utente ne fa: la teoria del consumo produttivo (da parte degli utenti) di Giovanni Cesareo. Quindi, The Midnight Gospel non è più un prodotto, ma un progetto: che lascia decisamente spazio aperto a una vera e propria collaborazione da parte dell’utente. 

Dialogo e industria creativa

Qui emerge un secondo aspetto, che certo non è originalissimo, ma che a mio modesto avviso è ancora alla ricerca di metafore efficaci per raccontarsi. La prassi dialogica è quella tipica delle industrie creative, esemplificabile proprio con le loro miriadi di pareti variamente decorate negli ultimi decenni a suon di post-it, atte ad attività di design per comunità, team building, facilitazione, co-progettazione (e chi più ne ha più ne metta). Le industrie creative (parte di Icc, industrie culturali e creative) a differenza delle culturali producono servizi e non prodotti. In fondo musei, televisione, cinema, radio fanno prodotti da vendere. Designer, artisti, progettisti software invece disegnano servizi, insindacabilmente legati alla innovazione. Sono state l’ambito più coccolato del pianeta da dieci anni buoni: perché per il fenomeno detto spillover (innervamento) portano innovazione anche in altri comparti della produzione. E sono assai utili per rimettere in gioco le potenzialità di territori e comunità, specie in caso di crisi: tutta l’enfasi sulla resilienza nasce in fondo dal tentativo dei poteri di scaricare rigenerazione e innovazione sulle spalle di creativi e comunità. Senza investirci una lira, ovviamente.

Fra citazioni strampalate e trovate ironiche, fra giochi a incastri e permeabilità di mondi, gli assi canonici del racconto (quello verticale dei significati e quello orizzontale della narrazione) saltano per aria. La presenza di un deus ex machina che permette di balzare da una parte all’altra della galassia (?) fa sì che non ci sia bisogno di giustificazioni per affastellare mondi che sembrano nati da una chiacchierata iperbolica al bar (a chi la spara più grossa) tra due (o più) talentuosi autori.

Le industrie creative lavorano in termini dialogici. Tecnicamente, perché le idee vengono chiacchierando; ma anche perché il meccanismo del “what if”, “e se”, base della cultura del design thinking, ovvero del pensiero trasversale, è appunto legato a una dimensione dialogica e immaginifica. Poi, perché le industrie creative nascono da dialoghi a più voci: sono progetti, transitori, che iniziano e finiscono, per poi ripartire ma rimodellati. Intanto chi vi partecipa va a fare altre cose, a sviluppare altri progetti, poi torna oppure no. Ecco perché la metafora della rete, cavallo di battaglia del passaggio di millennio, non funziona più: la rete è rigida, fatta di maglie con nodi fissi. Questa di cui parliamo è una cloud, una nuvola, proprio come quella in cui stocchiamo i dati. Solo che si disperde davvero e si riforma, con altri addendi, laddove ce ne sia bisogno, agglutinando i diversi soggetti attorno a un progetto. Magari anche all’interno delle aziende o delle istituzioni, perché quelle più intelligenti hanno capito che conviene sviluppare progetti (magari transitori) avvalendosi esclusivamente di professionalità efficaci, e maturando l’abilità di intercettarle. Più o meno quello che viene definito employer branding. Ora: non so se siamo entrati in un’altra era. Se essa sia dilatata temporalmente come quelle di McLuhan, o rappresentata da una logica generazionale x y z. Ma certo queste serie animate sono decisamente metaforiche, nei confronti della logiche di costruzione e produzione di senso contemporanee. Tanto forse da spaesarci, perché palesano prassi che non siamo molto disposti a condividere.


Carlo Branzaglia

Si occupa di design education e design strategico. Insegna all’Accademia di Belle Arti di Bologna. È coordinatore scientifico della Scuola Postgraduate dell’Istituto Europeo di Design di Milano. Siede nel Consiglio di Amministrazione della Fondazione ADI Collezione Compasso d’Oro e nel Comitato Scientifico della Fondazione Cirulli.

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