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Celebrazioni

I vent’anni di Star Wars: La minaccia fantasma

Il 19 maggio 1999 usciva nei cinema il quarto, o meglio il primo film di Guerre stellari. Quello che si può saltare, quello che ha fatto arrabbiare tutti. Ma perché non festeggiare i fallimenti?

Nel 1999 il vecchio e il nuovo si scontrarono giusto in tempo per mostrare chi avrebbe dettato legge all’alba del nuovo millennio. Da una parte, la fantascienza de Il tredicesimo piano, eXistenZ e Matrix sondava i terreni già minati dal cyberpunk, offrendo dissertazioni sui concetti di realtà, umanità e rapporto con le tecnologie, nonché nuove estetiche da saccheggiare. Dall’altra, c’era chi con il fantastico si rivolgeva al passato. Il gigante di ferro, modello di classicismo che mischiava E.T., Norman Rockwell e la paranoia da guerra fredda in un film per altri tempi, troppo posato per resistere all’accelerazionismo tecnologico di Tarzan, Toy Story 2 o La mummia. Quest’ultimo, pur retrò, si avvaleva di effetti speciali e una sceneggiatura che sapeva di parlare a un pubblico che guardava Friends e indossava tute sportive. Stava nel suo tempo, in pratica. Poi, categoria a sé, c’era Star Wars. Che categoria a sé l’ha sempre un po’ fatta. L’epopea di George Lucas tornava in pompa magna dei cinema dopo un decennio di semi-inattività in cui la saga era stata tenuta in vita solo da un gruppo di appassionati che continuavano a guardare i vecchi film, comprare i libri, leggere i fumetti, ricomprare le videocassette.

Nel maggio 1999, Lucas portava al cinema il primo capitolo di una nuova trilogia che avrebbe raccontato gli anni di giovinezza di Obi-Wan Kenobi e le origini di Darth Vader. Star Wars era un sacro graal del cinema, il prodotto che aveva mischiato avventure da serial e fantascienza morbida, creando una space opera omnicomprensiva. Un’operazione che Lucas confinò in tre film e qualche esperimento televisivo, per non rovinarne il fascino. Data la sua estensione limitata, non poteva essere tacciata di scarsa qualità come era capitato, prima a poi, a ogni franchise. Certo, Il ritorno dello Jedi e gli spin-off dedicati agli Ewok, i piccoli orsetti spaziali che comparivano nel film, non potevano dirsi tanto belli quanto i precedenti episodi, ma erano, appunto, solo “meno belli”. E il resto della produzione, tra videogiochi, romanzi e fumetti, aveva tenuto viva la passione grazie alla sua qualità quasi sempre buona.

L’attesa e il ritorno

Quindi, quando Lucas annunciò di essere al lavoro su una nuova trilogia, si creò subito un’attesa spasmodica. Il primo film a uscire dalle gabbie, La minaccia fantasma, produsse tre risultati: cambiò l’approccio di Lucas all’infrastruttura che muoveva questi film, popolarizzò il concetto di prequel e mostrò al mondo quanto malriposte potevano essere certe speranze. I tre film usciti tra il 1999 e il 2005 sono ricordati per le battute su Jar Jar Binks (la spalla comica odiata da tutti gli spettatori sopra i dieci anni), i midi-chlorian, i dialoghi legnosi (“Non mi piace la sabbia. È granulosa, ruvida, e irrita la pelle, e s’infila dappertutto”), la recitazione lasciata all’estro individuale degli attori, l’introduzione di Anakin Skywalker, che passa da essere il cattivo più temuto del cinema a un ragazzino irritante. A vent’anni di distanza è questo il best of su cui si fonda la demolizione di Lucas presso critica e pubblico.

Come ora si è distanziato dalla sua creatura e la guarda marciare, espandersi e diventare un impero, negli anni Ottanta, chiuso nel suo ranch a nord di San Francisco, George Lucas si era isolato dal mondo. La biografia di John Baxter riporta una scenetta in cui John Milius, Steven Spielberg e Harrison Ford sono costretti a fare la fila, a una grigliata organizzata a casa di Lucas, per poterlo salutare. “Erano lì a fissarlo mentre il fragile uomo in camicia a quadri, jeans e sneaker si avvicinava a loro”. Dopo Star Wars aveva dichiarato che sarebbe tornato a fare film sperimentali come L’uomo che fuggì dal futuro o come i suoi primi cortometraggi, in cui tentava di distillare in purezza suoni e immagine. Ma quei film non erano mai usciti e lui certo non li aveva girati. Aveva smesso i panni del regista, un mestiere che non lo aveva mai affascinato per via di tutte le complicazioni (parlare con gli attori, girare in esterni) che bisognava superare per arrivare all’unico momento che lo coinvolgeva, il montaggio. Era diventato produttore a tempo pieno, aiutando amici, soci e maestri a realizzare i loro film. Star Wars era alle spalle.

Mai a suo agio con le critiche, si sottrasse al gioco del confronto e, cieco di fronte ai vari scivoloni della sua casa di produzione Lucasfilm (Howard e il destino del mondo, Benvenuti a Radioland), sviluppò la presunzione di non poter sbagliare. Non vi sareste fatti venire anche voi il complesso di Dio se foste stati i creatori di Guerre stellari e Indiana Jones? A un certo punto, però, dovette rimettersi al lavoro. La Lucasfilm, che aveva fondato in totale indipendenza, aveva bisogno di entrate stabili e gli ultimi film non avevano fatto registrare grandi incassi. Ci voleva qualcosa di grosso, di affidabile. Qualcosa tipo Star Wars. L’avrebbe realizzato finalmente senza alcun vincolo. Le tecnologie avevano reso più digeribili i compiti da cineasta. Certo, doveva sempre parlare con gli attori, ma accumulare girato da assemblare mille e una volta in cabina di montaggio era diventato molto più facile.

Si circondò di persone che non avevano il coraggio di frapporsi tra lui e le sue idee. Come potevano? La Storia aveva già impartito la sua lezione: i dirigenti che rifiutarono di produrre il Guerre stellari originale si erano pentiti della loro scarsa lungimiranza, la troupe che rideva di Lucas e dei suoi personaggi strambi durante le riprese ora era a sua volta irrisa. Chi aveva tacciato Guerre stellari di essere un filmetto scemo si vergognava di aprire bocca, chi ne aveva scorto i pregi se lo appuntava al petto come medaglia. E quelli che avevano davvero creduto in quei film e avevano contribuito a farne sbocciare il potenziale, andando magari contro l’opinione di Lucas, erano stati allontanati. Persone come Gary Kurtz, il produttore dei primi due film, o Marcia Lucas, moglie del regista e montatrice di Guerre stellari, cancellata da ogni cronaca in seguito al loro divorzio. In loro assenza, Lucas aveva ripensato molti luoghi della saga, alterando, tra le tante, la scena in cui Han Solo spara per primo a un cacciatore di taglie che lo sta per catturare. Perché Han, per Lucas, non era più un mercenario dal codice morale sui generis, ma un cowboy alla John Wayne. E John Wayne non avrebbe mai sparato per primo.

Riluttante a interviste e apparizioni pubbliche, per il ritorno in scena si fece seguire da una squadra di documentaristi, volle immortalare il primo giorno al lavoro sulla sceneggiatura (1° novembre 1994, nel caso interessasse), con tanto di racconto su come aveva dormito, l’indisposizione della figlia minore e cosa aveva in mente di scrivere. C’era grande confidenza con l’intervistatrice e quei filmati ritraggono il Lucas pubblico più a suo agio con la propria immagine. Sembrava che gli anni di ritiro lo avessero reso più sicuro di sé, estroverso e incline alla condivisione. Riteneva che il film avrebbe avuto la portata sismica del primo Guerre stellari e che valesse la pena deificare ogni momento della creazione.

Non era solo questione di ego, i filmati non sarebbero rimasti chiusi in una teca per volere del bizzoso protagonista – come accadeva regolarmente a qualsiasi impresa associata a Michael Jackson. Con La minaccia fantasma Lucasfilm diventò il primo studio cinematografico a implementare la promozione tradizionale con quella sul web, pensata per gli appassionati, in gran parte gente che, per affinità elettive, era anche avvezza all’internet e ne aveva adottato le dinamiche prima degli altri; attendevano ore intere davanti all’homepage del sito ufficiale per scaricare brevi documentari che raccontavano il progredire della produzione, dalla stiratura dei costumi alla registrazione della colonna sonora. Chi sottoscriveva un abbonamento aveva accesso a una sezione che quelli del marketing avevano chiamato “hyperspace”, in omaggio alla velocità della luce che raggiungono le astronavi nei film. Questo da un lato generava affezione nei confronti di un film che non si era visto ma di cui si erano seguite le vicende produttive, magari lasciando un obolo; dall’altro, faceva sì che lo spettatore si costruisse una versione del film nella propria testa verso cui il prodotto finale mai avrebbe potuto essere all’altezza.

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La delusione

La battuta era che il film guadagnò così tanto perché i fan, colti dalla sindrome di Stoccolma, tornavano a vederlo sperando di aver frainteso la visione precedente. Non poteva essere così brutto. Facile capire lo spaesamento. La minaccia fantasma è un film anomalo – come tutta la trilogia di prequel: indipendente, fatto a mano, scritto nel tavolo di una cucina senza l’interferenza di alcun produttore o dirigente, nel bene e nel male. I prequel sono Lucas nella sua forma più pura eppure più deviata, plasmato da anni di isolamento creativo in cui la sua mente doveva aver vagabondato su percorsi non segnati dalle mappe. La prima bozza della sceneggiatura dimostra quanto intenzionale fosse il cambiamento di tono. Quel primo tentativo raccontava infatti una storia sobria e adulta: Jar Jar era un piccolo Buddha, Anakin la presenza inquietante che tutti si sarebbero aspettati, Obi-Wan l’eroe al centro dell’azione. Troppo simile a quello che già aveva fatto in passato, troppo canonico, troppo rassicurante.

E se forse è un po’ difficile concordare con Roger Ebert, che definì La minaccia fantasma un film in cui “percepisci a ogni scena l’entusiasmo della scoperta, l’esaltazione dell’avventura”, di certo la pellicola non manca di sperimentare e provare cose nuove. È un film che gioca col montaggio facendosi turbinio di suoni, immagini e drastiche svolte di tono. Nel troncone finale alterna la morte di un venerato maestro, la commedia slapstick di un giullare alieno che scopre l’utilità dei suoi difetti, l’eccitazione di un bambino al volante di un’astronave e schermaglie su accordi mercantili, in un tentativo coraggioso di rinnovare stile e contenuti. Certo, poi non tutto si coagula come dovrebbe, perché è evidente che la mano di Lucas sia interessata a certe cose e ad altre meno. Un supervisore degli effetti speciali ricorda che Lucas improvvisò una spiegazione di un quarto d’ora sul funzionamento degli sgusci – i veicoli protagonisti di una gara adrenalinica – mentre dedicò meno tempo e ragionamenti alla recitazione degli attori. “Parla da cattivo” fu l’unica direzione che diede al doppiatore di Darth Maul.

I prequel si macchiano di molti peccati (l’abuso di computer grafica, l’abbassamento dell’età del target di pubblico e la scarsa abilità di Lucas come direttore di attori e dialoghista) ma quello capitale è “la profanazione sistematica di tutto ciò che ha reso Star Wars la roba più mitica che c’è”, come spiega Simone Laudiero in un bel pezzo di qualche tempo fa. Era ancora Star Wars, perché, sulla carta, La minaccia fantasma non è diverso da Guerre stellari. C’è lo stesso sincretismo estetico, filosofico e religioso che caratterizzava la trilogia originale. Senza nessuno a frenare le idee più bizzarre, Lucas riempie quello che dovrebbe essere un film per bambini di intrighi burocratici e sermoni politici, mette in scena un personaggio – Jar Jar Binks, sempre lui – che è un miscuglio di Toshiro Mifune ne I sette samurai, Danny Kaye e i giullari del medioevo, parla di convivenza pacifica tra popoli. Ogni fotogramma diventa un patchwork di scampoli ritagliati da Gli argonauti, dalla moda mongola di primo Novecento, dai film di Akira Kurosawa, dall’arte africana, dalla Grande Guerra, proprio come in Guerre stellari, soltanto sparato al massimo e con polarità invertite. Lo si capisce subito dall’impianto del design: se nella trilogia originale tutto aveva un look sporco, vissuto, industriale, con tinte opache, profili dritti e angoli retti, nei prequel ogni astronave sembrava appena uscita dal concessionario, le superfici erano lucide e scintillanti, le forme morbide e voluttuose.

Lucas ovviamente non l’ha mai percepito come un affronto verso il culto e i suoi cultori. Per lui, la saga non era qualcosa di inamovibile, scritto sulla pietra, ma un organismo vivo, che si muoveva in avanti, seppur incapace di decidere per sé perché assoggettato al volere del suo creatore. Le idee di Lucas a riguardo erano cambiate negli anni e con esse i film. Sia i vecchi – con le alterazioni di cui sopra – che i nuovi – con la riscrittura di concetti come la Forza e i Jedi. Nonostante la disconnessione dal mondo, continuò a essere pioniere nel mondo digitale, abbracciandone le nuove ramificazioni: non solo il web ma anche le nuove cineprese che non registravano più le immagini su pellicola, calda e granulosa, ma su fredde lenti digitali in grado di restituire fotogrammi ultradettagliati. La stessa differenza che passava tra le astronavi delle due trilogie, in fondo.

Un supervisore degli effetti speciali ricorda che Lucas improvvisò una spiegazione di un quarto d’ora sul funzionamento degli sgusci – i veicoli protagonisti di una gara adrenalinica – mentre dedicò meno tempo e ragionamenti alla recitazione degli attori. “Parla da cattivo” fu l’unica direzione che diede al doppiatore di Darth Maul.

Oltre l’inciampo

Quando il film uscì nel maggio 1999, incassò più di tutti gli altri Guerre stellari messi assieme, segno che la gente era accorsa nelle sale e poi ci aveva trascinato i suoi amici. Eppure le critiche furono feroci e dello stesso avviso fu lo zoccolo duro del fandom starwarsiano. Di nuovo, Lucas non la prese bene e dopo La minaccia fantasma si chiuse a riccio: i dietro le quinte dei successivi film lo vedranno molto più defilato e parte della lavorazione – tra cui la travagliata stesura del copione di L’attacco dei cloni – resterà lontana dai riflettori. La minaccia fantasma avrebbe dato l’avvio ai prequel come idea narrativa, popolarizzando una forma di racconto che è intrinsecamente fallace. Una “marcia verso l’inevitabile”, come l’ha definita lo sceneggiatore Damon Lindelof, in cui i destini dei personaggi sono noti e il senso di sorpresa è tenuto vivo da continue stantuffate di nuovi personaggi e svolte fasulli.

Questo è Star Wars ora, un colosso che è ripartito da La minaccia fantasma e da cui continua a prendere le mosse: un organismo che deve andare sempre avanti e cambiare, se vuole rimanere in vita e rilevante. I fan più leali potranno anche non apprezzare l’evoluzione del loro favorito, ma il pubblico generalista non perdona i passi indietro. La nuova infrastruttura mediale costruita attorno alla saga non è cambiata dal 1999. La Disney ha solo aumentato la produzione e migliorato la connessione tra i vari reparti, di modo che gli autori dei fumetti sappiano cosa sta succedendo nei romanzi e questi a loro volta non intralcino i film. Il colosso cresce come mai ha fatto in passato, grazie al sostegno di Disney: con il marchio di Star Wars esiste di tutto, un parco divertimenti per cui si registra una frenesia inusitata, l’esplorazione dei nuovi media (il gioco in realtà virtuale Darth Vader Immortal, scritto da David S. Goyer, la piattaforma Disney+), perfino una serie tv (The Mandalorian, in arrivo quest’autunno), che Lucas aveva tentato di realizzare dopo i prequel ma che andava contro le regole dell’industria tv di 15 anni fa, quando realizzare stagioni di ventidue puntate senza spendere una fortuna (The Mandalorian – dieci episodi – è costato 100 milioni di dollari) o perderne in qualità era una sfida persa in partenza.

Sin dalle origini, Disney ha fatto della sinergia il suo cavallo vincente in ambito promozionale. Come disse l’allora CEO Michael Eisner quando la compagnia acquisì il canale Abc, in casi del genere “uno più uno fa quattro”. L’approccio permea i dettagli più minuscoli: perfino nelle Coca-Cola vendute nei parchi a tema di prossima apertura. Guerre stellari è il campo perfetto in cui fare cross-promozione, non solo a livello di marketing, ma anche narrativamente. I film si protraggono nei fumetti, i videogiochi anticipano le serie tv. Il problema con cui si sono scontrati e si scontreranno le narrazioni ambientate nelluniverso di Star Wars è insito nel paradosso di un mondo potenzialmente sconfinato di cui, finora, si è raccontata con esiti felici solo una manciata di personaggi. Quanti libri, fumetti, cartoni o videogiochi ricordate che non siano più o meno collegati alla famiglia Skywalker e ai personaggi che vi orbitano attorno? È una domanda difficile a cui rispondere, perché la stragrande maggioranza delle persone ha fruito Star Wars solo in ambito cinematografico, ma già questa considerazione dovrebbe rispondere alla questione. A parte qualche raro titolo, tutto ciò che vale la pena di essere visto, letto o giocato ha a che fare con quel manipolo di personaggi creata da Lucas. Da questo assunto non scampa nessuno e chi lo fa – vedi la grande messa in discussione della centralità degli Skywalker ne Gli ultimi Jedi – passa come un pericoloso terrorista del divertimento. Per questo i prossimi prodotti ad alto budget – The Mandalorian, appunto, ma anche i film che vedremo in futuro – dovranno dimostrare che Star Wars sa svincolarsi dal proprio cuore pulsante eppure cambiare, espandersi e muoversi in avanti.

L’altra grande contraddizione, nell’era delle franchigie super strutturate in cui la voce autoriale più grossa è passata da essere quella del regista a quella del produttore (si veda il caso dei Marvel Studio, guidati da un Kevin Feige che ha ribaltato il modello cinematografico facendolo diventare para-televisivo), è che Star Wars naviga a vista, di film in film, come faceva Lucas. Solo che, a differenza del passato, Kathleen Kennedy non ha in mente una direzione, anche labile, e non tiene insieme l’universo da un punto di vista estetico e filosofico come fanno e facevano Feige e Lucas. Eppure c’è un intero brain trust, un gruppo di persone che si occupa di tenere insieme l’universo di Star Wars facendo attenzione che i vari prodotti non entrino in conflitto tra di loro. Ma questo gruppo non si occupa di creare contenuti, solo di monitorarli.

Se occorre reinventare la ruota e ripartire da zero con un gruppo di creativi nuovi per ogni prodotto, a ogni emanazione il risultato potrebbe variare. Se La minaccia fantasma ha dimostrato il successo di storie i cui esiti erano noti, la formula non è a prova d’urto: Solo, lo spin-off che raccontava la giovinezza di Han Solo, è stato accolto con freddezza da pubblico e critica, mettendo a rischio l’infallibilità del marchio. E in questo caso ogni passo falso si riverbera a cascata sulle altre ramificazioni correlate, perché se non funziona il film allora non funzioneranno nemmeno i giocattoli, i cartoni o le merendine con sopra stampate la faccia di Chewbecca. C’è grande insicurezza, attorno a Star Wars. Gli anni a venire, promettono i dirigenti, diminuiranno le dosi di contenuto, o se non altro cambierà la forma di quei contenuti – meno film, più iniziative diffuse su più piattaforme.

A vent’anni di distanza, e con l’hype bello dissolto nella memoria dei più, La minaccia fantasma è parte del canone. C’è una generazione intera di spettatori per cui quel film è soltanto parte del flusso, è tanto Star Wars quanto L’impero colpisce ancora, Gli ultimi Jedi, The Clone Wars o lo speciale di Natale. C’è chi lo ha dimenticato, chi lo adora, chi cerca di non buttare via il bambino con l’acqua sporca, accogliendone alcuni aspetti. La minaccia fantasma ha segnato un momento, irripetibile, in cui l’attenzione collettiva era guidata da un autore solo, che voleva continuamente ripensare la sua opera (perché se lo fa Kayne West è avanguardia, ma se lo fa Lucas è lesa maestà?), che a volte l’ha ripensata male, ma che non ha mai annoiato il pubblico, indulgendo, esaudendo o ammiccando.


Andrea Fiamma

Scrive (soprattutto) di fumetti, cinema e tv su Fumettologica, Rivista Studio e The Comics Journal.

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