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Contro gli antieroi. Alla ricerca di nuovi modelli maschili

Basta con Tony Soprano e Walter White, i protagonisti della serialità americana contemporanea declinano la loro mascolinità in forme più complesse e problematiche. Sintomo, anche, di tempi nuovi.

Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, la quality television americana ha messo al suo centro personaggi estremamente contraddittori, anche per questo capaci di affascinare in maniera inedita lo spettatore. Da Tony Soprano in poi, si sono avvicendati protagonisti dai tratti molto simili, che per anni hanno rappresentato una delle novità più significative e influenti del panorama americano. Stiamo naturalmente parlando dei Difficult Men (per usare il titolo di un ricco volume di Brett Martin), antieroi protagonisti di molte delle serie più rappresentative degli anni Zero: figure come Vic Mackey, Don Draper, Nucky Thompson, Walter White e Frank Underwood.

Il successo di questi personaggi ha però aperto la strada anche a forme di imitazione e riproposizione che hanno prodotto personaggi meno originali di quelli appena citati, palesemente derivativi, figli di una formula vincente. Come tante innovazioni influenti, una volta contaminato l’ambiente in cui sono nati, anche gli antieroi sono apparsi progressivamente meno necessari, finendo per diventare uno standard, un elemento di successo e per questo da imitare e replicare. La progressiva perdita di originalità non è il solo problema, a vent’anni dall’arrivo di Tony Soprano: la capacità degli antieroi di interpretare il mondo e di raccontare la mascolinità non è più quella di un tempo, sia a causa di critiche sempre più incisive e catalizzate dai cambiamenti sociali e culturali avvenuti negli ultimi anni, e tutt’ora in corso, sia grazie dell’arrivo di forme di caratterizzazione maschili più complesse.

Il paradosso è che in passato quello che ha garantito loro il successo, a partire dalla definizione stessa di antieroe, che contiene un’esplicita negazione della positività, rappresenta oggi un limite palese. Elementi come la vocazione al Male, l’autodistruzione come forma di autodeterminazione e la violenza come sfogo delle contraddizioni interiori hanno meno presa, anche perché la ripetitività con cui son sviluppati questi personaggi ha fatto della loro ormai tipica cupezza il presagio di una standardizzazione narrativa e stilistica. Sul piano formale, queste figure sono quasi sempre al centro di prestige drama dallo stile sempre più monocorde, che si riflette in una fotografia che cromaticamente ruota quasi sempre attorno alle stesse gradazioni di grigi e blu, apparendo decisamente limitata dal punto di vista espressivo, come illustrato in un articolo di Kathryn VanArendonk su Vulture.

Quello attuale è allora un momento di importanti cambiamenti in materia di rappresentazione, e un modo per intercettare il mutamento delle figure maschili nella tv americana è analizzare le trasformazioni dei protagonisti di due dei principali brand seriali degli ultimi anni: Breaking Bad e True Detective. L’analisi delle evoluzioni interne allo stesso mondo finzionale o relative alla costruzione del protagonista di una serie così riconoscibile (sebbene antologica) come True Detective, fa infatti emergere la ricerca da parte del quality drama di strade alternative in materia di rappresentazione maschile.

Da Walter White a Saul Goodman

Cominciando con la serie creata da Vince Gilligan, è interessante mettere a confronto Breaking Bad con il suo spin-off Better Call Saul, testo che vive nello stesso universo narrativo, è realizzato dagli stessi autori, condivide non pochi attori ed è girato in modo molto simile. Non è un caso però che a sottolineare un significativo punto di discontinuità sia proprio il protagonista, quel Jimmy McGill che per distanziarsi non solo da Walter White ma anche da Saul Goodman ha persino cambiato nome.

Dopo cinque stagioni in cui il protagonista di Breaking Bad ha ridefinito le coordinate principali del modello maschile nato con Tony Soprano, gli autori attraverso la figura di Jimmy decidono di battere una strada diversa: con un salto temporale all’indietro Gilligan e Gould approfittano del fatto che gli spettatori conoscono già il punto d’arrivo della parabola del protagonista e scelgono di raccontarne le fasi iniziali, concentrandosi sulle ferite e le rinunce che porteranno alla discesa agli inferi e alla nascita di Saul, sfruttando la varietà di registri offerta dal fatto che si tratta, in partenza, di un comedian character.

A partire da un ventaglio di sfumature molto più ampio, dovuto in prima istanza a una maggiore predisposizione all’ironia rispetto a Walter, Jimmy riceve un trattamento mirato a far emergere le sue principali fragilità di pari passo con le tante facce di una personalità complessa e dalle manifestazioni imprevedibili. Gli autori riducono l’epicità che caratterizzava il protagonista di Breaking Bad facendo di Jimmy una figura più umana, in grado di instaurare un rapporto di identificazione con lo spettatore basato proprio sul riconoscimento in quel misto di desideri, frustrazioni, ambizioni e difficoltà che caratterizza la personalità del personaggio principale. Se Walter White era il maschio bianco medio che, convinto di essere penalizzato dalla vita, capisce che solo passando al lato oscuro può emergere davvero e valorizzare il proprio talento, Jimmy è sempre un maschio bianco medio, ma decisamente più insicuro, alla ricerca di un riconoscimento di qualche tipo dopo una vita passata all’ombra del fratello.

Riducendo la questione all’osso, Walter è un personaggio che diventa mostruoso, divorato da una sete di potere che lo porta verso la più classica delle discese agli inferi. Viceversa, Jimmy è un eroe ben più sfaccettato, un uomo che vuole sinceramente aiutare gli altri ma terribilmente spaventato dall’eventualità di essere sminuito, pregno di desideri ma consapevole della sua incapacità di sfruttare in modo adeguato il talento di cui è dotato. Infine, va aggiunto che Walter è una figura maschile dominante, portatrice di una visione del mondo interamente basata sul potere che si riflette anche nella vita di coppia, tanto che ogni volta che la moglie Skyler lo mette in discussione è percepita come un ostacolo sul suo percorso (la scrittura ha involontariamente stimolato vere e proprie forme di odio da parte dei fan nei confronti di Anna Gunn). Jimmy è invece profondamente legato alla sua compagna Kim ed è soprattutto a partire dalla loro relazione sentimentale e dal confronto con la condizione professionale di lei che identifica il suo posto nel mondo, guardando negli occhi la sua fortuna di maschio bianco in una società che è maschilista anche quando appare liberal e paritaria.

Il paradosso è che in passato quello che ha garantito il successo, a partire dalla definizione di antieroe, rappresenta oggi un limite palese. Elementi come la vocazione al Male, l’autodistruzione come forma di autodeterminazione e la violenza come sfogo delle contraddizioni interiori hanno meno presa, anche perché la ripetitività con cui son sviluppati questi personaggi ha fatto della loro ormai tipica cupezza il presagio di una standardizzazione narrativa e stilistica.

Uomini e detective veri

Non meno significativa è la trasformazione che subisce il protagonista di True Detective, passando dalla prima alla terza stagione. La serie di Nic Pizzolatto è arrivata in un momento in cui la quality television era al picco del suo splendore e ha ridefinito in maniera forse non particolarmente sperimentale ma certo con precisione e furbizia un certo modo di vedere il crime drama, quello in cui l’investigazione è poco più che un pretesto e la vera detection ha come oggetto di indagine principale il tormentato animo del protagonista. Appoggiandosi sul solido modello narrativo del buddy cop, infatti, la prima stagione di True Detective va a ispezionare le due facce archetipiche del maschio bianco statunitense, messe in scena alla perfezione da Woody Harrelson e Matthew McConaughey. Se Martin è il classico eroe imperfetto da romanzo americano, un Huck Finn troppo cresciuto, medio in tutto e anche nei suoi limiti, Rust incarna il genio maledetto ai cui piedi le donne non possono che cadere, l’animo tormentato dalle ferite insanabili, l’uomo occidentale che si confronta con l’Orrore, il reduce incurabile.

Nel 2013 il personaggio interpretato da McConaughey è amato quasi incondizionatamente, moltiplicato in milioni di meme e identificato come una delle espressioni più compiute, magnetiche e affascinanti dell’antieroe televisivo. La terza stagione arriva sei anni dopo quella d’esordio con il dichiarato intento di ritornare ai fasti di un tempo dopo i feedback negativi sulla seconda annata e riconquistare la fiducia degli spettatori puntando su alcune caratteristiche già presenti in passato. A cambiare però è soprattutto la caratterizzazione del protagonista, come si evince dal paragone tra Rust Cohle e Wayne Hays. Con il secondo, infatti, Pizzolatto fa un lavoro molto diverso, costruendo un protagonista privo dell’afflato epico, del magnetismo e dell’aura di infallibilità del predecessore, più consapevole dei propri limiti e delle sue fragilità. In questo modo la serie mira a un rapporto più empatico tra pubblico e personaggio, conscia che oggi gli antieroi larger than life non hanno più lo stesso impatto, troppo distanti dall’occhio di chi guarda in un momento storico in cui si sente invece il bisogno di un filo diretto con i personaggi.

Wayne vive il razzismo sulla sua pelle, è consapevole della posizione di subalternità sul lavoro ma non per questo decide di mandare tutto all’aria e tracimare verso il lato oscuro, ha una memoria che scricchiola e lo lascia di frequente spaesato in uno spazio di cui non riconosce i confini. Di questo suo limite però non fa un vanto, non lo usa in modo autoindulgente per tendere verso il Male – cosa che, per quanto narrativamente affascinante, appare come la soluzione più semplice del mondo – ma come un trampolino per lanciarsi nell’esplorazione delle proprie fragilità, nell’ambito di un percorso che può terminare solo con un patteggiamento sereno con la parte di sé stesso più vulnerabile.

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Altre narrazioni, altri uomini (e donne)

Come dimostrato da Better Call Saul, il progressivo scivolamento dagli antieroi verso figure maschili con caratteristiche diverse è dovuto anche alla presenza di personaggi femminili più incisivi, che non fanno solo da spalla/ostacolo, come nei casi di Carmela Soprano o Skyler White, ma offrono una visione del mondo complessa e in grado molto spesso di influenzare e mettere in discussione quella maschile.

Caso emblematico è Outlander, cocktail di generi targato Starz che fonde avventura, romance, fantasy, feuilleton e dramma storico. La coppia al centro della serie è formata da Claire, che dalla prima metà del Novecento attraverso uno magico viaggio nel tempo finisce catapultata nel Settecento in Scozia, e Jamie, un uomo che non a caso è privo di quel retaggio sociale e culturale che ha plasmato gli antieroi contemporanei e per questo può esprimere un modello di mascolinità non perfetto ma sicuramente più sano, genuinamente eroico, non autocelebrativo e costantemente orientato al miglioramento di se stesso attraverso il confronto (che spesso si fa anche scontro) con la sua controparte femminile. È proprio sui punti di debolezza classici dell’antieroe che incide Jamie, che impara a vivere l’amore come spazio dialettico e zona di costante negoziazione, che concepisce il sesso come luogo di condivisione e unione totale. A tal proposito Jamie costituisce per gli autori l’occasione di proporre un protagonista maschile finalmente interessato al piacere fisico della sua amata, cosa assolutamente estranea a personaggi come Don Draper e al loro modo di vivere le relazioni sentimentali e il sesso.

La trasformazione delle figure maschili fa capolino anche in serie di nicchia e legate al cinema indie come Patriot. La serie prodotta da Amazon racconta da una prospettiva differente un antieroe come tanti, mostrandone in controluce i lati di solito eclissati: privando di fascino e magnetismo l’animo tormentato del protagonista, la serie fa emergere un’individualità costretta a essere uno stereotipo da pressioni sociali castranti e da un maschilismo diffuso che produce effetti devastanti. È emblematico allora il sesto episodio della seconda stagione, intitolato “Fuck John Wayne”, che si concentra sulla tossicità che permea le relazioni del protagonista e ritrae quest’ultimo come la vittima impotente di una cultura che lo annichilisce in continuazione, si alimenta dell’abuso di persone fragili e della celebrazione collettiva della violenza. Da questo punto di vista la serie di Steven Conrad è una delle critiche più aspre alla mascolinità tossica, e in particolare l’episodio appena citato si dedica allo smantellamento di ogni genere di fascinazione per questo tipo di personaggi maschili.

Passando da una serie di nicchia a un titolo decisamente più seguito dal pubblico, è inevitabile parlare di The Americans e di Philip. Inserito all’interno di un quality drama classico, il personaggio si presenta all’inizio in continuità con l’antieroe tradizionale, per poi farsi artefice di un’evoluzione complessa e con un esito ultimo differente da quelli di personaggi come Tony Soprano e Walter White. Come questi due, anche Philip finge una sicurezza che non ha ed è il protagonista di azioni violente i cui traumi scorrono sottopelle esaltando la canonica darkness interiore. Ciononostante, la sua traiettoria narrativa prende una strada peculiare perché modellata dalla centralità del matrimonio e dal continuo faccia a faccia con una moglie ben più determinata e resistente di lui, che spinge Philip ad ammettere tutte le sue debolezze. Gli autori hanno avuto l’intelligenza di rendere il personaggio sempre più attuale stagione dopo stagione, conducendolo (sull’onda del senso di colpa e di una progressiva presa di coscienza) ad abbandonare il mestiere cui sembrava condannato e a cercare una nuova vita in un altro contesto, costruendosi lo spazio per diventare una persona migliore.

Infine, va aggiunta anche l’importanza della cornice storica rispetto alla definizione delle figure maschili. Da questo punto di vista non c’è dubbio che le ansie post 11 settembre e le frustrazioni sociali causate dalla crisi del 2008 abbiano costituito il terreno fertile per l’affermazione di figure come quella di Walter White, fatte di individualismo e ribellione all’autorità. Oggi invece, in un momento in cui l’integrità della società è minacciata da estremismi di ogni sorta, le lotte per i diritti delle donne e delle minoranze sono più sentite che mai, e non c’è più la stessa sete di personaggi tormentati e di discese agli inferi, perché parte di quella rabbia appare riflessa nelle proteste alt-right e in generale in chi vuole dividere invece che unire. Mai come oggi, una parte del pubblico, se non altro, chiede alla tv personaggi inclini a mettersi in discussione, a risolvere le loro contraddizioni costruendo prospettive di miglioramento. Figure nelle cui difficoltà ci si possa identificare e che si meritino l’investimento emotivo degli spettatori.


Attilio Palmieri

È dottore di ricerca presso l'Università di Bologna, si occupa da anni di serialità televisiva e ha pubblicato saggi sulla tv e sul cinema nordamericano in diversi volumi accademici. Scrive di critica televisiva e cinematografica per riviste sia cartacee sia web come Segnocinema, Seriangolo, Esquire Italia, Point Blank e Best Movie.

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