Cercasi Walter White disperatamente. Ozark e Bloodline dimostrano come l’antieroe da solo non basti, ma per innescare empatia serva di più.
Nel maggio 2013, pochi mesi prima che Amc trasmettesse l’ultimo episodio di Breaking Bad, in rete cominciò a circolare un annuncio che sembrava un pesce d’aprile in differita: Sony e la rete colombiana Teleset stavano lavorando a un adattamento latinoamericano della serie di Vince Gilligan, intitolato Metástasis, che avrebbe trapiantato la stessa storia in un luogo differente. La notizia fece sollevare qualche sopracciglio e si attirò un immancabile dileggio; ma quando l’8 giugno 2014 andò in onda la prima puntata, fu chiaro che l’idea era ancora più ridicola di quanto si potesse immaginare.
Metàstasis non era un adattamento di Breaking Bad, ma una copia carbone, per giunta su carta di bassa qualità. I dialoghi erano gli stessi, ma gli attori che li veicolavano non erano minimamente all’altezza, e non bastasse avevano nomi che scimmiottavano quelli originali: da Walter Blanco a José Miguel Rosas, all’inascoltabile Saùl Bueno. Quello che sembrava in tutto e per tutto un elaborato scherzo, era un’operazione tragicamente seria: nel giro di un anno (e 62 episodi), Metàstasis diventò una delle serie più odiate in tutto il Sud America.
Ma si tratta solo della punta appariscente di un iceberg molto più grande. Il successo senza precedenti di Breaking Bad, come prevedibile, ha generato una serie di tentativi di imitazione. In molti hanno provato a indovinare la formula per cucinare la serie perfetta, nessuno però ci è ancora riuscito.
Uno degli esempi più recenti, e lampanti, è Ozark, serie originale di Netflix prodotta e interpretata da Jason Bateman, disponibile sulla piattaforma dallo scorso 21 luglio. Ozark racconta la storia di Marty Byrde, un consulente finanziario freelance che, dopo la morte del suo partner a opera di un boss della droga, si trova costretto a trasferirsi in una località turistica del Missouri e a riciclare milioni di dollari per un cartello messicano. Byrde è un uomo ordinario, con una famiglia ordinaria, una casa ordinaria e un’ordinaria insofferenza per una vita troppo tranquilla. C’è una famiglia da proteggere, un ambiente ostile in cui sopravvivere, una schiera di antagonisti spietati con cui fare i conti: insomma, sulla carta sembrano esserci tutti gli ingredienti necessari a fare di Ozark un prodotto memorabile; eppure la serie mostra la corda già nelle prime puntate. Il problema, in massima parte, riguarda proprio il protagonista.
I “cattivi” hanno spesso motivazioni più realistiche dei “buoni”. Non solo: le storie con protagonisti moralmente discutibili ci forniscono uno spazio protetto e riservato per dar sfogo virtuale agli impulsi meno ortodossi, e una sorta di autoassoluzione per i lati meno edificanti del nostro carattere.
La giustificazione morale del “cattivo”
Esistono diversi motivi se negli ultimi vent’anni (dai Soprano in poi, per capirci) abbiamo visto moltiplicarsi il numero di serie trainate da protagonisti ambigui, i cosiddetti “villain protagonist”, antieroi dalla moralità labile, spesso e volentieri dediti ad attività spregevoli e ciononostante in grado di ottenere il supporto del pubblico. Innanzitutto, i “cattivi” hanno spesso motivazioni più realistiche dei “buoni”, che possono essere contingenze economiche, la volontà di vendicarsi, instabilità legate a traumi, o anche solo la pura e semplice bramosia. Non solo: le storie con protagonisti moralmente discutibili ci forniscono uno spazio protetto e riservato per dar sfogo virtuale agli impulsi meno ortodossi, allo stesso tempo danno una sorta di autoassoluzione per i lati meno edificanti del nostro carattere.
Certo, un “villain protagonist” può arrivare a conquistare la simpatia di uno spettatore, e persino indurlo a mettersi in panni che nella vita reale non accetterebbe mai di indossare. Ma perché questo accada devono sussistere una serie di presupposti. Esiste una teoria, chiamata “affective disposition”, sviluppata negli anni Settanta da Dolf Zillman e rielaborata di recente da Arthur Raney, secondo cui la nostra capacità di sviluppare empatia nei confronti del personaggio è strettamente correlata alla nostra bussola morale. “Così come siamo inclini ad appoggiare e sostenere le persone che riteniamo nel giusto”, spiega Raney nel Routledge Handbook of Emotions and Mass Media, “allo stesso modo, i personaggi di una storia devono adattarsi al nostro concetto di giusto e sbagliato. Le loro azioni devono essere moralmente giustificabili”.
Ora, prendiamo il caso di Breaking Bad: è difficile trovare moralmente giustificabili molte azioni compiute da Walter White (dall’assassinio passivo di una tossicodipendente in overdose, all’avvelenamento intenzionale di un bambino), ma se in cinque stagioni lo spettatore non perde mai completamente l’empatia nei confronti del protagonista è perché la sua transizione ci è raccontata in modo graduale, circostanziato e realistico. Innanzitutto: Walter White non è sempre stato cattivo. Per gran parte della sua vita è stato un cittadino modello, la sua transizione da buono a cattivo avviene in seguito a un trauma (la scoperta di avere un tumore), è innescata da una necessità concreta e “nobile” (provvedere al sostentamento di una famiglia già di per sé precaria), ed è alimentata da una frustrazione accumulata per anni (i suoi ex soci sono diventati miliardari con una società fondata da lui). Ma il vero motivo per cui fatichiamo a relegare Walter White al girone degli assassini e sfruttatori è più semplice: lo vediamo soffrire. La sua è una metamorfosi dolorosa, tormentata, frutto di una serie di scelte consapevoli e dilanianti che progressivamente sbriciolano l’involucro del personaggio della puntata pilota per farne emergere uno nuovo. Bryan Cranston è un attore straordinario, lo spettro espressivo che restituisce è amplissimo, ed è in gran parte suo il merito se siamo indotti a trovare giustificazioni (o, quanto meno, delle motivazioni) per le sue nefandezze.
Marty Byrde, per contro, attraversa il confine tra bene e male senza alzare un sopracciglio. La colpa è soprattutto di Bateman, che in dieci episodi mantiene la stessa espressione monocorde: un tipo di recitazione che poteva funzionare in un contesto comico come quello Arrested Development, ma che qui risulta palesemente carente. C’è una scena, nella nona puntata di Ozark (“Caffè nero”) in cui Marty Byrde recluta l’intera famiglia per foderare di banconote le pareti di un resort. La cosa che salta subito all’occhio sono le espressioni degli attori: Marty e la moglie Wendy svuotano scatoloni pieni di mazzette, il figlio Jonah le incapsula con una passata di scotch, la figlia Charlotte le sistema nelle pareti, nel frattempo l’emissario del cartello messicano controlla il cellulare; tutti hanno un’espressione neutra, la telecamera si muove a inquadrare un’immagine che potrebbe diventare iconica e invece passa sotto gli occhi senza lasciare troppe tracce. Una scena simile avrebbe potuto risultare drammatica (e sottolineare le crepe che minacciano di sgretolare la famiglia), o grottesca (e sfiatare un po’ della tensione che si è accumulata nelle otto puntate precedenti), e invece contribuisce solo a cristallizzare dubbi che lo spettatore già trattiene da otto puntate: Che tipo di famiglia è questa? Cosa la mantiene unita? Possibile che nessuno abbia ancora avuto un esaurimento nervoso?
Nonostante i limiti manifesti dell’attore protagonista, Ozark avrebbe potuto affidarsi ad altre soluzioni per rendere digeribile il suo “villain protagonist”. Uno su tutti: usare il passato come sponda. Tutte le serie incentrate su personaggi ambigui si sono servite di questo stratagemma, e senza un sapiente utilizzo dei flashback sarebbe difficile provare empatia per tizi come Tony Soprano, Saul Goodman, Dexter Morgan e persino BoJack Horseman. In Ozark i flashback ci sono, ma non aiutano a dare profondità al bidimensionale Marty Byrde. Il motivo è piuttosto semplice: Byrde non è mai stato buono. Nelle prime puntate scopriamo che lui e il suo partner si erano già sporcati le mani con lo stesso cartello che ora lo tiene al guinzaglio. Nessun tumore, nessuna frustrazione pregressa, nessun bivio forzato: Marty Byrde ha avuto l’occasione di fare più soldi e l’ha sfruttata.
Senza un sapiente utilizzo dei flashback sarebbe difficile provare empatia per tizi come Tony Soprano, Saul Goodman, Dexter Morgan e persino BoJack Horseman. In Ozark i flashback ci sono, ma non aiutano a dare profondità al bidimensionale Marty Byrde. Il motivo è piuttosto semplice: Byrde non è mai stato buono.
Dal protagonista ai comprimari
Eppure, basta dare una scorsa alle recensioni uscite nelle ultime settimane per capire che Ozark non è considerato un fiasco né dalla critica (su Metacritic viaggia su una media di 67%), né dal pubblico (su Imdb ha un punteggio di 8,2). Il merito è in gran parte dell’ambientazione: il lago degli Ozarks è una località insolita, un bacino artificiale caratterizzato da una struttura a serpentina e coste molto frastagliate, popolato da redneck (contadini) e hillbillies (montanari), pittoreschi personaggi che declinano in una chiave nuova lo stereotipo white trash tipico del southern gothic. Ecco: l’asso nella manica di Ozark consiste proprio in un fenomenale assortimento di comprimari, personaggi talmente sfaccettati e ambigui (e ben interpretati) da rubare senza sforzo la scena al protagonista.
Questo spostamento del baricentro empatico dal protagonista a un personaggio secondario si osserva anche in altre serie. Uno degli esempi più recenti è quello di Bloodline. Inizialmente, doveva essere un family-thriller incardinato sul protagonista John Rayburn, interpretato da Kyle Chandler. La scelta di Chandler era dettata da un calcolo ben preciso: il pubblico lo ricordava come il coach Eric Taylor di Friday Night Lights, e così come Walter White inizialmente si era appoggiato al capitale affettivo che Cranston aveva guadagnato interpretando il padre Hal in Malcolm, così John Rayburn sarebbe partito con il pubblico dalla sua. Il problema è che il personaggio di Chandler fin da subito risulta noioso, scontato, la sua “cattiveria” non sembra frutto di una scelta, quanto di una debolezza morale intrinseca. Così, durante la prima stagione di Bloodline, abbiamo la tendenza a investire su un personaggio secondario, la pecora nera della famiglia Danny Rayburn, interpretato magistralmente da Ben Mendelsohn. Danny è il vero motore della narrazione, è l’unico personaggio per cui possiamo trovare giustificazioni morali e, soprattutto, è l’unico che compie scelte in autonomia. Non è un caso che, nonostante muoia alla fine della prima stagione, sia stato riconfermato anche nelle due successive (tornerà nei flashback e sotto forma di apparizione mentale).
Marty Byrde e John Rayburn sono solo due esempi di come un “villain protagonist” possa non avere le spalle abbastanza larghe da reggere un’intera serie. Ormai da tempo si osserva la tendenza a incardinare storie su personaggi volutamente ambigui e borderline, complice anche un allentamento del politically correct oltreatlantico. Il problema si ha quando il tentativo di creare un protagonista dai confini morali sfumati porta allo sviluppo di un personaggio abbozzato e poco capace di evolvere, con il risultato che il baricentro della storia si sposta progressivamente verso un comprimario più credibile (la Ruth di Ozark, il Danny di Bloodline, ma anche la Norma di Bates Motel).
Sulla lunga distanza, questo problema tende a diventare strutturale. Tornando a Ozark, difficilmente il personaggio di Bateman evolverà sensibilmente nella seconda stagione, è invece probabile che ad aumentare sarà il peso specifico dei comprimari. Ma i comprimari, come dimostra la cancellazione di Bloodline, possono fungere da stampella narrativa solo fino a un certo punto.
Fabio Deotto
Laureato in biotecnologie, è scrittore, traduttore e giornalista. Scrive di scienza e cultura per diverse testate. Ha pubblicato due romanzi con Einaudi, Condominio R39 e Un attimo prima. Nel 2021 ha scritto il saggio L' altro mondo. La vita in un pianeta che cambia.
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