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Francia

Tentativi di rivoluzione francese

Tra i grandi mercati, la Francia è un caso a parte. Dove il finanziamento pubblico è elevato da tempo, e da qualche anno l’export cresce. Ma è sufficiente?

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 21 - Distretti produttivi emergenti del 05 giugno 2017

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Le esportazioni delle opere audiovisive francesi, film, fiction e programmi tv, dal 2009 sono in crescita. Le vendite all’estero sono passate dai 100 milioni di euro del 2009 ai 160 milioni del 2015, con un aumento considerevole. L’export della fiction, in particolare, ha superato, sia nel 2014 sia nel 2015, la quantità di esportazioni del genere documentario: una crescita eccezionale ne ha portato il valore a 40 milioni di euro annui, partendo dalla media di 30 milioni dei sei anni precedenti. In questo quadro, poi, l’animazione costituisce un terzo del totale esportato.

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Quindi le cifre segnalano una crescita, forse ancora debole in valore assoluto (in fondo l’export annuo della fiction, compreso tra i 30 e i 40 milioni di euro, nel complesso equivale al budget di due grandi produzioni cinematografiche), ma comunque molto importante. Certo il Regno Unito, nel suo ruolo di mercato capofila, esporta almeno dieci volte tanto per quanto riguarda gli show (con 1,2 miliardi di sterline) e dodici volte tanto per la fiction. Ma anche la Francia si impone.

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Anche se si guarda ai budget delle produzioni, si conferma un aumento contenuto ma rilevante. In uno studio che ha analizzato le 27.000 commissioni o preacquisti di programmi televisivi e film fatti dalle reti televisive francesi in nove anni (tra il 2007 e il 2015), emerge come gli investimenti per la produzione tv ammontino ormai a 1,7 miliardi di euro (circa 180 milioni per ogni anno) e quelli per la fiction a 6,2 miliardi di euro (con una media di 680 milioni all’anno). Questo mentre i documentari, che si esportano all’incirca quanto la fiction, costano la metà. E mentre il cinema ogni anno riceve più del doppio dei finanziamenti pubblici rispetto a quelli raccolti dalla fiction.

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In altri termini, il rapporto tra esportazioni e costi di produzione è circa al 40% per l’animazione e ancora soltanto al 5% per la fiction originale francese. Lo stesso studio mostra inoltre come la televisione finanzia direttamente o indirettamente (attraverso una tassa di sostegno al settore chiamata COSIP) più dell’80% delle fiction, il 70% dei documentari e il 43% dell’animazione (che ottiene invece il 26% dei suoi ricavi dall’esportazione).

Le ragioni storiche di uno squilibrio

Per capire meglio le ragioni e la permanenza di questi rapporti di forza, è utile tornare al modello normativo e industriale che si è creato negli anni Ottanta, in seguito alla liberalizzazione del mercato tv francese. Il monopolio della televisione pubblica, durato fino al 1984, è stato rotto – fatto unico al mondo – anche dalla concessione di frequenze a un canale privato a pagamento, Canal+. E questa decisione ha avuto importanti conseguenze sull’intero sistema produttivo.

La prima conseguenza è stata di aver consentito lo sviluppo, grazie alla diffusione analogica e alla grande differenza rispetto al servizio pubblico, di un mercato stabile della pay tv, cosa che gli altri Paesi europei dove le frequenze analogiche sono lasciate ai privati in chiaro dovranno attendere l’inizio degli anni Novanta e la diffusione del satellite per sviluppare un mercato vero e proprio. La seconda conseguenza invece è stata di aver istituito un regime di concessioni pubbliche con cui lo Stato fornisce una risorsa rara (lo spettro delle frequenze) e autorizzazioni esclusive (come quella a trasmettere i film un anno dopo l’uscita in sala, o a mandare in onda ogni settimana un film pornografico) in cambio di un reinvestimento obbligatorio dell’11% dei ricavi del canale nell’industria della produzione audiovisiva. Il successo di Canal+ porta quindi alla nascita di una generazione di artisti e produttori che regalano al cinema francese forte visibilità internazionale; e il settore audiovisivo è debitore allo Stato per la creazione di questo secondo mercato.

Questo modello, che ha fornito una spinta propulsiva importante, è stato poi esteso in seguito anche alle concessioni di frequenze in chiaro, a loro volta oggetto di assegnazioni discrezionali e pressoché gratuite, in cambio però di quote di trasmissione di opere audiovisive francesi e di obblighi di finanziamento al settore, poi estesi infine anche alla televisione pubblica.

Con lo sviluppo del settore televisivo, però, questo assetto ha portato a lasciare un grande potere in mano alla lobby dei produttori, che ha fatto pressione per lasciare un tasso molto alto alla produzione indipendente, sia cinematografica sia televisiva. All’inizio degli anni Duemila, così, il 75% del totale degli obblighi di legge riguarda opere di produzione indipendente, rispetto alle quali però i gruppi televisivi possono accedere solo al 25% dei diritti. Facendo le somme, i canali tv che finanziano l’80% della fiction non possono detenere più del 30% dei diritti.

In un primo tempo, un simile sistema, che protegge il mercato e l’industria audiovisiva nazionale, è stato molto virtuoso. Sono nate centinaia di società di produzione, a formare lo zoccolo duro di un’attività creativa durevole. Con il passare degli anni, però, gli obblighi imposti a Canal+ e alle altre reti tv hanno orientato la produzione sul solo versante cinematografico, potenzialmente esportabile, dal momento che per le fiction è obbligatoria solo la diffusione nel mercato francese. Non possedendo altri diritti di sfruttamento oltre alla semplice messa in onda tv, infatti, ogni canale ha solo l’obiettivo di massimizzare l’ascolto di questi contenuti nello scenario nazionale. E il risultato è che non c’è interesse da parte dei broadcaster né a esportare la fiction né a valorizzare adeguatamente le grandi quantità di prodotto televisivo “di flusso”, come i programmi di daytime.

Le vendite all’estero sono passate dai 100 milioni di euro del 2009 ai 160 milioni del 2015, con un aumento considerevole. L’export della fiction ha superato la quantità di esportazioni del documentario: una crescita eccezionale ne ha portato il valore a 40 milioni di euro annui.

La rivoluzione che passa dalle serie tv e dal non lineare

Nel frattempo, a cambiare lo scenario sono intervenute la moltiplicazione dei canali digitali, in chiaro e a pagamento, e la nascita delle piattaforme on demand, che oltre a consentire la circolazione di una vasta offerta di contenuti seriali di tutti i tipi, stanno progressivamente modificando e delimitando i meccanismi normativi e gli automatismi produttivi nazionali. Basti pensare a quanto lo sviluppo della cable americana ha incoraggiato una produzione televisiva in cui la creatività si combina all’efficacia distributiva, arrivando a superare il cinema.

La libera scelta dei tempi di visione sostituisce l’abitudine di lasciare alle reti il compito di programmare le serate, e finisce per privilegiare alcuni tipi di narrazione televisiva a elevata fidelizzazione. L’audience televisiva invecchia, fino a raggiungere in media i 60 anni sulle reti generaliste, mentre il pubblico più giovane cerca le serie tv on demand, anche piratate. E tutto questo avviene mentre la normativa francese continua ancora a incoraggiare, o a costringere, la pay tv a fare film sempre meno visti e la tv free a produrre fiction per pubblico anziano e nazionale.

Intanto, grazie agli obblighi di finanziamento dei canali tv, i grossi produttori hanno messo da parte fondi consistenti e accresciuto sensibilmente il loro spazio sul mercato: dal 2011, 21 società, il 7% dei produttori di fiction, concentrano il 60% delle commissioni. L’ecosistema si razionalizza e si riduce a una ventina di case produttrici di fiction e una trentina di cinema. E questi produttori sono invogliati a sviluppare, con o senza l’appoggio delle tv, prodotti maggiormente esportabili.

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Purtroppo però mancano ancora incentivi reali per le reti tv, che faticano a ottenere cambiamenti normativi che offrirebbero loro una migliore ripartizione dei ricavi (per esempio, spostando gli obblighi dai film alle serie tv o agevolandone il mantenimento dei diritti tv). A ragion veduta, infatti, quei grandi produttori che traggono i maggiori benefici dal sistema vigente impediscono ogni riforma. Ma l’invecchiamento delle audience e le difficoltà di accesso e gestione dei diritti finiscono per esporre i canali nazionali alla concorrenza mortale delle piattaforme globali. E allora la negoziazione delle norme che andranno a imporre ai servizi non lineari degli obblighi in deroga al principio europeo del Paese di origine, così da consentire di imporre ai distributori audiovisivi le leggi del paese di destinazione, può diventare l’occasione per modernizzare l’intero sistema francese, e stimolare ulteriormente sia la produzione sia le esportazioni. L’aumento già in atto dell’export francese nel settore della fiction e dei programmi televisivi resterà infatti ancora troppo fragile fino a quando il vecchio sistema di regole e obblighi non sarà riformato.


Olivier Bomsel

È professore di economia industriale a MINES ParisTech, dove dal 2009 dirige il centro di ricerca sull'economia dei media e dei brand. Si occupa di reti digitali, di proprietà intellettuale, di mezzi di comunicazione e ha condotto un'importante ricerca sull'approdo di Netflix nel mercato francese.

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