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La fase due dell’advertising globale

Nelle televisioni di tutto il mondo, oltre ai programmi la pandemia ha cambiato gli spot. E dopo la massa di messaggi tutti uguali, c’è già chi pensa a come adattarsi alla nuova normalità.

Note di pianoforte rigorosamente in minore, immagini di città deserte, il voice over che ricorda un tempo che sembra lontanissimo: le persone, la famiglia, immagini di comunità che lavorano e si incontrano; poi un riferimento al tempo incerto e difficile che stiamo vivendo oggi, il distanziamento sociale da una parte e la sicurezza del vivere nel comfort e nella sicurezza della propria casa dall’altra, con il brand di fiducia bello vicino – ecco che la melodia si apre, le tonalità del piano sono ora in maggiore, le immagini si fanno più chiare, gente che lavora con l’uniforme del brand e famiglie unite nelle case talvolta con product placement in vista – ma, soprattutto, alcune parole chiave: insieme, eroi, da soli ma uniti, grazie. Grazie. Applausi, orchestra. Fine

Questa è in sintesi la narrazione della stragrande maggioranza degli spot istituzionali che abbiamo visto in televisione e sul web in queste settimane di pandemia, e che lo youtuber Microsoft Sam ha messo mirabilmente insieme per far notare l’identico format usato da tante aziende. Lo storytelling ricco di cliché e retorica ha infatti accomunato brand di ogni genere e categoria: dall’automotive (Nissan, Ford, FCA) alla tecnologia (Apple, Samsung), dai servizi (MasterCard, Uber, Fedex, Vodafone) al food & beverage (Heineken, Barilla), nessuno escluso.

Quello che succede fuori

Da quando il marketing si è trasformato in societing (crasi introdotta dal sociologo Bernard Cova per identificare un marketing sempre più consapevole, che comunica non solo al mercato ma alla società intera la propria visione del mondo), le aziende si sentono in dovere di partecipare a quello che succede per continuare ad avere una relazione con i propri consumatori; così, in una situazione di emergenza e di lockdown, hanno dovuto mettere insieme immagini di repertorio o estratte dai database delle library, accompagnandole con un messaggio totalmente inoffensivo.

È piuttosto evidente che questa prima fase stia terminando, più che altro perché in questo mare di melassa indistinta il messaggio rimane uno solo, e nessuno alla fine ricorda il singolo brand. Nessuna di queste marche ha infatti preso la sua narrazione adeguandola alla situazione contingente, e questo fa capire come solo pochi brand siano riusciti nel tempo a costruire, partendo dalle proprie campagne, un immaginario coerente e riconoscibile. Eccezione è la solita Nike, che ha declinato la filosofia del “Just do it” (#PlayForTheWorld, Agenzia Wieden+Kennedy), non senza retorica ma con coerenza di marca.

Le aziende si sentono in dovere di partecipare a quello che succede per continuare ad avere una relazione con i propri consumatori; così, in una situazione di emergenza e di lockdown, hanno dovuto mettere insieme immagini di repertorio o estratte dai database delle library, accompagnandole con un messaggio totalmente inoffensivo.

C’è poi chi invece è riuscito a leggere coraggiosamente la quarantena e il lockdown con un tono di voce ironico, senza per questo risultare offensivo o impertinente. È il caso di Burger King, che ha rispettato la regola aurea della comunicazione di trasformare un problema in un’opportunità: se è vero che il consumatore standard di Burger King non è certo una persona atletica e iperattiva ma amante dell’ozio e del divano, allora la situazione di lockdown, dove l’imperativo è quello di restare a casa per il bene della salute pubblica, li trasforma in patrioti (couch patriots). La generalizzata “cattiva abitudine” di stare a poltrire sul divano diventa una pratica virtuosa (Stay Home, Agenzia FCB). Ma c’è di più. Burger King con l’agenzia Buzzman è riuscita a fare quello che oggi è più richiesto in pubblicità, ossia “fare qualcosa di utile e concreto”: lavorando sull’insight che i ragazzi sono tutti a casa provando a studiare, il brand di fast food ha postato sui canali social una serie di problemi ed esercizi di algebra, chimica e domande di letteratura: rispondendo esattamente, lo studente aveva diritto a un codice promozionale per un sandwich gratuito in abbinamento a un altro, da utilizzare attraverso il loro servizio di delivery. 

Sempre nella logica del brand che, nel momento della pandemia, decide di dare un contributo pratico alla sua community e ai potenziali clienti, Lonely Planet ha realizzato una divertente guida di viaggio per scoprire la propria casa, vivere esperienze nuove e particolari, per pianificare il proprio viaggio futuro con una serie di contenuti gratuiti video, playlist di canzoni e ricette legati a varie destinazioni e itinerari. Un modo per stare vicino (senza retorica), dare un servizio e creare una forte fidelizzazione. Bingo!

Il momento successivo

Dopo aver visto questi casi, alcuni discutibili e altri più interessanti ed efficaci, quali lezioni possiamo imparare per progettare nuove campagne pubblicitarie nella prossima fase due? Innanzitutto, abbiamo capito che forse per brand e aziende vale la pena concentrarsi su una dimensione ridotta: micro insight, a scomporre la realtà in piccoli tasselli per target ben definiti, magari offrendo un servizio realmente utile per le persone. È piuttosto evidente che dopo il fiume di retorica della prima parte del lockdown ora ci sarà anche la celebrazione delle piccole conquiste – rispettando le direttive di distanziamento – e quindi la prima gita fuori porta, rivedere i parenti, la prima volta al ristorante, eccetera. Evidentemente saranno avvantaggiati i brand con una narrazione e un immaginario molto forti, mentre gli altri dovranno pescare a piene mani dal contenitore dei luoghi comuni. 

In generale le prossime campagne, sia globali sia locali, racconteranno anche tra le righe la convivenza con il coronavirus, quindi è probabile che negli spot si vedranno persone con le mascherine, o scene di distanziamento sociale e quei piccoli sacrifici legati al nostro stile di vita ordinario. La verità è che non si tratterà solo di semplici campagne, ma di studiare e realizzare nuovi prodotti utili alla nuova fase. “In agenzia ultimamente mi hanno fatto vedere un’idea, ancora in costruzione, che parte dall’insight che andremo in giro con le mascherine e, incontrando le persone, il tuo sorriso non si vedrà direttamente, quindi lo sguardo e l’espressività degli occhi conterà sempre di più”, racconta Emanuele Nenna, co-founder e CEO dell’agenzia The Big Now/mcgarrybowen. “È un’ottima opportunità di comunicazione per i brand di make-up, lenti a contatto e occhiali che, focalizzandosi su un singolo aspetto, possono far nascere idee creative interessanti. E questo è solo un esempio tra tanti, che può farci uscire da un appiattimento generalizzato che a noi pubblicitari fa un po’ paura”.

È piuttosto evidente che dopo il fiume di retorica della prima parte del lockdown ora ci sarà anche la celebrazione delle piccole conquiste – rispettando le direttive di distanziamento – e quindi la prima gita fuori porta, rivedere i parenti, la prima volta al ristorante, eccetera. Evidentemente saranno avvantaggiati i brand con una narrazione e un immaginario molto forti.

C’è poi la questione più pratica che riguarda la produzione degli spot e dei film: le restrizioni per il distanziamento impediranno ancora per un po’ di mesi la realizzazione di campagne con una troupe numerosa. In questi giorni stiamo vedendo in tv dei classici spot da quarantena realizzati con flussi produttivi più snelli, come quello di Vodafone basato sull’estetica di Zoom, girato tutto da remoto utilizzando smartphone, webcam e macchine fotografiche, ma è chiaro che si tratta di un esperimento che non può durare a lungo. C’è chi come Honda e l’agenzia Ogilvy Dubai approfittano dello #StayHome per realizzare un’idea creativa che parte come un classico spot di automotive con la Civic che sfreccia, ma presto si scopre che l’auto è un modellino e l’intero spot è girato in casa. Idea carina, ma che funziona una volta sola. Se non sarà possibile girare spot come un tempo, nei prossimi mesi molti spot saranno di animazione, che permette di liberare la creatività senza troppi problemi.

E ci saranno infine i brand che sceglieranno il silenzio: non solo quelli che decidono di non esporsi, ma coloro (stiamo vedendo già esempi anche in Italia) che comunicano di non voler comunicare, spostando gli investimenti pubblicitari su donazioni alla ricerca o agli ospedali. È una scelta strategica, da valutare caso per caso per capirne la bontà. Il rischio però è di considerare la pubblicità come uno strumento poco etico e di sperpero inutile di denaro, quando invece proprio in questo momento di emergenza, la pubblicità deve essere uno dei motori per fare ripartire consumi e media, e quindi l’economia.


Michele Boroni

Scrive per Il Foglio, Wired, Il Messaggero, Rockol e Studio. Si occupa di contenuti e comunicazione per brand. Un tempo aveva un blog, ma gli è rimasto solo il nome – EmmeBi – con cui firma i suoi tweet. È stato autore tv e radio (tra gli altri Ghiaccio Bollente su Rai5 e Ogni Maledetta Domenica su Radio2) e ha scritto alcuni saggi sul marketing, ma sono tutti fuori catalogo.

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