Sempre più narrazioni contemporanee crime mettono al centro le donne come vittime, cercando però di ripensare profondamente gli stereotipi, automatismi o consuetudini. O almeno provandoci.
La nostra cultura è sempre stata ossessionata dalle ragazze morte: dalla loro bellezza, dalla loro presunta innocenza o trasgressione, e soprattutto dai loro corpi martoriati, mutilati e sessualizzati. Si pensi al mito di Ofelia, morta annegata e suicida nella tragedia shakespeariana Amleto; al celebre caso della Black Dahlia, che ha ispirato tante opere di registi, scrittori, musicisti; al film Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola; o alla serie cult Twin Peaks di David Lynch. Negli anni Novanta la domanda “Chi ha ucciso Laura Palmer?” diventò un’autentica ossessione per milioni di spettatori, affascinati dal mistero della diciassettenne dalle labbra blu e dalla pelle di porcellana, trovata morta in un telo di plastica. Da lì in poi, network e cable tv hanno iniziato a popolarsi di ragazze morte, specie nei crime: dai procedurali CSI e Law&Order: SVU alla serie di culto Veronica Mars, da The Killing fino alle più recenti True Detective, The Night Of o The Undoing, in cui le donne sono perlopiù un corpo, un mero oggetto sessuale.
Secondo molti critici, è stata proprio Twin Peaks a dare avvio al trope della “ragazza morta”, riproposto all’infinito nei cosiddetti “dead girl show”, quelle serie in cui “il corpo della vittima è un’arena neutrale sul quale risolvere i problemi maschili”, come spiega Alice Bolin nel suo Dead Girls: Essays on Surviving an American Obsession. In questo tipo di storie, i protagonisti sono quasi sempre detective dotati di grande intelligenza e tormentati, mentre le donne sono morte, silenti, e fungono da “catalizzatore per il divertimento delle indagini”. Negli ultimi anni però qualcosa è cambiato: nel 2018 Sharp Objects ha dimostrato che si può realizzare un crime-thriller di successo con ragazzine uccise senza feticizzare il loro corpo, e mettendo al centro della storia proprio delle protagoniste donne, tutt’altro che vittime silenti. La serie, molto apprezzata dalla critica e uscita a pochi mesi dal lancio del movimento #metoo, ha senza dubbio favorito la discussione sulla rappresentazione femminile all’interno del genere, tuttora in corso. “Perché siamo così attratti dai casi di cronaca nera?”; “è possibile rappresentare un femminicidio dando piena centralità alle vittime?”, sono alcune delle domande che hanno iniziato a prendere piede tra critici e studiosi. E se da un lato la fascinazione per true crime e thriller non si è mai arrestata, dall’altro proprio la serialità tv in questi mesi ha tentato, come mai prima d’ora, di rinnovare e ribaltare il genere, dando maggiore centralità alle donne rimaste troppo a lungo senza voce.
Ritratto angelico
Uscita quest’estate in Italia su Disney+, Under the Banner of Heaven rientra perfettamente nella descrizione di dead girl show: c’è la vittima, Brenda Lafferty, una donna giovane e bella, moglie e madre di una bambina, mormone; e c’è la coppia di detective, Jep Pyre e Bill Taba, che indagano sull’omicidio, mentre si muovono nella natura selvaggia e rurale dello Utah degli anni Ottanta. La serie ricorda molto True Detective ma presenta alcune notevoli differenze, a partire dal personaggio di Brenda: nel corso degli episodi, attraverso i numerosi flashback, scopriamo non solo perché è stata uccisa dai fratelli del marito ma anche chi era come donna, ancor prima di entrare a far parte della famiglia. “Si chiude qua dentro solo con le ragazze o anche con i ragazzi?”, chiede al suo professore di giornalismo in un episodio, quando tenta di molestarla. “È solo una domanda. Ma sono sicura che chiederà perché solo i maschi fanno i presentatori. E se ai piani alti non le daranno la risposta giusta, lei insisterà per riceverne una, da bravo giornalista. Perché sono certa che la mia domanda, sull’essere rinchiusa qui da sola con lei, farebbe scalpore”.
In questo senso, il personaggio di Brenda è rappresentato come una donna tutt’altro che silente ma anzi ambiziosa, indipendente e combattiva, circondata da uomini misogini, violenti e fanatici che l’hanno “punita” perché non era abbastanza sottomessa e silenziosa. La serie evita i dettagli sensazionalistici della sua morte, scegliendo di non mostrare né il corpo insanguinato né le scene di violenza: “Credo che sarebbe stata una violazione raffigurare una donna che viene massacrata dagli uomini in nome di Dio e di questa fede patriarcale”, ha spiegato il creatore Dustin Lance Black su Collider. “Rappresentarlo sarebbe stato un tradimento nei confronti di Brenda e delle donne. Non voglio dare ancora più potere a quel momento”.
In Mare of Easttown, Mare è il centro della storia e le indagini sulla dead girl sono ancora una volta un espediente utile alla protagonista per rielaborare un lutto – la morte del figlio suicida – mai del tutto superato, e per rimettere in piedi la sua vita, definita da lei stessa uno “shitshow”.
La questione della religione, intrecciata alla misoginia e al patriarcato, è il grande tema della serie, in quanto causa principale di un travaglio interiore che va al di là di Brenda e della sua storia. Se da un lato è evidente il tentativo di dare più voce e spazio alla vittima, dall’altro, in molti episodi la donna finisce letteralmente per scomparire dalla scena, a favore dei fratelli Lafferty, invischiati in una rete di bugie, abusi e crimini, e soprattutto del detective Jeb: mormone devoto ma tormentato perché proprio a causa delle indagini inizia a perdere la fede. Lo stesso Dustin Lance Black ha detto che “la serie vive nella testa dell’investigatore Pyre”, che entra in una profonda crisi dopo alcune scoperte sull’estremismo all’origine della religione mormone, nonché sulla corruzione e omertà della Chiesa. Come spiega David Canfield su Vanity Fair in Under the Banner of Heaven alla fine emergono i limiti del genere, in quanto “il ritratto angelico di una vittima femminile è messo al servizio dell’arco più ampio e complesso degli uomini che si contendono la sua memoria”.
Solo un espediente
Del resto, anche in Sharp Objects è presente la stessa contraddizione di fondo, con il delitto di due ragazzine che funge da “specchietto per le allodole” per esplorare il trauma, la rabbia e il dolore delle protagoniste, in primis di Camille: giornalista solitaria e alcolizzata, motore e cuore pulsante della storia. Qualcosa di simile è messo in scena anche in Mare of Easttown, che ha come protagonista Mare: ennesima broken woman e detective tormentata, che inizia a indagare sulla morte di Erin, ragazza madre single, ritrovata nuda e senza vita in un torrente, in una piccola cittadina della Pennsylvania. Proprio come Camille, Mare è il centro della storia e le indagini sulla dead girl sono ancora una volta un espediente utile alla protagonista per rielaborare un lutto – la morte del figlio suicida – mai del tutto superato, e per rimettere in piedi la sua vita, definita da lei stessa uno “shitshow”.
A differenza di Sharp Objects e Under the Banner of Heaven, però, Mare of Easttown indugia più volte sul corpo nudo e martoriato di Erin, tanto che alcune inquadrature ricordano molto quelle della celebre Laura Palmer. Eleanor Howell su Bitchmedia scrive che “se da un lato le serie come Mare of Easttown mettono in discussione il patriarcato, dall’altro lo supportano”, perché tutto ruota intorno a varie forme di abuso, tanto che alla fine la giornalista si chiede se “è possibile raccontare storie di detective donne senza il dolore ingiustificato delle donne”. Su Slate Anna Nordberg scrive invece: “è necessario un omicidio per rendere una serie Hbo sulle donne un successo?”. Mare of Easttown infatti, andata in onda nell’aprile 2021, è diventata la seconda serie nella storia del canale a crescere settimana dopo settimana, con 4 milioni di spettatori nel weekend di messa in onda del finale. La prima serie era stata The Undoing (in onda su Hbo nel 2020): thriller che marginalizza la vittima di femminicidio, ovvero l’ennesima madre giovane, bella e sensuale, quasi sempre nuda e silente come vuole la tradizione dei dead girl show più classici. Quelli in cui “una ragazza morta non è un ‘personaggio’ della serie ma piuttosto il suo ricordo”, come spiega Bolin nel suo saggio, mentre “il corpo delle ragazze è sia fonte che bersaglio della malvagità sessuale”, oggetto di feticizzazione per soddisfare il male gaze.
Nuovi punti di vista
The Undoing mette in scena proprio tutta quella serie di stereotipi sessisti e problematici che i più recenti crime stanno cercando, con fatica, di ribaltare o cancellare. David Canfield su Vanity Fair scrive che “tutti i ‘murder show’ usciti questa primavera sono stati concepiti come una sorta di correttivo morale”, un tentativo di riparare ai danni fatti in passato. Tra questi c’è per esempio il crime Candy (Disney+), ispirato a un caso di cronaca avvenuto in Texas nel 1980, e che propone un interessante aggiornamento del genere ma fallisce ancora nella narrazione della vittima. La protagonista della serie non è una detective ma l’assassina Candy Montgomery, accusata di aver ucciso la vicina di casa Betty Gore, a causa della relazione extraconiugale che ha avuto con il marito di quest’ultima. Nel corso degli episodi, Candy gioca molto nel mettere a confronto le due donne, diverse – Candy è disinvolta, determinata, ben integrata nella comunità; Betty è insicura, depressa e sola – ma anche simili, entrambe casalinghe infelici e represse, date per scontate dai rispettivi mariti. Ma nonostante i numerosi flashback, a poco a poco il personaggio di Betty finisce ai margini della narrazione, diventando una presenza spettrale e silente.
“Le storie di crimine sono onnipresenti nella nostra cultura non solo per il loro fascino trasgressivo, ma anche per il loro potere di rafforzare l’ordine sociale”, che vede le donne come vittime indifese, da proteggere e punire insieme, nell’eterno complesso Madonna-prostituta. Decostruire i dead girl show significa allora mettere in discussione l’ordine sociale vigente, ripensarlo per rovesciarlo.
“Questa è la tua storia”, dice la donna, che come un fantasma appare in tribunale e giudica la sua assassina, che ha appena finito di raccontare la sua versione dei fatti, spingendo chi guarda a crederle e parteggiare per lei. Come scrive Stephanie McNeal su BuzzFeed, è una storia “scritta dai vincitori”, che lascia fuori il punto di vista di Betty, dato che non sapremo mai cosa pensa, qual è il suo punto di vista né cosa è successo tra le due. Come Mare of Easttown, del resto, la serie Candy prende il nome dalla sua protagonista, e lo stesso vale anche per The Girl from Plainville: basata sul noto “texting-suicide case” del 2014, è incentrata sulla storia di Michelle Carter, accusata di aver istigato al suicidio il ragazzo Conrad Roy. Anche qui la protagonista è la carnefice: una ragazza insicura, sola ma anche manipolatrice e inquietante, difficile da decifrare. La serie esplora il tema delle malattie mentali, toccando anche molte altre questioni che riguardano gli adolescenti – dai disturbi alimentari all’emarginazione sociale – ma senza approfondire il rapporto disfunzionale tra i due. Tanto che alla fine la stessa Michelle, condannata per omicidio colposo, rimane un autentico mistero per chi guarda, incapace di stabilire se ciò che l’ha spinta sia stato un atto di compassione, una malsana ricerca di attenzioni o persino le medicine che stava assumendo. Su AvClub Saloni Gajjar scrive che The Girl from Plainville “non ha nulla da dire sulla protagonista o sulle sue motivazioni, solleva molte domande senza fornire risposte definitive”.
Puzzle intricato
Alla fine, in tutte queste storie è evidente come il tentativo di restituire spazio e voce alle donne finisca spesso per essere vano o poco riuscito, specie se si tratta delle vittime, perlopiù usate come plot devise, e un simbolo dei mali del patriarcato. Quest’estate però è uscito anche un altro crime, nuovamente ispirato a un caso di cronaca nera, che evita di cadere nei soliti errori, proponendo un ritratto accurato della vittima. The Staircase ricostruisce il caso giudiziario del 2004 che vide Michael Peterson, scrittore del North Carolina, accusato di aver ucciso la moglie Kathleen, donna in carriera, ritrovata senza vita sulle scale della loro casa. La serie non si concentra sul punto di vista del detective o dell’assassino ma mette in scena “il caso delle scale” a 360°, focalizzandosi su tutti i componenti della famiglia. E raccontando nel dettaglio le diverse teorie, i possibili scenari – la morte di Kathleen è mostrata tre volte, in modo cruento ma mai gratuito –, ma anche i tanti segreti, indizi e piccoli dettagli rivelatori. In questo modo, il personaggio di Kathleen non è al servizio della storia di qualcun altro ma una protagonista della storia a tutti gli effetti, con lo stesso spazio e importanza degli altri.
Nel penultimo episodio, per esempio, The Staircase indaga la complicata relazione tra i coniugi Peterson, mettendo in scena un litigio avvenuto in un ristorante quattro giorni prima della morte di Kathleen: “Io sono impegnata a lavorare, a crescere i tuoi figli […]. Mentre tu continui a vivere la tua vita andando in palestra, urlando ai cani e spendendo i miei soldi, promettendomi questi grandi e bellissimi sogni come Parigi, ma poi non fai un cazzo per realizzarli”, dice la donna a Michael. “Pensavo di aver sposato un uomo. Invece è venuto fuori che era un bambino, bravo solo a ordinare da bere al bar”. La scena è breve ma si tratta di un momento chiave, perché in poche battute ci fornisce un altro tassello di questo puzzle intricato, facendo emergere la rabbia e il risentimento della donna nei confronti del marito.
Sarebbe superficiale però definire Kathleen semplicemente una moglie frustrata e infelice; in realtà è una donna fin troppo sfaccettata per essere costretta in qualche stereotipo: in un episodio la vediamo preoccuparsi dei figli, in un altro disinfestare da sola la soffitta piena di pipistrelli, in un altro ancora farsi fare rimming dal marito mentre cucina. Richard Lawson su Vanity Fair ha definito The Staircase la “serie true crime che le chiude tutte”, proprio grazie al lavoro di scrittura minuzioso che non ha alcun interesse nel fornire al pubblico risposte certe. Al contrario, guardando la serie “siamo destinati a essere – credo – disorientati e sempre in dubbio, incerti se un flashback su Kathleen sia presentato come una prova eloquente o semplicemente come uno sforzo per dare agency alla donna morta e senza voce al centro della storia. In alcune occasioni, forse si tratta di entrambe le cose”. The Staircase nega insomma il senso di soddisfazione che deriva dall’aver risolto un mistero e indovinato chi è l’assassino, decostruendo il genere a partire dalla sua dead woman. Alice Bolin scrive: “Le storie di crimine sono onnipresenti nella nostra cultura non solo per il loro fascino trasgressivo, ma anche per il loro potere di rafforzare l’ordine sociale”, che vede le donne come vittime indifese, caste e sensuali, da proteggere e punire insieme, nell’eterno complesso Madonna-prostituta. Decostruire i dead girl show significa allora mettere in discussione l’ordine sociale vigente, ripensarlo per rovesciarlo. Ma come dimostrano tutte queste storie, non è un’impresa così facile.
Manuela Stacca
Laureata presso l'Università di Sassari, si occupa di critica cinematografica e televisiva per alcune testate online.
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