Un filo conduttore delle narrazioni tv contemporanee del femminile è la rabbia. Che non è più solo uno scatto d’ira, ma una ribellione sociale e una nuova forma di aggregazione.
Nel video di “Hold Up”, Beyoncé cammina per le strade con una mazza da baseball. Sorriso sulle labbra e vestito giallo in chiffon, all’improvviso inizia a distruggere tutto ciò che le sta intorno: il vetro di una macchina, un idrante, una telecamera e così via. Ancora e ancora, sfogando una furia repressa, scaturita dalle tante bugie, tradimenti e sacrifici che racconta nella canzone. Il video ha riscosso subito un grande successo – e un divertente omaggio di Unbreakable Kimmy Schmidt – come il visual album Lemonade (2016), percorso di autocoscienza della cantante, tra femminismo, black power e sorellanza. Un grido di rabbia che finalmente viene espressa e rivendicata senza paura e vergogna.
La rabbia delle donne è stata socialmente osteggiata, derisa e associata all’isteria. “La rabbia nelle donne è stata storicamente considerata un difetto, un peccato, un segno di malattia mentale, declino morale e caos”, scrive Soraya Chemaly, autrice di Rage Becomes Her: The Power of Women’s Anger. Ma oggi le donne non sembrano più disposte a nascondere la loro furia. Le proteste femministe in giro per il mondo, la Women’s March, le storie del #MeToo hanno incrinato il tabù e restituito alle donne il diritto di essere arrabbiate per le ingiustizie, discriminazioni e abusi subiti. E quella di Beyoncé è solo una delle tante e riuscite rappresentazioni della women’s rage che di recente ha iniziato a emergere nella pop culture.
Eroine femministe
Prendiamo Marvel’s Jessica Jones, creata da Melissa Rosenberg, la cui seconda stagione è arrivata su Netflix l’8 marzo 2018 – non a caso, la giornata internazionale della donna. Il nuovo ciclo di episodi prosegue la storia della supereroina e investigatrice privata dopo l’uccisione di Kilgrave e gli eventi del crossover The Defenders. Affetta da PTSD, cinica, solitaria e alcolizzata, Jessica è più arrabbiata che mai. Liberarsi della sua nemesi, che aveva abusato ripetutamente di lei, non le ha permesso di trovare pace. Anzi, ha generato nuovi problemi e conflitti interiori: da un lato, inizia a interrogarsi se sia davvero un’assassina; dall’altro, ora che tutti conoscono le sue abilità, c’è chi la chiama “mostro”, chi tenta di commissionarle un omicidio e chi, ancora, la definisce “bomba a orologeria”. Ogni volta Jessica reagisce in maniera più violenta, litigando, distruggendo oggetti e aggredendo clienti e non. Tanto che, a un certo punto, decide di frequentare una terapia di gruppo per il controllo della rabbia: “La mia famiglia è morta in un incidente d’auto, qualcuno ha fatto esperimenti terribili su di me, sono stata rapita, stuprata e obbligata a uccidere qualcuno”, racconta Jessica, mentre rimbalza una palla contro il muro, fino a distruggerlo.
All’uscita della nuova stagione, Entertainment Weekly ha definito Jessica Jones la “supereroina del movimento #MeToo”, ma è interessante sottolineare come gli episodi siano stati scritti prima che lo scandalo su Weinstein deflagrasse. Marvel’s Jessica Jones non è esente da limiti e difetti di scrittura, ma senza dubbio è riuscita a intercettare quella rabbia femminile che ribolliva da tempo, esplorandola da vari punti di vista. Jessica infatti non è la sola a covare una rabbia tale da condizionare le proprie azioni. La sua migliore amica Trish è arrabbiata per una serie di traumi del passato, l’essere stata sfruttata e abusata, anche sessualmente, nella sua carriera di attrice. Per questo fa di tutto per acquisire poteri che la rendano forte e invulnerabile. Si aggiungono l’avvocata Jeri Hogarth, furibonda dopo la scoperta di avere la Sla. E Alisa, madre di Jessica, che si scopre essere ancora viva grazie agli esperimenti dell’Igh (la stessa clinica che ha salvato e dato i poteri alla protagonista): la donna è divorata da furia incontrollabile che la rende una macchina impazzita, un’assassina feroce consumata dal risentimento, dalle bugie e dai rimpianti. Come ha dichiarato l’attrice, Janet McTeer: “Questi personaggi sono danneggiati dall’abuso, ma stanno comunque lottando, per superarlo ed essere felici. Sono forti e deboli allo stesso tempo”.
Jessica Jones e Sharp Objects sono quindi due ritratti di rabbia femminile distruttiva e autodistruttiva, di donne capaci di esprimere la loro furia solo come forza bruta o sfogo temporaneo. Quello che manca è la rabbia usata per cambiare le cose, in primis se stessi.
Broken women
A essere segnate dall’abuso sono anche le protagoniste di Sharp Objects, creata da Marti Noxon, diretta da Jean-Marc Vallée e tratta dal romanzo di Gillian Flynn. La serie Hbo segue le vicende della reporter Camille Preaker, costretta dal suo capo a tornare nella cittadina natale, Wind Gap, per seguire il caso della scomparsa di due ragazze. La giornalista incarna il ruolo della broken woman: tormentata, auto-distruttiva, dipendente dall’alcool, uscita di recente da una clinica psichiatrica e segnata dalla morte prematura della sorellastra Marian. Al suo fianco ci sono altre due coprotagoniste: Adora, madre di Camille, severa e castrante, ossessionata dal decoro e dalle apparenze; e Amma, sorellastra della protagonista, adolescente egocentrica e ribelle che dietro la maschera della ragazza educata e perbene nasconde tendenze sociopatiche. Sin dall’inizio la storia è puntellata da piccoli, ripetuti scatti d’ira, costantemente nascosti e repressi. Per una donna urlare e sfogare l’ira in pubblico non è accettabile in una comunità asfissiante, malsana e retrograda come Wind Gap, di cui Adora diventa personificazione. Ma, come spiega Chemaly, la rabbia è come l’acqua: “Non importa quanto una persona cerchi di digerirla, dirottarla o negarla, di solito troverà un modo, una via più facile”.
La sottile rabbia repressa in Sharp Objects finisce per incanalarsi in forma di autolesionismo o abuso verso gli altri: Camille sfoga su se stessa la rabbia, il dolore e il senso di colpa, riempiendo il suo corpo di tagli, cicatrici e parole come “vanish”, “dirt”, “freak”, “wrong”. Adora, abusata da piccola dalla madre e abbandonata dal marito e padre di Camille, è l’assassina della piccola Marian e ha tentato di avvelenare anche le altre due figlie, spinta da un perverso desiderio di potere, controllo e attenzioni. Infine Amma, costretta nei panni di “bambolina” e figlia devota, da vittima della madre diventa carnefice: è lei l’insospettabile serial killer delle due ragazze brutalmente uccise, colpevoli di aver rubato l’attenzione di Adora e di essere “diverse” e imperfette rispetto agli alti standard imposti dalla città. Amma però non agisce da sola ma con altre due amiche. Ciò è indicativo di come l’origine della rabbia non risiede (solo) nei singoli traumi ma in una cultura opprimente, che sottovaluta le donne e le ingabbia in soffocanti ruoli e stereotipi. Wind Gap non è altri che lo specchio di una società-matrigna meschina e misogina che punisce ed elimina ogni diversità e trasgressione. Come ha dichiarato Flynn, Sharp Objects parla “di quel che succede alle donne quando sono costrette a ingoiare il rospo, e a cosa succede a quella rabbia”.
Cambiare se stessi per cambiare il mondo
Jessica Jones e Sharp Objects sono quindi due ritratti di rabbia femminile distruttiva e autodistruttiva, di donne capaci di esprimere la loro furia solo come forza bruta o sfogo temporaneo. Quello che manca è la rabbia usata per cambiare le cose, in primis se stessi, presente invece in Dietland. Tratta dal romanzo di Sarai Walker, anche questa serie è creata da Marti Noxon, e insieme a Sharp Objects e alla pellicola Fino all’osso (su Netflix nel 2017) costituisce la “trilogia dell’autolesionismo”. La serie racconta la storia di Plum, donna di 150 kg, perennemente a dieta e in attesa di poter fare un intervento di bypass gastrico, che lavora come ghostwriter per una rivista di moda. Dietland si scaglia contro il patriarcato, il sessismo, l’industria della moda con i suoi impossibili standard di bellezza, la violenza sulle donne. E lo fa con Jennifer, gruppo femminista estremista che inizia a rapire e uccidere predatori sessuali, al quale finirà per aderire anche la protagonista. A spingere Plum a collaborare con Jennifer è proprio la rabbia verso una società che l’ha sempre emarginata e giudicata a causa del suo aspetto fisico.
All’inizio della storia, la vediamo costantemente vestita con abiti neri, struccata, nel tentativo di essere il meno appariscente possibile. Quasi invisibile. Tutto cambia quando conosce le esponenti di Jennifer ed entra a far parte di Calliope House, un club femminista: nel sesto episodio, Plum assiste a una serie di filmati porno, in cui le donne – magre e attraenti come lei vorrebbe essere – sono (mal)trattate come oggetti sessuali. La visione origina una rabbia tale da risvegliare una nuova coscienza di sé e del mondo: non è lei a essere sbagliata, ma la cultura in cui vive. Plum inizia così a mangiare, a vestirsi come vuole e a riprogettare la sua vita. La nuova visione la spinge a fare qualcosa di concreto e positivo per sé e per gli altri, e a contribuire alla causa femminista. Spiega Noxon: se Sharp Objects parte dall’autodistruzione femminile, Dietland esplora “il contrattacco. Il definire se stessi al di fuori del sistema. Il cambiare se stessi per cambiare il mondo”.
Donne vendicatrici
A differenza della seconda stagione di Jessica Jones, la lavorazione di Dietland non era ancora terminata quando è scoppiata la discussione sulle molestie. Noxon ha aggiunto in fase di scrittura dialoghi e diretti riferimenti a Weinstein, ma non è stata la sola. Dall’estate 2018, il #MeToo è entrato di prepotenza nello storytelling televisivo. A differenza di altri titoli, però, diventati veri manifesti della lotta femminista – su tutti The Handmaid’s Tale – Dietland non è riuscita a ottenere il successo sperato ed è stata chiusa dopo una stagione. L’incapacità di bilanciare tutti i temi e le storie messe in scena sono i suoi limiti più evidenti. Ma rimane comunque l’audacia di una fantasia vendicativa per certi versi rivoluzionaria.
A eccezione di pochi titoli – Buffy, Kill Bill, Mad Max Fury Road, Revenge – di rado le donne nella cultura pop sono rappresentate come vendicatrici. “I supereroi maschi distruggono casualmente intere città e non si preoccupano mai di esaminare i danni”, sottolinea Time, ma quando le donne usano la violenza – che sia per giusta causa o meno – è scandaloso. Il gruppo femminista Jennifer di Dietland non è altri che la rappresentazione più estrema e violenta della rabbia repressa, che trova sfogo nella vendetta pura. Allo stesso tempo, però, le ideatrici di Jennifer sperano che i loro gesti forti – e moralmente discutibili – mettano in moto un cambiamento sistemico e globale. Sperano che le loro azioni abbiano un impatto sulla società e sulle singole persone: le donne iniziano a sentirsi più libere, più coraggiose e più forti. Per la prima volta, sono gli uomini ad aver paura di camminare per strada e uscire da soli la notte.
Più volte nel corso della stagione vediamo le protagoniste urlare, inveire e sfogare la rabbia senza paura, anche tra loro. Ma alla fine mettono da parte i reciproci rancori e decidono spontaneamente di allearsi in difesa di Celeste, brutalmente picchiata dal marito di fronte a tutte. La loro rabbia funge da collante e da forza propulsiva, spingendole a reagire e a difendersi l’una con l’altra.
Sorellanza arrabbiata
Per Rebecca Traister, autrice di Good and Mad: The Revolutionary Power of Women’s Anger, la rabbia femminile è stata regolarmente sminuita perché a un certo punto può diventare una reale minaccia: “ha il potere di mettere in pericolo il ruolo della minoranza”. La rabbia rovescia lo status quo, cambia gli equilibri, specie se incanalata nella giusta direzione e sostenuta da una solida solidarietà reciproca. Il Guardian parla di “angry sisterhood“ per descrivere questa furia femminile in tv. E Big Little Lies – uscita a febbraio 2017 – ne è l’esempio più riuscito. La serie, diretta da Jean-Marc Vallée e tratta dal romanzo omonimo di Liane Moriarty, mette al centro cinque donne, amiche e nemiche, accomunate da un grande senso di frustrazione e rabbia repressa. Madeline è infelice della propria vita, non si sente realizzata come moglie e madre, litiga con tutti e per i motivi più disparati, incapace di capire e gestire i propri sentimenti. Celeste è intrappolata in una relazione tossica: il marito Perry la picchia e tenta di controllarla e privarla di autonomia. Jane, giovane madre segnata dallo stupro subito, è preoccupata che il figlio, nato a seguito di quell’abuso sessuale, abbia ereditato il carattere violento del padre. A loro si aggiungono Bonnie e Renata: la prima è costantemente fraintesa, trattata con sufficienza e ignorata; la seconda è furiosa perché la figlia è vittima di bullismo e non sa come proteggerla.
Più volte nel corso della stagione vediamo le protagoniste urlare, inveire e sfogare la rabbia senza paura, anche tra loro. Ma alla fine mettono da parte i reciproci rancori e decidono spontaneamente di allearsi in difesa di Celeste, brutalmente picchiata dal marito di fronte a tutte. La loro rabbia funge da collante e da forza propulsiva, spingendole a reagire e a difendersi l’una con l’altra. Non solo nel fronteggiare Perry, ma anche nel proteggere Bonnie che, in un gesto istintuale e liberatorio, lo ha spinto oltre il parapetto, uccidendolo. “Loro diventano una cosa sola”, ha dichiarato Vallée, “e diventano forti come l’oceano violento e arrabbiato” mostrato nella sequenza. Il regista ha messo in scena un manifesto dell’amicizia femminile e della “sorellanza arrabbiata”, potente e minacciosa. La stessa che sta alla base del #MeToo e di tutti i femminismi. Non a caso, Big Little Lies ha riscosso un grande successo ed è stata acclamata agli Emmy 2017 e ai Golden Globe 2018, ottenendo il rinnovo per una seconda stagione.
Nel 2016 la scrittrice Roxane Gay sul New York Times ha scritto: “La rabbia ci permette di esprimere insoddisfazione. Ci consente di dire che qualcosa non va. La sfida è conoscere la differenza tra rabbia utile, il tipo che può suscitare rivoluzioni, e il tipo inutile che può abbatterci”. Come si evince da tutte queste serie tv, si tratta di un’impresa tutt’altro che facile. Ma una cosa è certa: le donne sono molto arrabbiate, sia sullo schermo che fuori, e non hanno più intenzione di scusarsi per questo.
Manuela Stacca
Laureata presso l'Università di Sassari, si occupa di critica cinematografica e televisiva per alcune testate online.
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