Anche l’industria del cinema italiano è al centro di grossi ripensamenti e tenta di uscire da svariate criticità. Con una costante: il grande ruolo dell’intervento pubblico nel settore.
Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 22 - Mediamorfosi 2. Industrie e immaginari dell'audiovisivo digitale del 11 dicembre 2017
“Il vecchio medium (cinematografico) e il nuovo medium (elettronico e digitale) si trovano in un curioso mélange generazionale la cui cronologia non è in alcun modo semplice o evidente. Dato che il film progressivamente scompare, ciò che rimane è il cinema come forma narrativa ed esperienza psicologica, ovvero una determinata modalità di articolare la visione, la significazione e il desiderio attraverso lo spazio, il movimento e il tempo. Nonostante ci siano state delle mutazioni nelle forme della spettatorialità, permane la fondamentale struttura narrativa dei film e, nonostante la competizione tra il video e internet, per il momento la visione nelle sale non sembra scomparire”. (1)D. Rodowick, Il cinema nell’era del virtuale, Olivares, Milano 2008.
Cosa è rimasto del cinema, così come lo conosciamo dal 1895, in seguito alla rivoluzione digitale? E in che modo la progressiva digitalizzazione del cinema ha influenzato e modificato il processo artistico e produttivo? Le tecnologie digitali sono state un’innovazione radicale, una sorta di distruzione creatrice shumpeteriana? In che modo il cinema italiano si è digitalizzato?
La sfida posta dai mezzi digitali non riguarda semplicemente la possibilità di innovare la narrazione cinematografica, il modo in cui il cinema racconta le storie. Il digitale ha ridefinito l’identità più profonda del cinema: i film tradizionali si basano infatti sull’azione reale, ovvero sono fotogrammi non ritoccati che registrano eventi reali accaduti nello spazio fisico. Piuttosto che filmare la realtà, oggi è possibile creare delle sequenze cinematografiche con l’ausilio di un programma di animazione in tre dimensioni. Perciò la ripresa dal vivo perde il ruolo di materia prima della costruzione cinematografica e diventa una tre le materie prime disponibili per realizzare un film (2)L. Manovich, What is digital cinema?, www.manovich.net, 1995.. L’ingresso delle tecnologie digitali nell’industria cinematografica risale alla fine degli anni Settanta e, come spesso è accaduto nella storia del cinema, l’innovazione è partita da Hollywood. Un importante punto di svolta è il 1999, anno in cui George Lucas sperimentò un parziale utilizzo del digitale in fase di produzione. I successivi dieci anni sono stati testimoni della quasi totale scomparsa dell’analogico nelle fasi di ripresa, distribuzione e proiezione.
In Italia il digitale ha esordito in sala a partire dal 2001, sugli schermi del multiplex Arcadia di Melzo (MI) con il film Atlantis. L’impero perduto di Gary Trousdale e Kirk Wise e, in seconda battuta, con Star Wars: Episodio II. L’attacco dei cloni (3)E. Brunella, F. Mesiano, M. Lecca, S. Mancini, P. Bensi, “Focus sulla digitalizzazione delle sale in Italia e in Europa”, in DGC, Fondazione Ente dello Spettacolo, Il mercato e l’industria del cinema in Italia. Rapporto 2011, Ente dello Spettacolo, Roma 2012.. Come spesso accade alle innovazioni tecnologiche, il cinema digitale ha incontrato inizialmente notevoli resistenze in ambito nazionale, soprattutto da parte degli esercenti, su cui ha gravato lo sforzo economico legato alla transizione – a fronte invece di notevoli risparmi per i distributori. Tale avversione degli operatori si è manifestata soprattutto su due aspetti: la mancanza di specifiche tecnologiche internazionali e la rilevanza dei costi di passaggio al digitale. Altre criticità sono state sollevate rispetto alla ridefinizione dei ruoli e dei rapporti contrattuali tra gli operatori del settore e alla necessità di sviluppare nuove competenze e professionalità (4)G. Soda, “Il cinema e le tecnologie digitali”, in S. Salvemini (a cura di), Il cinema impresa possibile, Egea, Milano 2002..
Le nuove tecnologie sembrano aver modificato il cinema, non solo nei suoi aspetti artistici ed estetici, ma anche nelle componenti organizzative e di funzionamento della filiera. Vediamo cosa è accaduto nel contesto italiano e se l’innovazione tecnologica ha determinato radicali cambiamenti rispetto alla struttura del cinema nazionale, formatasi a partire dal secondo dopoguerra, soprattutto per quello che riguarda i modelli di business.
In passato senza uno script forte non si partiva; oggi si è convinti che, tra riprese e post produzione, si possa rimediare a tutto.
La produzione
Da alcuni anni l’industria cinematografica italiana sembra tornata a un livello di film prodotti paragonabile a quello della fine degli anni Cinquanta, stagione di abbrivio che portò al picco della produzione raggiunto negli anni Sessanta, con 150-200 lungometraggi realizzati annualmente dal 2008 al 2016 (5)DGC-ANICA, Tutti i numeri del cinema italiano, 2015. www.anica.it. Dati Cinetel, 2017. Nel 2006-2009 la produzione oscillava fra 120-150 lungometraggi l’anno, nel 2014-2016 fra i 180 e i 200.. Sembrerebbe un dato positivo, ma se messo in relazione con una quota di mercato che supera il 20% solo in presenza del fenomeno Checco Zalone, il confronto con il passato appare impietoso, visto che nel 1958-60, gli incassi dei film italiani si aggiudicavano dal 30 al 50% dell’intero box office.
Vari fattori hanno concorso a un aumento della produzione che non sembra avere nessun legame con il mercato. Uno di questi è sicuramente la diffusione della tecnologia digitale, che ha reso più facile ed economico produrre un film grazie ai minori costi delle attrezzature, al numero ridotto di personale necessario alle riprese e alla maggiore possibilità di intervenire sul girato in post-produzione. A parità di definizione e qualità cromatica della pellicola, il prodotto filmico in formato digitale prospetta ingenti risparmi sui costi di ripresa, scenografia e fotografia sul set, decisivi soprattutto per le produzioni low budget. La post-produzione è l’ambito in cui il digitale ha determinato i cambiamenti più significativi e un vero salto tecnologico, paragonabile all’avvento del sonoro o all’introduzione del colore nel cinema tradizionale (6)M. Ondaatje, W. Murch, The Conversations. Walter Murch and the Art of Editing Film, Knopf, New York 2002.. Nella fase di montaggio, per esempio, il digitale ha permesso di: automatizzare le procedure di catalogazione e ricerca; acquisire flessibilità nel rimontare blocchi sequenze; simulare gli effetti che si vogliono inserire; conservare diverse versioni del film e creare soluzioni alternative; utilizzare in modo più sofisticato il suono, utilizzando diverse colonne sonore. Secondo molti registi la tecnologia digitale ha offerto nuove potenzialità creative che, secondo le parole di Lars Von Trier, hanno consentito di “sovvertire la grammatica filmica, di operare nuove scelte estetiche, di esplorare possibilità ritmiche e plastiche e di reinventare l’arte del cinema” (7)E. Mastroddi, Il cinema digitale in Europa. Analisi delle potenzialità del digitale nel settore cinematografico, Osservatorio dello Spettacolo, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Roma 2008..
Se questi possono essere considerati come aspetti positivi, non manca però l’altra faccia della medaglia. Nel 2014, la produzione italiana ha superato quota 200 film, una crescita notevole rispetto ai 98 del 2005. Dai dati raccolti dal Mibact, emerge tuttavia che circa un quarto del totale dei film prodotti (54 su 201) non hanno depositato la denuncia di inizio lavorazione, necessaria per accedere all’iter dei benefici di legge (8)Nel 2014, su 201 film che chiedono il nulla-osta per la proiezione, solo 147 hanno fatto la denuncia di inizio lavorazione. Nel 2015, la proporzione è 185/141: DGC-ANICA, Tutti i numeri del cinema italiano, cit.. Non si tratta di una dimenticanza, ma del mancato adempimento a un iter ufficiale che indica chiaramente un’iniziativa “indipendente”, dove il termine confina pericolosamente, fino a confondersi, con il non-professionale o addirittura con il dilettantesco. Se poi si combina questo dato con le classi di costo – che attribuiscono un budget inferiore a 200.000 euro al 35% dei film prodotti – e con il numero delle imprese presenti sul territorio (204 nel 2014) si ottiene un quadro della produzione italiana estremamente frammentato e in gran parte animato – se così si può dire – da un pulviscolo di iniziative che non hanno la statura e la struttura per essere definite imprese (9)DGC, Fondazione Ente dello Spettacolo, Il mercato e l’industria del cinema in Italia. Rapporto 2014, Ente dello Spettacolo, Roma 2015..
Il fenomeno della polverizzazione di società, costituite da avventurieri o da artisti indipendenti spesso per produrre un solo film, non è nuovo nel cinema italiano. Anzi, ha rappresentato una spina nel fianco dell’associazione industriale per i tanti casi di insolvenza o di saturazione del mercato con prodotti tutti uguali, come all’inizio degli anni Settanta. La differenza, rispetto al passato, è che, paradossalmente, nelle micro-produzioni di oggi non è più necessario il collegamento con il mercato perché, una volta trovato un finanziamento nelle pieghe del sistema nazionale o regionale e in mancanza di una distribuzione, la circolazione può essere veicolata attraverso i tanti festival presenti sul territorio. Difficilmente si può considerare reale la distribuzione dei 54 film italiani usciti in una sola copia nel 2016, e scarsamente incisiva è quella dei cento film – la metà del totale – distribuiti in un numero di copie inferiore a dieci (10)M. Mazzetti, Elaborazione dati Cinetel, Fice – Federazione Italiana Cinema d’Essai, 2017..
L’inizio della disconnessione tra produzione e mercato si colloca a metà degli anni Settanta, in quel generale mutamento di struttura dell’industria del cinema che coincide con la diminuzione delle presenze in sala e la liberalizzazione delle frequenze televisive. Prima di quel momento la produzione dipendeva in gran parte dalla distribuzione e viceversa, attraverso il sistema dei minimi garantiti. Con questi anticipi – spesso virtuali ma vincolanti – i distributori, che a volte erano anche esercenti, erano soliti garantire i prestiti delle banche alle case produttrici. Le più solide fra queste, come le società di Carlo Ponti, Dino de Laurentiis e Franco Cristaldi, avevano anche legami con società terze, spesso appartenenti al settore immobiliare, che fornivano una solida base finanziaria e garanzie nei confronti degli istituti creditizi. Con gli anni l’impresa cinematografica si è smaterializzata, non solo in senso tecnologico ma anche finanziario, di pari passo con la diminuzione della propensione al rischio e la chiusura entro orizzonti sempre più limitati nei contenuti. La perversa insistenza sul genere commedia, la debolezza delle imprese, la mancanza di cura nella sceneggiatura e di congruenza nei budget, sono fra le cause dello scarso appeal internazionale dei progetti e del quasi nullo investimento di capitali stranieri nel cinema nazionale, che raggiunge un volume significativo di vendite estere solo nel caso di autori come Sorrentino, Garrone, Moretti e Guadagnino (11)Lumière. Data base on admissions of films released in Europe, www.lumiere.obs.coe.int. I campioni d’incasso italiani, Checco Zalone o Neri Parenti, arrivano al massimo nella Svizzera italiana..
“In passato senza uno script forte non si partiva, oggi si è convinti che, tra riprese e post produzione, si possa rimediare a tutto. Il montaggio digitale permette di salvare molti film che hanno avuto problemi in fase di riprese, correggendo le imprecisioni con gli effetti speciali o altre soluzioni […]. L’idea che la tecnologia riduce e molte volte cancella l’errore umano ha abbassato in molti casi la qualità del personale, consentendo di lavorare anche a chi ha pochissima formazione e scarso talento” (12)B. Corsi (a cura di), “La parola ai produttori. L’economia del montaggio digitale”, in Bianco e Nero, a. LXXVII, n.584, gennaio-aprile 2016..
Il giovane produttore Luca Pancaldi sintetizza efficacemente lo spostamento degli equilibri da un sistema di lavoro che prevedeva una meticolosa pre-produzione a un altro dove la post-produzione ha usurpato il ruolo creativo che dovrebbe stare a monte, grazie a un’esagerata fede nel potere taumaturgico della tecnologia. La facilità con cui questa offre l’illusione di passare dall’idea alla realizzazione non ha fatto altro che esasperare la tendenza, in atto fin dagli anni Novanta, a trascurare lo sviluppo della sceneggiatura, che spesso è anche frutto di una malintesa idea di autorialità, lontana anni luce dal fecondo lavoro collettivo dei grandi sceneggiatori del passato: “Gli autori sono restii a lavorare in gruppo e difficilmente accettano idee diverse dalle loro”, prosegue Pancaldi (13)Ibidem..
Se dunque l’avvento del digitale non ha sostanzialmente modificato il modello di business della produzione italiana, allargando semmai il gap fra le imprese di corto respiro e quelle più grandi e professionali, le novità riguardano invece il settore della post-produzione, che ha contribuito a rivitalizzare generi cinematografici dimenticati. Un fantasy come Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, un film d’azione come Suburra di Sergio Sollima o uno di supereroi come Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti non sarebbero stati neanche immaginabili nell’era pre-digitale, per i costi proibitivi degli effetti speciali. Sono un centinaio le imprese di post-produzione che lavorano oggi per il cinema e che hanno dimostrato di saper realizzare i loro risultati migliori laddove riescono a coniugare le possibilità tecnologiche con la tradizione italiana di artigianalità (14)DGC, Fondazione Ente dello Spettacolo, Il mercato e l’industria del cinema in Italia. Rapporto 2014, cit. Fra le aziende della post-produzione citiamo La Grande Mela (Suburra di S. Sollima, A Bigger Splash di L. Guadagnino, la serie tv Gomorra e Il racconto dei racconti di M. Garrone) e Makinarium, nata dall’unione della Smart Brands di Angelo Poggi e dalla Workshop di Leonardo Cruciano..
La distribuzione e l’esercizio
Non c’è dubbio che, tra i rami della filiera cinematografica, quello della distribuzione sia il più avvantaggiato dalla rivoluzione digitale. L’introduzione del formato hard disk in sostituzione della pellicola ha consentito una forte riduzione dei costi, e il satellite ha aperto la strada alla trasmissione di prodotti alternativi al film, stimolando la nascita di nuove imprese specializzate. La virtualmente infinita possibilità di programmazione offerta dal digitale si scontra però ancora oggi con un rigido sistema di concessioni strutturato in agenzie e sub-agenzie regionali, che frena la potenziale rivoluzione della fruizione cinematografica. L’accesso al prodotto, teoricamente disponibile a tutti, è in realtà regolato da posizioni di forza nella catena della distribuzione, che insieme all’autolesionistica stagionalità nelle uscite, finiscono per favorire la pirateria e frenare il mutamento di pelle dell’esercizio. Quest’ultimo ha investito molto nella modernizzazione, sostenuto dalla virtual print fee e da fondi pubblici statali e regionali, proprio con l’obiettivo di trasformare la sala attraverso la multiprogrammazione, un nuovo modo di costruire il palinsesto che promette di ampliare il pubblico targettizzandolo per fasce orarie e per giornate. Secondo i dati MediaSalles del 2016, quasi il 97% delle sale italiane ha compiuto la transizione tecnologica, approfittando anche di un provvedimento di tax credit calcolato nella misura del 30% sul totale delle spese sostenute, per un importo annuale massimo di 50.000 euro (15)E. Brunella, F. Mesiano, M. Lecca, S. Mancini, P. Bensi, “Focus sulla digitalizzazione delle sale in Italia e in Europa”, cit.. Tra gli investimenti che possono usufruire del tax credit digitale rientrano non solo le spese per l’acquisizione di proiettori e server per la ricezione satellitare, ma anche quelle legate all’ammodernamento delle cabine di proiezione e quelle, correlate, alla formazione degli operatori. Tra il 2009 e il 2011, lo Stato ha accolto le richieste di accesso al tax credit digitale presentate da 431 esercenti per un totale di 1028 schermi, ripartiti fra: 393 monosala o multisala fino a quattro schermi; 439 nei complessi cinematografici dai cinque ai dieci schermi; 196 nei restanti multiplex (16)Ibidem..
La trasformazione dell’offerta cinematografica in sala è però condizionata dalla flessibilità di contratti e teniture e dall’acquisizione da parte degli esercenti – soprattutto di quelli piccoli – di nuove competenze nella multiprogrammazione, nella fidelizzazione del pubblico e nelle specifiche tecniche dei macchinari, in continua evoluzione. Forse è anche a causa di questa nuova complessità della professione che difficilmente l’esercente è oggi in grado di allargare il suo raggio d’azione ad altri rami della filiera, diventando distributore o produttore in prima persona, come non di rado è accaduto in passato. La Cei-Incom nel dopoguerra e la Cidif negli anni Sessanta sono solo due esempi di consorzi di esercenti nati allo scopo di scegliere e distribuire il prodotto con cui alimentare le proprie sale, e innumerevoli sono i casi in cui i singoli esercenti hanno contribuito alla produzione di film di genere, come i musicarelli di Carlo Infascelli o i cappa e spada prodotti da Giorgio Venturini. Oggi l’esercente ha invece la possibilità di assumere l’importante funzione di operatore culturale, diventando mediatore nel contatto fra autore-produttore e pubblico, anche attraverso apposite piattaforme internet che consentono la prevendita di biglietti online per una proiezione da realizzarsi una volta raggiunta una quota minima. Il prestigio della sala e la fedeltà del suo pubblico diventano fattori indispensabili per veicolare prodotti che da soli non hanno la capacità di fare marketing, mentre il rischio dell’evento è condiviso tra esercente e autore.
Un altro vantaggio teoricamente prospettato dalla digitalizzazione degli schermi è quello della capillarità di diffusione delle prime visioni che, contenute in un hard disk o trasmesse via satellite, possono facilmente arrivare anche in sale che prima erano geograficamente penalizzate a causa del tradizionale sistema distributivo basato sul trasporto fisico delle pellicole. Questo vantaggio sembrerebbe essere particolarmente significativo per il contesto europeo, il cui parco sale si caratterizza per la prevalenza di strutture cinematografiche di piccole dimensioni, quasi il 60% del totale, e per i 531 cinema monosala italiani che, con difficoltà e in ritardo rispetto ai complessi cinematografici di maggiori dimensioni, reperiscono solo una porzione di nuovi titoli. La digitalizzazione dell’esercizio potrebbe infine aprire nuove possibilità per i film di produzione europea che hanno sempre sofferto rispetto alle grandi produzioni hollywoodiane. In questa logica, nel 1992, era nato il Digital Cinema European Network, un progetto che si pone come obiettivo una più capillare diffusione dei film artistici e d’essai.
Il prestigio della sala e la fedeltà del suo pubblico sono fattori indispensabili per veicolare prodotti che, da soli, non hanno la capacità di fare marketing.
Conclusioni
Se il modello di business dell’esercizio è dunque in piena evoluzione e ricco di nuove opportunità, quello della distribuzione appare ancora rigido, restio a cedere il controllo acquisito grazie alla posizione centrale nella filiera e ai monopoli che resistono soprattutto a livello periferico-regionale.
Esercenti e distributori hanno via via ridotto il loro intervento nella produzione, a causa dell’ingente capitale richiesto e della minore redditività del mercato, e il risultato è una più netta divisione dei ruoli tra gli operatori della filiera, i cui interessi non sempre coincidono. La trasformazione digitale non sembra avere inciso in modo significativo su questa tendenza, se non accentuando alcune caratteristiche già presenti e perpetuando nella nuova situazione vecchi schemi, che si auspica siano destinati a essere messi in discussione proprio in forza della tecnologia.
Anche la produzione sembra ferma al modello che si è strutturato a partire dagli anni Ottanta, consolidato con la legge del 1994 e corretto solo in parte dalla legge successiva del 2004. Il ruolo dei grandi gruppi televisivi e dello Stato è ancora predominante, sia nel finanziamento diretto – anticipi o contributi percentuali agli incassi – sia in quello indiretto del tax credit.
L’introduzione delle agevolazioni fiscali per i soggetti che investono nella produzione cinematografica ha aperto un canale di finanziamento molto importante, attirando l’attenzione dei soggetti privati (soprattutto banche) verso il cinema, e confermando che quando è l’ente pubblico a indicare una direzione, l’iniziativa ha buone chance di successo (17)Efficaci sono state anche le politiche di regioni come Piemonte e Puglia nel creare, con le Film Commission, un sistema di produzione e servizi per l’audiovisivo.. Anche sul tax credit, però, si sono innestate pratiche distorsive attraverso il meccanismo della sopravvalutazione, da parte di alcune aziende, delle cifre elargite a produzioni per lo più di piccolo calibro e bisognose di ossigeno (18) “Che spettacolo!” di Giorgio Mottola, Report, 17 aprile 2017.. Si ripete oggi un fenomeno molto simile a quello dei preventivi sovrastimati che ha inquinato la produzione “di stato” negli anni Novanta, e che denota sicuramente un deficit di controllo da parte degli organi preposti, ma anche una certa – per così dire – tradizione. Negli anni Cinquanta e Sessanta accadeva che i budget presentati alla Bnl fossero superiori di circa il 30% rispetto a quelli che circolavano internamente alle società, e che questa quota fosse regolarmente decurtata nella decisione della banca sull’entità del prestito, quasi per un tacito accoro fra le parti (19)Osservazione basata sul confronto tra i preventivi dei film Vides e i documenti Vides presentati alla Bnl (Fondo Cristaldi, Cineteca di Bologna).. In prospettiva storica, allora, la pratica della concessione dei finanziamenti pubblici acquista il significato di un appeasement fra stato e cinema, stabilito molto tempo fa a beneficio della sopravvivenza dell’industria nazionale.
Debolezza e polverizzazione delle imprese sono dunque causa e allo stesso tempo effetto di una politica culturale e industriale poco rigorosa nell’assegnazione dei fondi (articolo 28, e poi Interesse Culturale Nazionale) e carente nello stimolare il mercato. La stagnazione del mercato tv, che per decenni ha consentito a due grandi gruppi di spartirsi la produzione e distribuzione cinematografica, è stata incrinata solo di recente dall’arrivo di Sky, che non a caso ha messo in moto le operazioni più interessanti e dinamiche sia nel panorama della fiction televisiva – da Romanzo criminale a Gomorra – sia nel cinema, con la formazione nel 2016 di un nuovo organismo di produzione e distribuzione cui partecipano cinque società italiane: Indiana, Wildside, Palomar, Cattleya e Italian International Film.
La grande assente, in questo precario quadro industriale, è la coproduzione internazionale, che necessita proprio dei requisiti essenziali di solidità delle strutture per la reciproca fiducia, o di un’originalità di progetti tale da convogliare l’interesse straniero. Strumento fondamentale negli anni d’oro del cinema per realizzare ogni tipo di prodotto, da quello di genere a quello d’autore, oggi la coproduzione è praticata essenzialmente dalle società più grandi, e spesso solo per motivi strumentali o finanziari, non di vera collaborazione artistica. Nell’ultimo decennio i film di coproduzione non superano il 25% del totale, dato che segna una distanza incolmabile dagli anni Sessanta, quando oltre il 60% dei film italiani era realizzato così. Allora i produttori erano mossi dalla necessità di dividere i costi e di allargare il mercato, ma anche dalla voglia di entrare in contatto con altre cinematografie, di espandere la sfera di influenza italiana e di esportare la propria cultura: una spinta che oggi il cinema italiano sembra avere smarrito.
Barbara Corsi
Partecipa al progetto di ricerca "Producers and Production Practices in the History of Italian Cinema", coordinato da Stephen Gundle dell’Università di Warwick insieme a Marina Nicoli. Ha pubblicato saggi sulla storia e sull’industria del cinema italiano: Produzione e produttori (2012) e Con qualche dollaro in meno (2001).
Vedi tutti gli articoli di Barbara CorsiMarina Nicoli
Partecipa al progetto di ricerca "Producers and Production Practices in the History of Italian Cinema", coordinato da Stephen Gundle dell’Università di Warwick insieme a Barbara Corsi. Ha pubblicato saggi sulla storia e sull’industria del cinema italiano: The Rise and Fall of the Italian Film Industry (2016).
Vedi tutti gli articoli di Marina Nicoli