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F come fake news

Tutti oggi parlano di fake news e delle conseguenze dell’intreccio da districare tra informazione, politica e intrattenimento. Ma la storia è molto più lunga…

“La Marcuzzi è stata mandata via dall’Isola!”

“Ma non è vero, figurati”

“Ma c’è scritto qui”

“Ma possibile che non abbia letto nulla… Aspetta, come si chiama il sito?”

“www.corrieredellaseraquotidiano.it”

“È un sito falso, che imita il Corriere

“Ah… ma se lo dicono qualcosa di vero c’è, altrimenti non lo direbbero!”.

Sostituite Alessia Marcuzzi con qualsiasi altro argomento davvero rilevante (i migranti, per dire), ed eccola qui, la nostra era comunicativa. Anche perché molte bufale non arrivano certo solo dai siti subdolamente falsi. La scena si ripete spesso a tavola quando sono dai miei genitori. Mi viene mostrato un video/meme/notizia inviato via Facebook, e mi tocca smentire tutto con un’analisi del montaggio, delle fonti, del linguaggio. Una volta la generazione prima della mia doveva solo stare attenta che i genitori non prendessero le medicine sbagliate e non guardassero troppa tv, adesso a me tocca fare attenzione a un avvelenamento mediale sproporzionato. Il fatto è i video/meme/notizia assomigliano tanto a quelle notizie enfatiche, aggressive e persino umoristiche viste in tante trasmissioni, sui giornali, sui siti web ufficiali. È difficile distinguere una semplice manipolazione stilistica da una preoccupante manipolazione del contenuto. E anche la generazione dei giovani è confusa. Ero a lezione, ai miei studenti spiegavo il panorama mediale distorto in cui siamo immersi. Ho scelto un caso, uno dei tanti scandali poi smentiti dal tempo e dai fatti. Uno di loro ha alzato la mano e mi ha confessato: “Sa prof però io ci ho creduto. L’inviato era così coinvolto e partecipe!”. Già, l’emozione.

Un modo per intrattenere è puntare al cuore e non solo alla testa. La notizia deve essere presentata in maniera da suscitare l’emozione dello spettatore. La realtà comincia a trasfigurarsi un po’, perché quel che accade con tutte le sue sfumature pare essere meno importante rispetto alla narrazione a effetto che se ne può trarre. E quando il cuore non basta si punta alla pancia.

Potrei elencare la dieta mediale dei miei genitori, interlocutori e studenti. Potrei dimostrarvi che sono tutte persone che si informano anche come “una volta”. Che leggono giornali, hanno studiato, hanno esperienza di mondo. Ma pure io sono confusa! Tutte le volte che dall’altra parte qualcuno mi chiede conferma di una “notizia”, ho qualche dubbio. Non più solo per deformazione professionale. Anche se assurda quella “notizia” infatti sembra sempre vera o verosimile, o meglio: è detta, scritta, riportata in maniera più che plausibile, con un linguaggio informativo mainstream. Ho il dubbio che quella cosa possa essere vera, e che non lo sappia perché è umanamente impossibile monitorare tutto quanto. Non solo: quante notizie sono state date in questi mesi da testate blasonate e si sono rivelate mezze verità, per non dire del tutto fake?

Qualcuno dà la colpa solo a internet, ai social, a Mark Zuckerberg. Qualcuno dice che ormai è tutto propaganda, e in fondo le elezioni si vincono con l’inganno da sempre. Qualcuno dà la colpa solo ai giornalisti in quanto “tutti venduti” o tutti attenti solo allo share o ai clic o al successo, mica alla verità. Tutte posizioni bipolari. E che prendono sempre in considerazione solo un mezzo di comunicazione, e non il panorama mediale totale in cui siamo immersi: televisione, talk show, giornali, contenitori di news e varietà, giornali di carta, siti web di testate riconosciute e di testate nuove, social nuovi e vecchi, meme e tweet. La questione è più ingarbugliata, e si lega a un mutamento complessivo dell’informazione che ha diverse concause e tocca numerose questioni (economiche, tecnologiche, fruitive). Un mutamento dell’informazione che ne ha cambiato il linguaggio, i fini e forse persino il genere.

Quella che segue allora è una mappa per temi che prova a dar conto degli slittamenti avvenuti nel panorama informativo. Un tentativo di fare un po’ di ordine, nel caos.

Ibridazioni

Negli anni Ottanta l’ibridazione dei generi coinvolge tutte le forme spettacolari. Prima negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo, l’informazione inizia a fare proprie le tecniche derivate dall’intrattenimento, un processo visibile tanto nei giornali quanto con più evidenza in televisione, per via di un’intensificazione delle strategie delle reti commerciali. Nasce l’infotainment: la notizia è un prodotto utile nella lotta degli ascolti, utilizza forme tipiche dell’intrattenimento per rendersi più appetibile, si arricchisce di modalità narrative rubate alla fiction, fa uso di musiche a effetto e grafiche ad hoc, cerca forme espositive riprese dal varietà. Il giornalista non solo porge la notizia, ma deve saperla rappresentare, diventa quasi uno showman. La contaminazione avviene a vari livelli: in uno stesso programma possono alternarsi generi diversi (cronaca nera, spettacoli, esteri) o forme “alte” e “basse” di giornalismo (la politica con il gossip, la cronaca nera con quella rosa). L’importante non è più (solo) informare, gli obiettivi diventano altri.

Emozionare e indignare

Un modo per intrattenere è puntare al cuore e non solo alla testa. La notizia deve essere presentata in maniera da suscitare l’emozione dello spettatore. La realtà comincia a trasfigurarsi un po’, perché quel che accade con tutte le sue sfumature pare essere meno importante rispetto alla narrazione a effetto che se ne può trarre. E quando il cuore non basta si punta alla pancia. Rabbia e indignazione sono emozioni più forti di empatia e commozione. Lo stile si fa enfatico, eccessivo, da tabloid. Intendiamoci: non che prima rendere efficace narrativamente una notizia, coinvolgere lo spettatore, denunciare abusi e maltolti non fossero cose importanti, ma adesso questi elementi diventano predominanti. Due le conseguenze. La prima: la notizia mi deve colpire, non rendere consapevole. Se mi colpisce, mi sarà impressa anche quando scoprirò che è falsa. Ormai fa parte di me. Seconda conseguenza: se lo scopo è emozionare e indignare, questo lo sanno far bene non solo i giornalisti ma anche i conduttori senza tesserino. L’informazione con queste caratteristiche non è più appannaggio dei soli giornalisti.

Divertire ed esagerare

Se l’informazione è un genere come gli altri, può ibridarsi con altre forme spettacolari. Il varietà per esempio, e in particolar modo il varietà comico. Nasce Striscia la notizia. Nascono Le Iene. Non è satira. È altro. È la notizia raccontata con un tono sopra le righe. Non che alcune denunce non siano sensate, ma il pubblico impara ad assorbirle con la tipica lente deformante del comico. L’inviato è il Gabibbo: dice le sue verità con tono esagerato, come dovrebbe fare un pupazzo no? Un pupazzo non può essere moderato. Neanche un comico lo è, e il comico ormai apre i talk show. Il comico non è moderato, mai, soprattutto se sostiene di rivelarci verità scomode, come Grillo nei suoi spettacoli o poi nel suo blog o nei suo VaffaDay (e il resto è Storia). Di fronte a questo ribaltamento linguistico, a questa esagerazione dei toni, il giornalista si adegua: pensiamo a La Zanzara. Lo scivolamento tra generi è totale: la notizia diventa espediente comico. Non si parte più da un fatto per metterlo in burla, fare satira, strappare una risata. In quel caso i confini ci sono ancora. Si pensi a Cuore: prendeva il giornalismo serio, lo imitava e lo storpiava. Adesso non è più possibile, come ha scritto anni fa Michele Serra: “Molto del piacere di fare Cuore, e forse anche di leggerlo, andò scemando man mano che l’informazione paludata cominciava a perdere il suo aplomb, a usare un linguaggio più veloce e corrivo […]. A partire dagli anni Novanta […] titoli aggressivi, oppure con velleità spiritose, fioccavano nelle edicole. Al tempo stresso, autori satirici di primo piano facevano il loro ingresso nei quotidiani e nei settimanali”. Oggi abbiamo Lercio.it, parodia dei giornali che pare vera, e allo stesso tempo Ah ma non è Lercio, segnalazione di notizie che paiono parodie: il confine tra informazione e comicità esiste ancora?

Politica pop

Se gli uomini di varietà rubano il lavoro ai giornalisti, se i giornalisti rubano il lavoro agli uomini di varietà, i politici beh… rubano a entrambi! In questo clima di infotainment spinto nasce infatti la politica pop, come scrivevano nel lontano 2008 Gianpietro Mazzoleni e Anna Sfardini: “Quando la televisione ha scoperto che la politica può fare audience, e i politici hanno capito di poter raggiungere il vasto pubblico adattandosi alle logiche dello spettacolo, è nata la politica pop: un ‘ambiente mediale’ scaturito dal collasso di generi televisivi e costumi sociali invecchiati, in cui politica e cultura popolare, informazione e intrattenimento, comico e serio, reale e surreale si fondono in una nuova miscela espressiva. Per molti è una pericolosa deviazione dal compito ‘alto’ della formazione di un’opinione pubblica avveduta. Per altri, come alcuni autorevoli studiosi, l’infotainment offre un’informazione minima, ma sufficiente a una ‘cittadinanza sottile’”. È politica del frammento, dell’esserci, dell’occupare spazio/tempo, del purché se ne parli. Berlusconi che spolvera la sedia di Travaglio, Grillo che arriva a nuoto in Sicilia, Renzi con la giacca di pelle di Fonzie, Salvini con le felpe, Fico che prende l’autobus, Trump che fa Trump… Non serve solo la politica pop per vincere, certo, ma ormai è parte integrante del sistema. I media che una volta cercavano di piegare al loro linguaggio la politica si trovano adesso di fronte a una politica che li domina. Il giornalista non è più arbitro ma capocomico di una recita a soggetto con ruoli da commedia dell’arte sempre più definiti. Talvolta finisce per essere del tutto sopraffatto da mattatori ormai allenatissimi, spavaldi, istrionici.

Dai fatti alle opinioni

Se conta emozionare, indignare, divertire, esagerare, contano ancora i fatti? Meglio forse le opinioni, che diventano notizie. Ogni giornalista ha la sua visione, ci mancherebbe, che ne determina però ormai anche la “maschera” da talk, cioè il ruolo ideologico che si riveste e che si deve mettere in scena ogni volta. Se bisogna spettacolarizzare, conviene anche semplificare: piacciono le formule bipolari, ogni fatto è visto da destra o da sinistra, pro o contro, come se dovesse sempre avere ogni evento una doppia e opposta verità. È successo anche con la scienza: vaccinisti e antivaccinisti finiscono per essere uguali. In questa dinamica che porta alla scomparsa dei fatti o alla loro opinabilità sempre e comunque, si inseriscono poi i social, che da luogo di confronto si sono trasformati in spazio di scontro. Le bolle informative, in cui opinioni simili si richiamano e rafforzano, rendono difficile l’apertura a un pensiero diverso. La bolla non è solo social, intendiamoci. Viviamo in un mondo pieno zeppo di possibilità, ma alla fine ascoltiamo lo stesso tg, leggiamo gli stessi giornali, vediamo gli stessi talk. Ognuno dei quali porta avanti una propria narrazione. Molteplici possibilità informative non sempre significano vero pluralismo: troppa scelta significa anche troppa fatica per lo spettatore.

Se conta emozionare, indignare, divertire, esagerare, contano ancora i fatti? Meglio forse le opinioni, che diventano notizie. Ogni giornalista ha la sua visione, ci mancherebbe, che ne determina però ormai anche la “maschera” da talk, cioè il ruolo ideologico che si riveste e che si deve mettere in scena ogni volta. Se bisogna spettacolarizzare, conviene anche semplificare.

Tempo e denaro

I soldi sono pochi, il tempo da riempire è tanto. C’è la tv con le sue ore e ore. C’è il talk che va spalmato su tutta la serata. C’è il sito web che va aggiornato sempre. Ci sono i social che rilanciano qualsiasi cosa a qualsiasi ora. Vince la quantità sulla qualità. Un’inondazione informativa che crea un perenne rumore di fondo. Le notizie nascono, vivono e muoiono in una giornata. È vittoria anche delle opinioni, ancora una volta, che sono sempre di più dei fatti accaduti, e dunque aiutano a riempire il vuoto. Il flusso televisivo, il flusso delle timeline, il flusso dei siti informativi: non c’è più gerarchia. Uno vale uno. I giornali devono aumentare le copie, i talk devono aver pubblico, i siti devono fare clic. Il problema è che a causa delle dinamiche descritte sopra contano parametri sempre più commerciali stile “colpo grosso”. Politici, giornalisti e opinionisti iniziano a valere solo in termini di share e clic e copie e non per quello che dicono e per il ruolo reale che rivestono. Funzionano, e basta. Se non funzionano, non hanno diritto a un video perché non richiamerebbero l’attenzione e non porterebbero clic, pagine viste, occhi sulle pubblicità, sui video promozionali e sui banner laterali. E se il politico inizia a capire di essere indispensabile, può imporre regole stringenti. Certo, i politici han sempre cercato condizioni favorevoli, ma se adesso sono showman vanno trattati con tutti i riguardi, assicurando loro per esempio uno spazio senza contraddittorio. Bisogna dir di sì, dicono alcuni, altrimenti non li avrai più come ospiti. Anche perché il politico oggi ha in parte meno bisogno dei media tradizionali grazie al web.

Disintermediazione

A un certo punto i social media sono diventati le nuove agenzie, i nuovi comunicati, le nuove conferenze stampa. A un certo punto un tweet, uno status, un like sono diventati notizia. A un certo punto il trending topic è diventata la voce del paese, il sondaggio plausibile, l’opinione pubblica. Senza riscontri, senza verifiche, senza parametri. Il meccanismo è doppio. Qualche tweet entra in circolo, vero o falso non importa, ed è rilanciato da blog, giornali, tv. Un cinguettio entra nell’agenda, anzi diventa l’agenda. I politici hanno fatto buon uso di questo meccanismo, così non serve più indire conferenze stampa, fare comunicati, confrontarsi con i giornalisti. I media utilizzano quegli stessi tweet, spesso già enfatici, d’effetto, forti e quindi già titoli perfetti. Così però il rischio megafono è costante. Tanto più ora che anche foto e video, con la loro potenza, sono fornite costantemente dal politico ai media (sempre più poveri di mezzi e risorse, e quindi più golosi di materiale fresco, gratis, facile). Ecco così le dirette Facebook dei politici che si fanno flusso sul web e in Tv. D’altra parte ormai i social sono stati colonizzati dalla propaganda politica, non sono certo una fonte attendibile.

Il risultato: il caos

Non è più questione di verità e bugie. Nella comunicazione informativa e politica attuale anche dimostrare scientificamente la falsità di alcune posizioni non conta più. Se la confusione è continua e totale, quello che finisco per credere è che tutti mentano, in un modo o nell’altro. Non c’è più autorità che tenga, o quasi. Il caos è la finalità ultima. E serve. Ecco perché vincono le fake news. Possono essere generate per fare soldi, per propaganda sotterranea, per errore voluto o subìto dai media ormai travolti dai meccanismi sopra descritti. In tutti questi casi, le fake news sono maledettamente uguali nei toni, nei modi e nel linguaggio alle notizie “vere”. In più, è bastato poco perché gli stessi politici iniziassero a bollare come fake ogni notizia a loro contraria.

Ecco perché prospera il microtargeting elettorale. Si selezionano via via gruppi con gusti comuni grazie all’uso più o meno lecito dei dati condivisi sui social, e si crea per quei gruppi una comunicazione ad hoc. E questo spesso significa spot elettorali travestiti da notizie o notizie false che devono sedimentare credenze condivise. Una bolla social non sa cosa vede l’altra, così è difficile sapere chi viene colpito e da cosa. Ecco perché il giornale schierato o di partito pare una cosa antica, di fronte alle possibili forme sempre più spinte di contenuto politicamente sponsorizzato indistinguibili da altre pagine web. Secondo quanto riportato dal Guardian nei giorni dello scandalo di Cambridge Analytica, lo spot più efficace prodotto dall’agenzia per Trump è stato un native advertising su Politico: “Ten inconvenient truths about the Clinton Foundation”. Nonostante il disclaimer iniziale, sembrava un articolo come un altro, e invece è stato creato dal team del sito dedicato ai contenuti sponsorizzati. Certo, anche Clinton ha usato questa opportunità, si vede con meno successo. Il punto però è un altro: informazione e spot politico sono diventati indistinguibili a livello formale e di contenuto?

Alcuni dei processi descritti sono nati negli anni Ottanta, per poi iniziare la loro corsa frenetica dagli anni Novanta. Da sempre media e politica spesso si specchiano, si rilanciano e influenzano a vicenda, perché figli della stessa epoca. E così, un certo giornalismo pop richiama una certa politica pop, con campioni come Silvio Berlusconi e Barack Obama. Allo stesso tempo però negli ultimi cinque anni qualcosa è cambiato, sia per l’emergere di forze nuove sia per l’uso massiccio dei social. E così c’è da chiedersi se certo giornalismo, per tutti i motivi esposti prima, non abbia aperto la strada a un certo populismo politico, poiché ha creato un comune linguaggio: emotività, indignazione, effetto tabloid, rumore di fondo… Allo stesso tempo, viceversa, ci sono politici e movimenti che più di altri hanno saputo cavalcare questo tipo di informazione, piegandola progressivamente solo ai loro bisogni. Vien da chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina. Così anche quando l’informazione prova a mettere un freno a tale politica, spesso non ci riesce perché resta schiacciata da un meccanismo formale, tecnologico, retorico che le è proprio. Anche prendendo posizioni opposte a quelle populiste, si avvantaggia il frame narrativo del politico.

Che fare?

L’opposizione a questo populismo, invocata da tanti media, pare così non essere solo una questione di un partito, ma della stessa informazione. È possibile trovare un nuovo linguaggio informativo capace di avere forza, indipendenza, autorevolezza, senza tornare agli anni Cinquanta? Il processo, se possibile, sarà lungo, lunghissimo. Nel frattempo per fortuna c’è la finzione, quella vera, a spiegarci la realtà. In questo caos, mi consolo guardando The Good Fight: l’avvocato Diane non sa più se quello che vede in tv è vero o falso. Sarà perché ha preso qualche sostanza stupefacente, o perché è plausibile che Trump adotti un maiale? Diane per fortuna ci indica la via: mettere in campo la professionalità per difendersi dal caos. Ah, ecco la nuova battaglia! Ok, ok, ok sto esagerando e idealizzando. Ma di fronte all’ennesimo sms di mia zia che mi chiede conferma della notizia degli immigrati che vogliono massaggi benessere, di fronte al meme condiviso da un mio amico su una scienziata italiana vessata dalle case farmaceutiche perché ha scoperto la cura al cancro, di fronte al talk che mette sullo stesso piano neo-fascisti e Croce Rossa, mi rifugio nella rassicurante finzione, così chiara e cristallina nell’indicare la via.


Stefania Carini

Si occupa di cultura, media e brand. Collabora con il Post, la Radio Svizzera Italiana, il Corriere della Sera. Ha realizzato podcast (Da Vermicino in poi per il Post) e documentari per la tv (Televisori, Galassia Nerd, L’Italia di Carlo Vanzina). Ha scritto Il testo espanso (Vita e Pensiero, 2009), I misteri de Les Revenants (Sperling&Kupfer, 2015), Ogni canzone mi parla di te (Rizzoli, 2018), Le ragazze di Mister Jo (Mondadori, 2022). Il suo ultimo libro è Il coraggio di Oscar (Mondadori, 2024).

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