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Sono gli algoritmi o gli umani a scegliere la musica per noi?

Nascosta tra le pieghe della nuova industria musicale, c’è la figura del curatore che per le piattaforme mette assieme e aggiorna le playlist. Costruendo, tra dati, competenze e sentimento, il successo di canzoni e artisti.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 27 - Music Biz. Come reinventare un mercato del 26 ottobre 2021

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Siamo all’undicesimo piano di un edificio dell’Ottava Avenue, a New York. La stanza è un open space, piena di computer, distributori di acqua e giovani sotto i trent’anni con le cuffie. È la sede di Google Play Music (da ottobre 2020 diventata YouTube Music), uno dei servizi di streaming globali che stanno sostituendo i media tradizionali per l’ascolto della musica. A New York c’è anche una delle sedi di Spotify, l’azienda multinazionale con più utenti del settore. Si accede attraversando una porta girevole verde, che fa da interfaccia tra i rumori del traffico di una tipica strada di Manhattan e la musica techno diffusa da minuscoli altoparlanti all’interno della stanza iperminimalista che fa da reception. Una volta entrati, si apre di fronte a noi un enorme open space, con giovani ventenni ognuno davanti al suo schermo, ognuno con le cuffie in testa. Sono i curatori delle playlist di Spotify, coloro che selezionano e filtrano le nuove uscite musicali che meritano di essere messe in evidenza sulla piattaforma. La sede di Spotify assomiglia incredibilmente all’immagine stereotipata di una start up, ormai resa popolare da stampa, cinema e romanzi: ragazzi che sfrecciano in skate, spazi di gioco, open bar con cibo e bevande gratis on demand, graffiti alle pareti, immacolati schermi bianchi della Apple, divani colorati, enormi scritte alle pareti in carattere Helvetica, terrazzi dove stendersi a prendere il sole e bere aranciata. 

È quello che mostra un video girato da una giornalista di BuzzfeedI create Spotify playlists for a living – ed è l’unico video disponibile su YouTube in cui si mostra l’interno della sede di una di queste aziende. A parte questo video, che rappresenta un’eccezione, quello che accade tra le pareti di questi open space è completamente invisibile agli ascoltatori, ma anche ai musicisti e alle case discografiche.

Eppure, questi open space rappresentano i luoghi dove sono prese le decisioni che porteranno la musica nelle nostre orecchie. Vi siete mai chiesti da dove arriva la musica che finisce nelle vostre cuffie? E come mai ci finisce un certo tipo di musica e non un altro? Quali sono i luoghi e gli attori che decidono cosa dovremmo ascoltare nei prossimi mesi? Un tempo queste decisioni erano prese negli uffici delle case discografiche, nelle stanze delle grandi stazioni radiofoniche nazionali, o nelle redazioni dei giornali dove qualche esperto scriveva una recensione di un album. Oggi, accanto a questi luoghi, dobbiamo considerare anche gli open space che abbiamo appena descritto.

Quando si pensa a Spotify o a Apple Music si pensa a piattaforme che usano algoritmi per selezionare musica sulla base dei nostri gusti, in opposizione ai processi di selezione editoriali tipici delle industrie culturali tradizionali. Ma le cose sono più complicate: anche le piattaforme impiegano umani nella selezione “manuale” ed editoriale di musica, ma questo lavoro editoriale è sempre intrecciato al lavoro degli algoritmi, come abbiamo mostrato in un articolo scientifico uscito su Social Media + Society (“First Week Is Editorial, Second Week Is Algorithmic”). Vediamo più da vicino come le piattaforme consigliano la musica e come il lavoro umano e quello delle macchine si fondono assieme.

La svolta curatoriale delle piattaforme

Dal 2014 in poi Spotify e tutte le altre piattaforme cambiano strategia aziendale: abbandonano il modello del “magazzino” musicale, dove gli utenti si perdono alla ricerca degli album che piacciono loro e si orientano verso la creazione di migliaia di playlist. In seguito a questa decisione, assistiamo a un cambiamento per certi versi epocale: l’album come prodotto musicale perde centralità, a favore proprio dell’oggetto playlist. Come negli anni passati entrare in programmazione in una certa emittente radio era uno step significativo verso il successo di un artista o un brano, così oggi entrare a far parte di precise playlist è un elemento di primaria importanza. Ma come si entra in una playlist, e chi le costruisce?

Le playlist che comunemente gli ascoltatori fruiscono sulle piattaforme musicali sono sia automatizzate sia generate manualmente da team editoriali; la loro creazione è spesso il prodotto di una combinazione di editoriale e algoritmico, che rende la fruizione della musica un’attività sempre più strutturata, finalizzata all’acquisizione di dati che, di rimando, sono necessari all’esistenza economica delle piattaforme stesse. Sono quindi non solo gli algoritmi, ma curatori musicali, umani, a prendere queste decisioni, spesso in sinergia con le logiche algoritmiche entro cui le piattaforme operano. 

Questa svolta curatoriale delle piattaforme musicali è evidente nelle modifiche apportate nel tempo alle interfacce utente. Il design delle interfacce limita sempre più la ricerca autonoma dell’utente, favorendo la visibilità di contenuti curati algoritmicamente o editorialmente. Un reporter musicale del Financial Times ha definito nel modo seguente questa svolta curatoriale: “il peso esercitato da questo nuovo gruppo di tastemaker di Spotify e Apple Music, insieme a Amazon Music, Google Play Music e Tidal, rappresenta un cambiamento epocale. Le playlist create da queste piattaforme rappresentano quasi il 60% del consumo di musica via streaming negli Stati Uniti, secondo Nielsen Music. E i primi 40 programmatori radiofonici commerciali oggi suonano spesso ciò che trovano su Spotify e Apple Music, invece di scoprire da soli le nuove canzoni”. I curatori musicali delle piattaforme Apple Music, Spotify, Google Play Music, Amazon Music, Deezer o Tidal sono coloro che decidono quali gruppi musicali, tra quelli recentemente pubblicati, sono legittimati a entrare nelle loro playlist, a essere canonizzati come “nuova-musica-non-ancora-popolare-ma-che-lo-diventerà”.

Ogni curatore è un esperto di un genere o sottogenere specifico; il lavoro quotidiano consiste per lo più nell’assemblaggio di playlist e di solito appartengono a uno specifico team curatoriale con il quale discutono le scelte editoriali.

Nel nostro articolo, frutto della ricerca da noi compiuta tra il 2017 e il 2019 sui meccanismi di selezione della musica sulle piattaforme di streaming, abbiamo chiamato platform gatekeepers tutti quei lavoratori che sono in grado di decidere, filtrare e selezionare cosa esporre agli ascoltatori e verso quali canzoni incanalare la loro attenzione. Tra queste figure, ci concentriamo in particolare sul curatore musicale: come detto, questo ruolo non esisteva nelle piattaforme di streaming musicale prima del 2014-2015. Eriksson et al., nel loro importante volume Spotify Teardown, collocano la svolta curatoriale di Spotify nel 2014, otto anni dopo la fondazione della società. Anche Google Play Music ha iniziato a impiegare curatori umani alla fine del 2014, tre anni dopo la sua nascita, mentre Apple Music ha assunto i primi curatori umani nel 2015. Nel 2018 Spotify impiegava il maggior numero di curatori (circa 150, contro i 50 contati nel 2016). Nel 2016, Google Play contava su 20 curatori a tempo pieno più altri freelance, mentre Apple Music ne ha “più di 12”, più altri freelance. Nel 2016, Deezer ha rivelato a The Guardian di aver assunto 50 redattori esperti di musica. Questi numeri non sono completamente aggiornati e non sono disponibili dati relativamente ad altri servizi, come Tidal e Amazon Music. Nessuna di queste aziende ha mai reso pubblico il numero dei curatori e i dati disponibili sono stime approssimative fatte da giornalisti e ricercatori sulla base di una serie di informazioni disparate. Tuttavia, sembra plausibile stimare che attualmente ci siano alcune centinaia di questi curatori che lavorano a livello globale, per lo più distribuiti tra New York (Google Play Music, Spotify, Tidal e Amazon Music), Los Angeles (Apple Music) e Londra (Spotify, Deezer, Google Play Music e Apple Music). Questa potrebbe essere vista come una élite globale di specialisti della musica che decide se escludere o includere brani musicali e artisti nelle playlist di successo e così favorirne la circolazione.

Ogni curatore è un esperto di un genere o sottogenere specifico; il loro lavoro quotidiano consiste per lo più nell’assemblaggio di playlist e di solito appartengono a uno specifico team curatoriale con il quale discutono le scelte editoriali. Un ex curatore presso Google Play Music, da noi intervistato per una ricerca precedente, ci ha detto: “In media, creavo una trentina di nuove playlist al mese. Le playlist che compilavo avevano l’obiettivo di completare l’offerta di generi musicali, età storiche, stato d’animo, eventi e festività specifiche (tipo la playlist per le vacanze di Natale). Ogni settimana aggiornavamo anche una cinquantina di playlist già esistenti”. La maggior parte dei curatori ha già precedenti esperienze lavorative nell’industria musicale. Tra questi vi sono ex giornalisti musicali, ex deejay radiofonici (come Sara Sesardic, una curatrice di Spotify UK, che ha lavorato a Bbc Radio 2), programmatori radiofonici, ex dirigenti musicali e manager. Alcuni hanno fatto i giornalisti per riviste musicali online o sono stati musicisti dilettanti, come Athena Koumis (nel 2017 era Spotify editor della playlist “Fresh Finds”).

Le playlist: né editoriali, né algoritmiche, ma algo-toriali

Come ha rivelato uno dei redattori dei contenuti di Spotify, Austin Daboh, “abbiamo tre diversi tipi di playlist su Spotify: abbiamo playlist curate al 100% a mano, playlist algotorial e poi abbiamo playlist completamente basate su algoritmi”. Una “playlist al 100% generata da algoritmi” è come “Release Radar” o “Discover Weekly”, selezioni personalizzate di canzoni generate da algoritmi senza intervento umano. Le playlist “100% fatte a mano” sono quelle come “Rap Caviar” (la più popolare di Spotify) che si basano sull’esperienza, l’istinto e la conoscenza dei migliori curatori musicali della piattaforma. Ma la distinzione data da questo editor di Spotify è quantomeno ingenua, perché ogni playlist, sia essa definita “100% artigianale” o “100% basata su algoritmi”, contiene entrambe le logiche – editoriale e algoritmica – in modo inestricabile: ogni playlist è il frutto ibrido di scelte editoriali e algoritmiche, cioè è algo-toriale, molto più di quanto i curatori stessi credano. Entrambe le playlist come “Rap Caviar” o quelle basate sull’umore/situazione/genere sono realizzate da curatori umani ma sono anche fortemente supportate da dati e algoritmi, mentre le playlist personalizzate come “Daily Mix”, “Release Radar” e “Discover Weekly” sono generate da algoritmi ma sono costantemente monitorate da curatori e sviluppatori di software che le gestiscono e le migliorano.

Il lavoro di curatela musicale sulle piattaforme di streaming musicale, in altre parole, consiste nella combinazione di attività umane aumentate/supportate da algoritmi e attività non umane progettate, monitorate e curate da esseri umani. Le macchine (algoritmi) non sostituiscono né sono separate dal lavoro dei curatori umani. Spotify ha continuato ad assumere curatori musicali investendo nella tecnologia per l’intelligenza musicale. Le macchine (gli algoritmi) allo stesso tempo automatizzano la creazione di playlist, rendendo la loro produzione più efficiente, e migliorano le capacità dei curatori umani, rendendoli più veloci nelle loro scelte e velocizzando i tempi di produzione delle playlist.

Ogni playlist è il frutto ibrido di scelte editoriali e algoritmiche, cioè è algo-toriale, molto più di quanto i curatori stessi credano.

Potremmo dire che gli algoritmi sono una sorta di “eso-scheletro” che aumenta l’efficienza del lavoro intellettuale dei curatori umani, ma non lo sostituisce (per ora). Questo intreccio tra lavoro umano e lavoro degli algoritmi è secondo noi la chiave per capire come funziona l’attività di gatekeeping nelle nuove industrie culturali. I curatori di Google Play partecipano periodicamente a riunioni di pianificazione strategica, dove vengono stabiliti indicatori chiave di performance (Kpi). In questi incontri, i curatori sono invitati a dare il massimo valore ai dati relativi all’engagement di ogni singola playlist e a tenerlo costantemente sotto controllo: “Ho a disposizione una dashboard (cruscotto) per l’analisi e il monitoraggio, giorno per giorno, della performance complessiva delle mie playlist. Ogni settimana esporto i dati per analizzare il comportamento di ogni singola playlist, poi implemento gli aggiustamenti per quelle non performanti”. Se è vero che la combinazione di forza lavoro umana e macchinari è tipica del capitalismo industriale, quello che è nuovo qui è la rilevanza che i processi di automazione alimentati dai dati e organizzati da algoritmi hanno acquisito all’interno delle industrie culturali mediate da piattaforme digitali. Le decisioni dei gatekeeper delle piattaforme sono supportate da una serie di dati e analisi precedentemente sconosciuti ai gatekeeper tradizionali. 

Uno degli intervistati ci ha detto che “la cultura di avere fiducia nei dati è la prima cosa che ho imparato qui”. Mentre il potere dei gatekeeper tradizionali era principalmente di natura editoriale, anche se i dati ricoprivano già una certa rilevanza nell’orientare le loro scelte, il potere dei gatekeeper delle piattaforme è un potere editoriale “aumentato” e potenziato da algoritmi e big data. I gatekeeper delle piattaforme hanno più dati, più strumenti per gestire e interpretare questi dati, e quindi più potere dei loro predecessori. Il lavoro di curatela dei platform gatekeepers consiste quindi in un’attività ad alta intensità di dati, basata su diversi mix di logiche algoritmiche ed editoriali, che produce nuovi regimi di visibilità per gli artisti. Questo rende il capitalismo di piattaforma potenzialmente più efficiente di quello industriale nel trasformare l’attenzione del pubblico in dati e successivamente i dati in merci.

Nonostante la loro rilevanza, il lavoro dei curatori musicali e la loro sinergia con gli algoritmi che organizzano la circolazione del contenuto sulle piattaforme digitali restano però, a tutti gli effetti, dietro le quinte di un’industria culturale – la musica – che, in seguito alla popolarizzazione delle piattaforme, ha vissuto una trasformazione nei processi sociali ed economici che la caratterizzavano solo pochi decenni fa. Nonostante la nostra ricerca offra uno spaccato del lavoro “algo-toriale” dei curatori di piattaforma, le aziende che li impiegano restano riluttanti a fornire informazioni specifiche rispetto al loro lavoro. Molti nostri intervistati hanno accettato di partecipare alla ricerca solo in forma anonima, mostrando – più o meno esplicitamente – di temere per il loro lavoro. Noi stessi siamo stati più o meno esplicitamente “respinti” dalle piattaforme a seguito delle nostre richieste di intervista a rappresentanti ufficiali di queste aziende. Le piattaforme digitali (musicali, ma non solo) vivono la modalità attraverso cui umano e algoritmico si incontrano nei processi organizzativi come una sorta di segreto industriale, e temono che la pubblicazione di informazioni rispetto questi aspetti e alle pratiche che li circondano mettano a rischio la posizione di mercato che queste aziende hanno assunto negli anni, a vantaggio della concorrenza. Permane quindi un problema di trasparenza e apertura da parte delle piattaforme (musicali e non) all’indagine esterna (accademica, ma non solo), che conferisce un’aura di opacità al capitalismo di piattaforma e alla sua ascesa inarrestabile come modello di produzione e distribuzione culturale.


Tiziano Bonini

Professore associato in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il Dipartimento di Scienze Sociali, Politiche e Cognitive dell’Università di Siena, si occupa di radio, social media, cultura digitale ed economia politica delle piattaforme digitali.

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Alessandro Gandini

È professore associato di Sociologia dei processi culturali all’Università degli Studi di Milano. Coordina il progetto Algocount che studia il ruolo degli algoritmi nella circolazione di informazione, ed è Principal Investigator del progetto Craftwork, finanziato con Erc Starting Grant 2020, che studia le nuove forme di lavoro “neo-artigianale” nell’economia digitale. Di recente ha pubblicato L'eta della nostalgia (2021).

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