immagine di copertina per articolo Doppiare è un po’ tradire. Intervista a Elettra Caporello

Doppiare è un po’ tradire. Intervista a Elettra Caporello

Tra l’edizione originale e la versione doppiata di un film o di una serie, c’è il lavoro del dialoghista. Che fa da mediatore, con ruolo creativo. Memorie e punti di vista di una veterana del campo.

Elettra Caporello è una decana del doppiaggio italiano, in qualità di dialoghista, ovvero colei che dalla traduzione grezza di un copione cinematografico o televisivo adatta i testi per il doppiaggio. Come un lettore italiano può aver letto Hemingway filtrato dalla lingua di Fernanda Pivano, così gli spettatori del nostro Paese hanno conosciuto Nora Ephron, Woody Allen, Aaron Sorkin e tanti altri autori attraverso la penna di Caporello. Quella della traduzione cinematografica è una pratica importante e meritevole d’indagine, spesso svilita perché collegata a certi vizi del doppiaggio come la tendenza a creare una sottolingua – il doppiaggese – poi entrata nel parlare comune, con calchi o forme prive di senso. Ma è stata, ed è ancora molto spesso, il primo punto d’ingresso di un’opera audiovisiva in Italia e altrove.

Oggi il doppiaggio è ancora uno strumento utile?

Una qualche forma di adattamento è sempre necessaria. Io sono nata a Roma, cresciuta a Roma, fino a un certo punto, e la mia mamma ha ritenuto che io e i miei fratelli dovessimo studiare a Londra. Quando sono arrivata a New York ero convinta di conoscere l’inglese. Invece lì parlavano tutta un’altra lingua. Comunque ho frequentato l’università e, insomma, penso di conoscere bene l’inglese. Però se mi arriva il film senza il copione e lo guardo, il 20% del film lo perdo. Vedere un film senza sottotitoli, con i suoni e i rumori sovrapposti al dialogo, non è impresa da tutti.

Come iniziò a lavorare come dialoghista?

Lavoravo in un grande ufficio stampa che si occupava di cinema e poi per dieci anni sono andata a vivere a New York a seguito di un marito che era dirigente Alitalia. Quando sono tornata uno degli amici dell’ufficio stampa mi propose di scrivere dialoghi. Mi spiegò il lavoro e scoprii che mi piaceva.

Cercò di specializzarsi in qualche modo?

Non c’è una preparazione specifica per un lavoro del genere. L’essenziale è saper scrivere. La traduzione c’entra relativamente, perché poi facciamo film da tutte le lingue. Io perlomeno le ho fatte anche da lingue che non conosco, come il francese o il tedesco. Per quanto mi riguarda – ma così è come procedo io, non so gli altri – ho una serie di traduttori di cui mi devo fidare e che traducono letteralmente il testo, senza soluzioni di frasi idiomatiche o giochi di parole. Il mio lavoro consiste nell’adattare quel testo per una cultura diversa da quella di partenza. Io faccio da, credo, trent’anni tutti i film di Woody Allen, che sono un buon esempio perché l’umorismo di Allen è molto yiddish e manhattaniano, ostico per l’adattamento. Quello è l’unico che traduco da sola, per una questione di lingua ma anche per forma mentale, avendo respirato quell’aria culturale per tanti anni. Allen è sofisticato, la scelta dei suoi vocaboli, specie negli aggettivi e negli avverbi, è curatissima. Prenda un dizionario inglese, io uso ancora il Ragazzini perché è molto completo, il significato che intende Allen per quell’aggettivo è il quindicesimo sul dizionario. 

Come iniziò ad adattare i film di Allen?

Me lo propose il supervisore delle edizioni straniere dei suoi film – un signore che conosce quattro lingue e si definiva “poco più che un portiere d’albergo svizzero”, ma per gli americani è un padreterno perché loro non sanno mezza lingua oltre l’inglese. Era iniziato tutto perché mi aveva chiesto di fare i sottotitoli italiani per il film che quell’anno sarebbe stato proiettato alla Mostra di Venezia. I dialoghi dei film di Allen li faceva da anni Sergio Jacquier ma i sottotitoli, diceva il supervisore, “Jacquier non li sa fare”. Allora rilanciai chiedendo di farmi adattare anche il doppiaggio.

In Italia i film degli anni Settanta come Io e Annie erano pesantemente modificati. La scena in cui Alvy e Annie sono seduti su una panchina e commentano i passanti è completamente riscritta, tanto per dirne una.

Non c’era una prassi. Ognuno faceva come voleva. A volte le invenzioni vanno bene, se escono divertenti, altre no. Io cerco di rispettare il prodotto al massimo. Sergio Jacquier era fiorentino e in alcuni film di Allen c’erano modi di dire prettamente fiorentini. Io lo traduco tenendo in mente il romanesco. Vengono benissimo, a Roma abbiamo lo stesso tipo di cinismo, di umorismo cattivo.

“Questo modo di parlare zeppo di fuck è una caratteristica loro, in Italia non parliamo così, magari lo diciamo spesso ma non così. L’adattamento è questo: devi adattare anche i modi di parlare, non solo cosa dicono. È la difficoltà che avrebbero loro a tradurre le nostre bestemmie. Loro insistevano a dire che ‘noi di Netflix non accettiamo censure’, ma non è una questione di censura, è buon gusto”.

Dal 2002 cura anche i film di Martin Scorsese. Il suo linguaggio newyorchese è diametralmente opposto a quello di Allen.

Allen va a sfumature. I film di Scorsese hanno più problemi nella gestione della volgarità. Il dramma lì sono sempre i troppi “fuck you”. Lui è preciso e non vuole che si tolgano, ma in Wolf of Wall Street lo si sente qualcosa come 4-500 volte. E penso di averne tolti più della metà.

Il fatto che l’ultimo film di Scorsese sia stato prodotto da Netflix ha cambiato il processo di adattamento?

In quel caso bisogna interfacciarsi con i supervisori delle versioni internazionali, che stanno a Los Angeles. Il signore che supervisionava l’edizione italiana era un italoamericano, credo, comunque bilingue, con un blocco mentale: non gli piaceva la parola “fornetto”. Nel film, il personaggio di De Niro, ormai vecchio, va a scegliersi la cassa da morto e parla del fatto che la cremazione è una sepoltura troppo “definitiva”. In originale dice “If you go into a building. The building’s there. Your crypt is there”, in italiano “Se vai in un fornetto, c’è l’edificio, c’è la cripta”. Il supervisore al posto di “fornetto” preferiva “muro”, ma non aveva senso. Abbiamo passato un’ora a discutere… Poi si era impuntato sulla quantità di “cazzo”. Nel film, li ho contati, ci sono 280 “fuck” e io ne ho tolti più della metà. Nei sottotitoli, per una specie di convenzione, non si mette “cazzo” ogni due parole, perché vederlo scritto è molto più fastidioso che sentirlo. Molte volte va rimosso perché negli Stati Uniti quella parola la usano come intercalare. Il fatto che in una frase declinino “fuck” in cinque modi diversi non connota il personaggio. Quando lo dice una volta, “Che cazzo pensi di fare?”, poi non serve aggiungere “brutto cazzone testa di cazzo”. Questo modo di parlare zeppo di “fuck” è una caratteristica loro, in Italia non parliamo così, magari lo diciamo spesso ma non così. L’adattamento è questo: devi adattare anche i modi di parlare, non solo cosa dicono. È la difficoltà che avrebbero loro a tradurre le nostre bestemmie. Loro insistevano a dire che “noi di Netflix non accettiamo censure”, ma non è una questione di censura, è buon gusto. Alla fine il prodotto è loro, per cui li ho aggiunti. Però il problema con Scorsese è trovare il tono giusto per i personaggi, che non sono quasi mai sofisticati come quelli di Allen. In un altro momento del film, il supervisore si era impuntato sulla parola “frocio”, in originale “fairy”, in una sorta di approccio politicamente corretto retroattivo. C’era il personaggio di Joe Pesci, un gangster, che diceva a De Niro “Vai da quel frocio e fatti dare i documenti”. Mi dissero che avrei dovuto usare la parola “omosessuale” o “gay”, ma negli anni Cinquanta – l’epoca del film – quella parola voleva dire “allegro”. “Ma lei l’ha vista la scena?”, gli dissi “Le pare che un gangster usi quella parola? .“Vai da quell’omosessuale e fatti dare i documenti” non si può sentire.

Per la sua esperienza, i registi si interessano alle edizioni straniere dei loro film?

È rarissimo. Non sanno neanche di che parliamo. Una volta esisteva la figura del supervisore, ma era una disgrazia perché era gente che esordiva sempre dicendo “Tu parla pure italiano io capisce tutto”, stavamo a questo livello, per fargli capire le sfumature del linguaggio era durissima. Ora questi ruoli sono molto rari.

Secondo lei c’è stato, come dicono i detrattori, un deperimento della qualità del doppiaggio negli ultimi vent’anni?

Uno dei problemi dei dialoghi è che nel 1998 i dialoghisti hanno ottenuto i diritti d’autore, a dimostrazione che contribuiamo in maniera sensibile al prodotto finale. Se io le faccio leggere, di uno stesso copione, la traduzione e l’adattamento, vedrà che sono due testi diversi, c’è della creatività nel mezzo. Questo ha scatenato in tutti la voglia di scrivere dialoghi. Nessun direttore di doppiaggio se l’era mai sognato, dopo il 1998 sono diventati tutti dialoghisti. A me l’hanno proposto tante volte di dirigere il doppiaggio ma non mi viene neanche in mente, perché è un altro lavoro. Adesso se i dialoghi li scrive la stessa persona che dirige, che a volte è anche attore, e magari proprietario della società di doppiaggio, ma chi è che muove una critica? Chi è che dice “forse questa parola è fuori posto”? E quindi si sentono, più nella televisione che nel cinema, delle bestialità da far saltare sulla sedia. C’è un solo direttore che non ha mai voluto scrivere dialoghi, Rodolfo Bianchi, che è una persona che ancora mi chiama per discutere ogni modifica, è una collaborazione. 

Com’è il rapporto professionale tra dialoghisti e direttori del doppiaggio?

A volte non so neanche chi li dirige i film che scrivo. Non c’è grande frequentazione tra dialoghisti e direttori, non ci facciamo sangue. Ed è un peccato perché maggior interazione andrebbe a beneficio del risultato finale. A volte capita che dei direttori cambino il testo senza avvisare, o dietro pretese sciocche. Mi ricordo dei direttori che mi telefonavano per poter cambiare una parola perché l’attore non sapeva pronunciarla. Mi rifiutavo di cambiarla, facendomi la nomea di avere un cattivo carattere, cosa che è probabilmente vera, ma credo che il proprio lavoro vada difeso. Se ho scritto “esclusivamente” tu gli fai dire “esclusivamente”, a meno che non ci sono altri problemi. Io ho ragionato per cercare una parola e poi un direttore decide che a lui piace di più “bianco” al posto di “avorio”.

“Un altro storico dialoghista raccontava sempre che per fare un film, credo Hindenburg, lo avevano portato tre volte su un dirigibile che sorvolava Roma perché doveva ‘capire bene che cosa si prova a stare lassù’. All’epoca erano in quattro, cinque al massimo, a fare i dialoghisti. Quando poi è arrivata la televisione commerciale si sono trovati improvvisamente a doppiare migliaia di ore l’anno. Sono entrati in campo figli nipoti parenti, gente che faceva tutt’altro”.

Si citano spesso problemi legati alle tempistiche e al poco tempo concesso, è un aspetto che ha contribuito all’abbassamento della qualità?

Quella è la scusa classica che si tira sempre fuori. Io i film di Woody Allen li faccio in otto giorni. Sono molto concentrata, mio marito sosteneva che se sto lavorando e qualcuno mi stupra io vagamente ho sentore che qualcosa stia succedendo. Per cui il fatto del tempo è vero, una volta c’era sicuramente più calma con cui affrontare il lavoro. Ricordo che Roberto De Leonardis, capostipite dei dialoghisti italiani e curatore delle edizioni italiane dei film Disney, mi raccontò che scrisse le canzoni di Mary Poppins in sei mesi. Ora danno molto poco tempo, però non è solo quello. È un lavoro che richiede capacità di scrittura e saper giocare con le parole. L’italiano è una lingua ricca, non ci possiamo limitare a “bello”, “brutto”, “buono” e “cattivo”. Un giorno Fede Arnaud [storica direttrice di doppiaggio] stava lavorando a Harry… Ti presento Sally con Silvia Pepitoni, che doppiava Sally. Andai in sala e Silvia stava ripetendo una battuta per la quindicesima volta. Per me ogni volta sarebbe stata quella buona, ma Fede diceva “No, non ancora, perché in questo momento la deve dire con un tono che si capisce che non ci crede, e lei ancora non l’ha tirato fuori, quel tono”. Alla ventottesima volta, alla fine, Fede diede l’ok. Si lavorava così, infatti Fede smise di lavorare quando le dissero di fare i film nella metà del tempo. 

Mario Maldesi – direttore del doppiaggio dei film di Federico Fellini, Stanley Kubrick e di molti capolavori del cinema – raccontava che chi lavorava al doppiaggio negli anni Settanta riceveva spesso un trattamento di lusso da parte delle case di produzioni. Mi domando se questa cura non fosse una conseguenza anche del fatto che il film, in una data nazione, sarebbe stato vissuto solo nella forma dell’edizione doppiata e quindi era un aspetto su cui fare attenzione, mentre adesso uno spettatore il film può benissimo usufruirlo in lingua originale.

Quello sicuramente è successo. Io andai a Londra per quattro giorni con il direttore di doppiaggio Manlio de Angelis perché il regista di un film a cui avremmo dovuto lavorare “ci voleva conoscere”. Siamo andati a cena e abbiamo chiacchierato del film, poco altro. La Warner mi mandava una settimana a Parigi, in agosto, a controllare i sottotitoli che avevo scritto per i film che andavano al Festival di Venezia. Alberto Piferi, un altro storico dialoghista, raccontava sempre che per fare un film, credo Hindenburg, lo avevano portato tre volte su un dirigibile che sorvolava Roma perché doveva “capire bene che cosa si prova a stare lassù”. All’epoca erano in quattro, cinque al massimo, a fare i dialoghisti. Quando poi è arrivata la televisione commerciale si sono trovati improvvisamente a doppiare migliaia di ore l’anno. Sono entrati in campo figli nipoti parenti, gente che faceva tutt’altro.

Lei è stata una delle prime donne a fare il lavoro di dialoghista. Era solo casualità dovuta al fatto che, come diceva lei, erano poche le persone che svolgevano quella professione in generale, o c’erano altri motivi?

Le donne facevano televisione, soprattutto. Io ho iniziato con quella, infatti, ma volevo fare i film, perché pagavano di più. Siccome New York insegna una grande regola di vita, cioè che se vuoi una cosa la chiedi e non aspetti che ti venga offerta, io chiamai la Titanus, all’epoca il distributore più grande in Italia, e mi presentai dicendo che volevo fare un film. Risposta: “Signora i film li fanno gli uomini”. Era il 1985, non il medioevo. Io che sono battutara chiesi: “Scusi ma gli uomini con quale parte del corpo li scrivono i dialoghi? Perché una non ce l’ho, ma per il resto non mi manca niente”. Allora mi dissero che avevano tre film francesi, “brutti, difficili e pagati poco. Ne vuole fare uno?”. Dissi che li avrei fatti tutti e tre. Il primo passo è sempre il più difficile in ogni lavoro, poi c’è l’effetto valanga. Mi chiamarono loro per un film americano, perché nessuno conosceva l’inglese, che era L’onore dei Prizzi e me lo offrirono. Credo di essere rimasta per tanti anni l’unica donna a dialogare i film di circuito, come si chiamano. Però, negli anni, ho continuato a cercarmi le cose invece che aspettare che me lo offrissero. Tanto al massimo mi dicono di no. Pure Scorsese. Stavano girando Gangs of New York a Roma e tutti volevano fare i dialoghi del film. Mi procurai l’e-mail di Scorsese e gli mandai la lista dei film che avevo adattato e poi dissi che mi sarebbe piaciuto lavorare al suo film, “mi perdoni la chutzpah”, cioè la faccia tosta. Lui mi rispose dopo tre giorni dicendo “Si ricordi, chutzpah paga sempre”, e telefonò dicendo che sarei stata la sua dialoghista.

Frequentò comunque la televisione, lavorando a I Simpson.

Feci solo una manciata di puntate perché sono veramente difficili. Mi aveva chiamato Tonino Accolla, che dirigeva e doppiava la serie. L’unico problema è che li pagavano come i cartoni animati, che sono il primo gradino del tariffario nazionale. Si supponeva che, non essendoci le labiali, fosse più facile adattarli, ma non è sempre vero. I Simpson è un cartone animato con un dialogo difficilissimo, e il compenso non valeva la fatica.

A guardare il suo curriculum compaiono moltissime commedie brillanti entrate nella storia del cinema. Come si lavora cercando di restituire l’umorismo di una parola?

Le commedie brillanti sono sempre state nelle mie corde. Sono complicate ma danno molta soddisfazione. Penso a Harry… Ti presento Sally e alla frase “Quello che ha preso la signorina”, che in originale era “I’ll have what she’s having”. Doveva essere un giro di frase rapido e perentorio. L’adattamento di quel film fu un po’ rocambolesco. Me lo propose la Titanus, che aveva già avviato i lavori con un altro dialoghista, ma le prime scene recitate non andavano bene. Avevano fatto fare i dialoghi a un intellettuale famoso di cui mi sfugge il nome, amico di Visconti e già abbastanza anziano all’epoca. Era lontano da quel tipo di mentalità e modo di parlare. Non so perché gli avevano fatto fare i dialoghi. Mi chiesero di riscriverli però non volevano che lo firmassi. Alla fine si arresero e lo presi in carico io ufficialmente.

Il doppiaggio da noi è stato influente al punto da aver creato una sottolingua fatta di calchi e travisamenti, il doppiaggese.

Quello è successo anche per la troppa riverenza nei confronti del sincrono tra voce e bocca. Se la battuta è divertente o efficace in un certo modo, il fatto che non siano rispettate le labiali passa in secondo piano. Ma se per rispettare le labiali la battuta esce stiracchiata diranno tutti “ma senti che scemenza”. Si tende a rispettare troppo questo elemento, compromettendo il risultato finale, tra le altre cose. Prenda L’attimo fuggente – un film che, per inciso, quando me lo diedero da adattare mi dissero “Los Angeles dice che dobbiamo doppiarlo, non farà una lira”: c’è una scena in cui uno dei ragazzi dice al protagonista che il loro compagno è morto. C’è un primissimo piano dell’attore che dice “He’s dead”, chiamai Fede Arnaud che era stata incaricata di dirigere il doppiaggio e le dissi che non avrei potuto fargli dire nient’altro, la faccia che fa il ragazzino, la sua disperazione, non poteva essere veicolata con un “non c’è” o “è deceduto”. Lei mi tranquillizzò: “Fagli dire “è morto”, lo faccio cominciare una frazione di secondo prima così non si nota la discrepanza”. Bene, se si guarda il film, sembra che dica davvero “è morto”. Con internet, poi, la possibilità di sbagliare o creare calchi è andata diminuendo. Io avevo scaffali di libri dedicati ad argomenti linguistici specifici, come parlano i ragazzi, i carcerati, come si gioca a scacchi. All’epoca era difficile essere precisi, ho rotto l’anima alle persone che conoscevo, dai rabbini agli avvocati o agli architetti, erano tutti terrorizzati perché li usavo come consulenti. È un contrappasso: le informazioni sono più facilmente reperibili e i tempi di lavoro si sono ridotti di conseguenza. Ma, come dicevo, il fattore tempo, per quanto importante, non è essenziale, tanto se sai scrivere sai scrivere comunque, con poco o tanto tempo.


Andrea Fiamma

Scrive (soprattutto) di fumetti, cinema e tv su Fumettologica, Rivista Studio e The Comics Journal.

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