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Non fiction

Bruttezza di un complotto

Dalle Torri Gemelle in avanti, il complotto sembra essersi spostato dalla letteratura e dal cinema alla realtà. Appunti per un’estetica della grande cospirazione globale.

“Più cerchi di informarti, più comprendi da dove proviene tutto… e anche le cose più ovvie cambiano e inizi a vedere bugie ovunque”. Questa frase, che si potrebbe trovare su qualunque blog o profilo social della galassia grillina, è invece una delle tante dichiarazioni a effetto che si possono ascoltare in Zeitgeist, il fortunatissimo documentario in tre parti girato da Peter Joseph nel 2007, primo capitolo di una trilogia conclusasi nel 2011 con Zeitgeist: Moving Forward. Un caso da milioni di visualizzazioni su YouTube, Zeitgeist è una specie di bibbia della conspiracy theory con tre principali oggetti di interesse: il cristianesimo, l’undici settembre, la finanza mondiale. Penso di averlo visto per la prima volta intorno al 2009: un amico ci propose di vederlo dopo una cena a casa sua. Se non ricordo male, aveva scaricato un torrent che definiva “sconvolgente”. Forse fu solo perché fumammo erba, ma confesso che soprattutto la prima parte, quella che cerca di sputtanare le fondamenta teologiche della religione cristiana, dando a ogni elemento un significato astronomico, anche essendo io del tutto a digiuno di conoscenze teologiche, mi suggestionò.

Certo vederlo oggi, che di acqua complottista ne è passata sotto i ponti, fa tutto un altro effetto. Riguardarlo non mi fa iniziare “a vedere bugie ovunque” – non che avessi mai trovato verosimili le parti sulla finanza mondiale o sull’undici settembre –, ma mi fa riflettere sulla tecnica e l’estetica che sorreggono tale grandioso scopo: quello di spingere lo spettatore a iniziare “a vedere bugie ovunque”.

Prendi una qualunque immagine di repertorio, mettici una musichina inquietante, riproponi l’immagine venti o trenta volte e avrai la ricetta per una ideale “cura Ludovico” del complottismo.

Immagini sgranate

Un dato estetico che accomuna molti documentari di questo genere (che potremmo grossolanamente definire “complottisti”) è l’uso insistito, spezzettato, ossessivo del filmato di repertorio. In Zeitgeist veniamo bombardati da file footage: cannoni che sparano, aerei che bombardano, pezzi di telegiornali, tutto caratterizzato da una grana di bassa qualità, come se il difetto delle immagini pixelate ci permettesse di vedere cosa c’è sotto la pelle delle immagini. La pelle delle immagini è la grande bugia. Scorticarla, attraverso il montaggio e la sporcatura, permette di vedere la verità. Come gli occhiali speciali di Essi vivono – l’incubo complottista uscito dal genio di Carpenter – possiamo finalmente guardare le cose come stanno. Con l’aiuto importantissimo della colonna sonora: prendi una qualunque immagine di repertorio, mettici una musichina inquietante, riproponi l’immagine venti o trenta volte e avrai la ricetta per una ideale “cura Ludovico” del complottismo.

Nel caso di Zeitgeist, la colonna sonora è stata composta non a caso dallo stesso Peter Joseph, il quale tra l’altro vanta tra i principali meriti della sua carriera un video girato nel 2013 per dei redivivi vecchissimi Black Sabbath e intitolato “God is Dead?”. Anche qui il tema sono le crepe dei nostri schermi; un video pieno di schermi e di effetti sabbia, che fa pensare a Poltergeist, film horror del 1982 dove lo schermo tv era il diaframma che separava il mondo dei vivi da quello dei morti.

Una nuova ondata di complottismo è iniziata con l’attacco alle Torri Gemelle. Ricordate il film di Michael Moore sull’undici settembre? Ricordate quante volte ci è stato chiesto di rivedere fotogrammi dell’attentato? L’aereo che si infila nel grattacielo, le cariche esplosive, il momento in cui le torri collassano? Vedete, guardate ancora… Per parafrasare Zeitgeist: “Più cerchi di guardare, più inizi a vedere bugie ovunque”.

Di fronte alla Storia

Ma in realtà, in forme diverse, il complottismo è stato un rispettabilissimo genere letterario e cinematografico largamente praticato molto prima, più o meno a partire dagli anni Sessanta. Pynchon, DeLillo, Philip Dick da un lato. Dall’altro le grandi cospirazioni della politica americana, vere e inventate, trasportate al cinema, il new cinema: I tre giorni del Condor, Tutti gli uomini del presidente, La conversazione. In uno scenario politico tenuto in equilibrio dalla Guerra fredda, si vuole il mondo governato da forze oscure, che lavorano per obiettivi incomprensibili. I personaggi sono in balia di queste forze o loro complici. La Storia maiuscola va da qualche parte, governata da leve che non siamo in grado di controllare, e i personaggi, volenti o nolenti, finiscono sotto le sue pesanti ruote quando si sforzano di capirci qualcosa. La paranoia è insomma il risultato dell’impossibilità di comprendere i grandi sistemi. Ma ovviamente, a differenza delle opere di “documentaristi” complottisti come Joseph, Icke o il più raffinato Moore, in queste opere letterarie e cinematografiche non c’è nessuna scoperta da insinuare, nessuna verità da raggiungere, nessun cervello da convincere, c’è solo da prendere atto dell’impotenza dell’individuo o da immedesimarsi in Davide quando lotta contro Golia. È banale ma forse ha senso dirlo: è ciò che distingue la letteratura (o il cinema) dalla propaganda.

Si nota però un aspetto interessante sul piano del linguaggio: come nei documentari il filmato di repertorio ha la funzione di rendere verosimile ciò che verosimile non è (guardare bene tra i pixel della realtà), nella letteratura della paranoia una funzione simile la esercitano i fatti e i personaggi della storia: l’Edgar J. Hoover delilliano, per esempio, o le mille controfigure della politica mondiale citate nell’Arcobaleno della gravità, per quanto nel grande capolavoro pynchoniano la sostanza del complotto si riveli più assurda del falso e la paranoia si trasfiguri in satira.

A cosa si è assistito poi, nei decenni successivi? Possiamo constatare che i grandi maestri dell’“arte della paranoia” non hanno avuto eredi. La letteratura e il cinema o almeno le loro punte di diamante, si sono dedicate ad altro e, se hanno parlato di paranoia, lo hanno fatto stringendo l’obiettivo sull’uomo e sulle sue psicosi, legate magari alla società in generale (Wallace, Ellis, Houellebecq, Amis), ma slegate in senso stretto dai sistemi politici. “L’arte della paranoia” è diventata invece predominio dei paranoici veri, degli ossessivi, degli spazzini della cultura (cercatori di scorie, di resti, di estetiche rimasticate).

Siamo in un’epoca in cui la bruttezza è diventata uno strumento di persuasione. Come se la bruttezza, la sgangheratezza, l’implausibilità fossero valvole di sfogo per le nostre frustrazioni sociali e personali. Le immagini devono essere sporche e gli attori possono recitare male.

Dall’arte alla paranoia

Accanto al documentario di propaganda, si è sviluppato per esempio un filone paranoico-complottista, che viene da definire blockbuster paranoico. Due esempi, per alcuni versi accomunabili, mi sono capitati sotto gli occhi negli ultimi mesi. Uno è Nuovo ordine mondiale, un film italiano (scritto, prodotto, diretto dai fratelli Ferrara), girato a Napoli con, tra gli altri, Enzo Iacchetti e Marzio Honorato (attore feticcio di Un posto al sole). Un film involontariamente comico, inguardabile e senza senso narrativo, ma che gioca a imitare nella sintassi una grande produzione di Michael Bay o Roland Emmerich: se non fosse che non è mai stato distribuito nelle sale ed è presente nella sua interezza su YouTube. Ricorda, nell’assoluta mancanza di accuratezza, la logica di certe produzioni porno anni Ottanta e Novanta, che presentavano una patina di professionalità produttiva adagiata come un velo su un’assoluta sgangheratezza narrativa, con tutto che sembra un pretesto – in quei porno, la sceneggiatura era solo un raccordo tra una scena di sesso e l’altra – per sproloquiare di Nuovo ordine mondiale, limitazione subliminale delle libertà civili, rettiliani e via discorrendo.

Il secondo esempio l’ho scoperto leggendo un numero dello scorso aprile del New Yorker. È la storia di David Crowley, che dal 2012 lavorava a un film intitolato Gray State. Crowley era un veterano della guerra in Iraq che, tornato negli Usa, si era messo in testa di fare il regista. Nel 2006 aveva sposato una ragazza emigrata qualche anno prima con la sua famiglia dal Pakistan e con lei, nel 2009, aveva avuto una figlia. I tre sono trovati morti nella loro casa in Minnesota nel gennaio 2015. Crowley descriveva il suo film, dice il New Yorker, come un documentario. Era ossessionato da questo lavoro. Teneva ossessivamente un diario. Aveva tappezzato il muro di casa con post-it che lo aiutavano (ma forse non è la parola giusta) a costruire tutte le ramificazioni narrative. I complottisti hanno subito immaginato che dietro la sua morte si nascondesse un omicidio di qualcuno che voleva zittirlo. La scena del delitto racconta tutta un’altra storia: quella di Crowley che, dopo avere ammazzato moglie e figlia, si suicida. Guardare su YouTube il teaser del film mai realizzato fa una certa impressione: innanzitutto perché vi compaiono moglie e figlia, e poi perché nulla di quelle immagini fa pensare a un documentario. Come in Nuovo ordine mondiale, c’è invece un senso di falso e di artificio che mal si concilia con l’intenzione di scoperchiare la verità. Simbologie a caso, scene di guerra, file footage “sporchi”, attori che recitano male, ma tutto sotto il cappello di una iper-produzione apparentemente ricca e impeccabile.

Diventa allora interessante confrontare questo fenomeno con l’estetica della comunicazione politica dei Cinque Stelle: fotomontaggi, scritte in Comic Sans, mostruosità assortite. Quello che molti trovano brutta, inverosimile, troppo trash per essere in grado di convincere qualcuno. Ma siamo in un’epoca in cui la bruttezza è diventata uno strumento di persuasione. Come se la bruttezza, la sgangheratezza, l’implausibilità fossero valvole di sfogo per le nostre frustrazioni sociali e personali. Dove la paranoia letteraria di DeLillo, con i suoi toni semi-profetici, si reggeva sulla bellezza compositiva, gli autori paranoici di questo tempo sembrano considerare la bellezza un’accettazione delle regole, un compromesso con il sistema che vogliono combattere. Le immagini devono essere sporche e gli attori possono recitare male. E via di piramidi, musichine, schermi che, come tubi rotti, hanno perdite da cui esce la verità.


Cristiano de Majo

Scrittore, giornalista, editor a Rivista Studio.

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