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Cultura digitale

Il prima e il dopo

Cosa succede se le nuove canzoni e serie televisive devono lottare contro un catalogo di cose passate molto solido, e sempre presente e accessibile? La lotta per l’attenzione è anche tra vecchio e nuovo.

Nel 2019 Netflix ha sborsato mezzo miliardo di dollari per portare Seinfeld, una sitcom andata in onda dal 1989 al 1998 su Nbc, in esclusiva mondiale sulla piattaforma. Anche se Netflix è notoriamente poco propensa a condividere dati sugli ascolti, il motivo dell’esborso è piuttosto chiaro, e ruota attorno alla perdita americana, da parte della società, di due grandi classici come Friends e The Office. Una tragedia, visto che proprio The Office, secondo i dati Nielsen relativi al 2020, era stata la serie più “consumata” sulle piattaforme di streaming (negli Stati Uniti).

Seinfeld e The Office sono serie piuttosto diverse che hanno in comune un particolare importante: oggi non esisterebbero. O meglio, non potrebbero avere il tempo per svilupparsi, crescere, cambiare – diventando le hit decennali che sono oggi. Il primo titolo, infatti, cominciò con una magrissima stagione da soli cinque episodi, a causa dello scetticismo del network (fu l’executive Rick Ludwin a salvarla usando fondi per “altri progetti televisivi”); il secondo ha seguito il fenomeno di culto dell’edizione originale britannica, quella di Ricky Gervais e Stephen Merchant. La prima stagione fu d’assestamento – e segnò quasi la fine dell’esperimento statunitense. Nell’industria odierna, sconvolta dallo streaming e dai social media, risulta difficile immaginare un percorso simile: una serie molto attesa che sbarca, su Netflix, Prime Video o sulla stessa Nbc del 2022, con performance deludenti, ottenendo comunque un paio di stagioni per trovare la sua strada. A giudicare dal ritmo con cui Netflix cancella persino le serie apprezzate dopo la terza stagione, è uno scenario quasi impossibile. Le differenze ambientali non finiscono qui: i titoli citati uscivano settimanalmente, in un mondo pre-binge watching, ed erano organizzati in stagioni che avevano di solito 22 episodi. Era un ritmo lento, pianeti con orbite annuali che tornavano su schermo allo stesso punto dell’anno. Oggi? Lo streaming ha abbassato il numero di episodi per stagioni a otto, adattandosi a un mondo in cui la vita di un prodotto seriale si misura in giorni – non in anni. Un palinsesto di rogue planets non tracciabili.

Due fasi

Questo doppio standard ha finito col dividere la proposta di contenuti, e l’industria culturale in genere, in due categorie sempre più distanti e differenti: potremmo chiamarle il Prima e il Dopo. Tale fenomeno, come vedremo, non si limita all’industria televisiva ma è ormai prassi anche in quella musicale, arrivando a interessare gran parte del mare magnum che chiamiamo “content”. “Prima” e “Dopo”, ma rispetto a cosa? Non è necessario individuare il momento preciso di rottura, ovviamente, ma sottolineare come la faglia sia stata provocata dall’avvento della manciata di servizi che dominano lo streaming globale. Prodotti ben diversi – Netflix, Spotify, Apple Music, Prime Video – che si basano su una logica identica: permettere il consumo immediato di enormi archivi digitali di contenuti. Questi cataloghi contengono moltitudini, affiancando titoli prodotti da network e aziende diverse nel corso dei decenni ai cosiddetti “originali”, realizzati dalla piattaforma stessa – e ben promossi dal suo algoritmo.

La faglia è stata provocata dall’avvento della manciata di servizi che dominano lo streaming globale. Prodotti ben diversi che si basano su una logica identica: permettere il consumo immediato di enormi archivi digitali di contenuti. Questi cataloghi contengono moltitudini, affiancando titoli prodotti da network e aziende diverse nel corso dei decenni ai cosiddetti “originali”, realizzati dalla piattaforma.

Più che un momento temporale, quindi, a dividere il Prima dal Dopo è stata proprio la comparsa dell’algoritmo, la cui applicazione all’industria culturale ha cambiato tutto, compresa la forbice temporale entro cui un prodotto seriale può evolversi e trovare la sua voce. Prima, i grandi network televisivi chiudevano la stagione dei pilot – nella quale i nuovi titoli realizzano un episodio “pilota” – scegliendo quale di questi diventava una serie. Oggi il rito rimane, ma è inserito in un contesto vorticoso e fitto di dati personali (grazie internet!), da cui le aziende possono misurare in tempo reale cosa va e cosa non va. E se una serie “non va”, è probabile che venga espulsa dal sistema. Poi si ricomincia con altre proposte, e così via all’infinito. 

Proviamo a immaginare una linea temporale in cui la versione americana di The Office è prodotta da Netflix e ben strombazzata dal suo algoritmo. La serie esce ma il personaggio di Steve Carell è ancora sfocato, gli autori ancori un po’ freddi… Basterebbe un’altra stagione e tutto si risolverebbe, la serie potrebbe migliorare. Peccato che i social abbiano già parlato, e che i dati Netflix dimostrino come gli utenti abbiano abbandonato la serie, in media attorno al minuto X dell’episodio Y. The Office viene cancellata. La divisione del catalogo implica anche una concorrenza spietata tra “vecchio” e “nuovo”, in cui, ironicamente, è il secondo a rimetterci. Certo, i titoli nuovi hanno la garanzia di essere promossi sulle homepage di milioni di utenti; ma la coda lunga, lunghissima, di serie anni Novanta, Duemila e primi anni Dieci è sempre lì, a disposizione di tutti, al riparo dalle spinte pubblicitarie delle piattaforme. Un approdo sicuro sempre disponibile. 

Le serie e tutto il resto

Come detto, il fenomeno non si limita ai film o alla serie tv. Lo scorso gennaio il critico musicale Ted Gioia ha spiegato nella sua newsletter come la musica vecchia stia “uccidendo” quella nuova. “Le duecento canzoni più popolari – scrive – rappresentano meno del 5% degli stream totali”: anche la musica, quindi, risulta schiacciata sotto il peso del back catalogue. Secondo Gioia, infatti, “non c’è mai stato un momento in cui i nuovi brani raggiungevano lo status di successo generando un impatto culturale così scarso”. L’impressione è che il nuovo agisca perlopiù in superficie, in modo quasi cosmetico, mentre il traffico vero, il consumo e il business, è generato dal sommerso: il passato. Alla fine del 2021 Sony ha speso circa 500 milioni di dollari per i diritti musicali dell’intero catalogo di Bruce Springsteen. Acquisizioni dello stesso tipo hanno interessato negli ultimi anni anche le opere di Bob Dylan e Shakira, aprendo una fase in cui la musica diventa un asset stabile in tempi di incertezza.

La divisione del catalogo implica anche una concorrenza spietata tra “vecchio” e “nuovo”, in cui, ironicamente, è il secondo a rimetterci. Certo, i titoli nuovi hanno la garanzia di essere promossi sulle homepage di milioni di utenti; ma la coda lunga, lunghissima, di serie anni Novanta, Duemila e primi anni Dieci è sempre lì, a disposizione di tutti, al riparo dalle spinte pubblicitarie delle piattaforme.

A ulteriore conferma di come lo streaming musicale abbia ormai inglobato tutto lo spettro dell’audio, qualcosa di simile si registra anche nei podcast. Per quanto riguarda il mercato statunitense, infatti, si registra infatti una situazione di stallo nella top ten dei titoli più seguiti, nonostante la forte vivacità del mercato. Il titolo medio nella top ten odierna è infatti “vecchio di sette anni”, e l’intero comparto non produce una “hit” del tutto nuova da circa dieci anni, secondo Bloomberg. Il fenomeno di Serial, podcast giornalistico che ha rivoluzionato il genere, risale all’ormai lontano 2014. Le poche “novità” in cima alle classifiche sono riuscite a imporsi soprattutto grazie al peso delle celebrità coinvolte: è il caso di The Michelle Obama Podcast, o di SmartLess del trio di comici e attori Will Arnett, Jason Bateman e Sean Hayes (podcast in cui intervistano star d’altissimo livello, a ulteriore conferma del trend). La faglia che separa i cataloghi di contenuti si fa sempre più profonda, indicando la nascita di due diversi modelli di business: uno dedicato al trattamento di cataloghi sterminati, l’altro a monetizzare le nostre attenzioni sempre meno prevedibili e durature con prodotti capaci di sintetizzare l’hype creando attenzione.


Pietro Minto

Nato a Mirano, in provincia di Venezia, nel 1987; vive a Milano. Collabora con Il Foglio, Il Post e altre testate. Dal 2014 cura la newsletter Link Molto Belli.

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