Sempre più spesso le grandi aziende multinazionali, e la loro pubblicità, combattono battaglie etiche al posto della politica. Ma è giusto subordinare l’etica al profitto?
È il 2021. La mia lista della spesa comprende un pacco da 500 grammi di pasta di semola che ha lanciato una campagna online per l’integrazione sociale, una crema di nocciole che ha deciso di donare un euro a confezione per i rifugiati, un litro di latte parzialmente scremato che si è schierato con uno spot a favore della parità di salario tra uomini e donne, un pacco da dodici rotoli di carta igienica a tre strati che ci ha ammonito con un documentario sui rischi del riscaldamento globale e un vasetto di olive sott’olio che ha lanciato un discusso spot contro l’omofobia.
In un momento storico in cui sembra prevalere nell’opinione pubblica la sfiducia nei confronti delle istituzioni, l’organizzazione economica meno democratica e partecipata della storia umana – il megabrand multinazionale – sembra aver preso a cuore i destini dell’umanità. Ogni marca sembra anelare di possedere quella che si chiama in gergo purpose: abbracciare una causa non correlata al proprio core business.
Migliorare il mondo
La purpose era una caratteristica del dna di aziende “strambe” come Patagonia (Yvon Chouinard, fondatore della marca di abbigliamento per montagna, famoso per l’annuncio che invitava a non comprare nulla nel corso del black friday di qualche anno fa, dichiara che “Patagonia is in business to save our home planet”) o di società “politiche” come Banca Etica, che ha concesso l’iniziale prestito per Mediterranea, la nave per il monitoraggio e salvataggio dei migranti nel mare libico. In Silicon Valley, serie tv di Hbo, ogni startup aveva la mission di “rendere il mondo un posto migliore”. Ora anche prodotti di largo consumo, come rasoi (Gillette, di P&G) e maglioni (Benetton, in Italia) vogliono dire la loro.
Ma è con la famosa e ubiqua campagna Nike “Dream Crazy” che la purpose campaign ha raggiunto l’apice, diventando l’archetipo a cui ogni marketer farà riferimento d’ora in poi. “Credere in qualcosa. Perfino se significa sacrificare tutto”. Kaepernick – il giocatore di football americano boicottato dal campionato e attaccato da Trump via tweet per essersi inginocchiato polemicamente durante l’inno nazionale – è il testimonial ideale di una campagna che vuole dividere costi quel che costi – apparentemente. Lui poteva dire di aver rischiato tutto.
Nella teoria del marketing differenziarsi nel prodotto significa (in buona sostanza) distrarre il consumatore dal confronto di prezzo ed essere così più resistenti alla concorrenza. Ma in quasi tutti i settori maturi staccarsi dalla scomoda azienda di prodotti sostanzialmente uguali è complicato. E allora l’opportunità di differenziarsi è individuata nell’advertising: e come differenziare l’advertising? Comunicando un sostegno morale a una causa. Ma da dove nasce l’idea che avere una missione morale porti successo a un brand? Credo di poter individuare il punto zero in un libro – e nella conseguente volontà di auto-redenzione da parte di marketer e pubblicitari. La ricerca in questione è il perno di Grow, libro scritto qualche anno fa da Jim Stengel, ex capo del marketing di P&G, in cui si analizzano i 50 brand con indici di fedeltà del cliente più alti. Gli “Stengel-50” nella sua visione hanno una cosa in comune: il “brand ideal”, cioè l’intenzione di “migliorare la vita delle persone”. È abbastanza vago, ma sufficientemente suggestivo. Stengel notò l’andamento in Borsa tra il 2000 e il 2011: questi brand crescevano di quasi il 400% mentre il resto languiva a un triste 7% di perdite. Cosa concludere se non che gli ideali di brand erano la base del successo? Perfino Martin Sorrell, discusso fondatore dell’agglomerato Wpp poi escluso dalla holding per motivi mai del tutto chiariti, dichiarò la propria adesione. In pratica, il capolavoro di wishful thinking era compiuto.
Le basi statistiche della ricerca erano labili se non inesistenti: la vaghezza della definizione di brand ideal (quello di Moet & Chandon era “exists to transform occasions into celebrations”. Eh?), la scelta dei brand partecipanti (ovviamente se scegli i brand migliori, otterrai statisticamente i brand con maggiore crescita in Borsa), totale impossibilità di correlare le vere cause del successo dei 50 brand. Ma nulla è più forte del senso di colpa dei pubblicitari associato a una formula magica che pare non solo spiegare il passato, ma predire addirittura il futuro del successo. Per anni trattati come agenti di decadenza della società, era il loro momento di essere accettati come propulsori di un cambiamento positivo, e non ci si è tirati indietro: finalmente anche l’advertising stesso poteva avere una purpose superiore, il miglioramento del mondo.
Nulla è più forte del senso di colpa dei pubblicitari associato a una formula magica che pare non solo spiegare il passato, ma predire addirittura il futuro del successo. Per anni trattati come agenti di decadenza della società era il loro momento di essere accettati come propulsori di un cambiamento positivo, e non ci si è tirati indietro
L’altra faccia della medaglia
Siamo sicuri che tutto questo porti davvero al miglioramento del mondo e/o dei brand? Questa doppia valutazione è pericolosamente foriera di corto circuito etico-economico. Nel momento successivo al lancio della campagna di Nike il gioco preferito è stato calcolare quanto le azioni ne abbiano risentito, e quanto le vendite abbiano reagito positivamente o meno. Nessuno dei due è in realtà un indicatore corretto per giudicare il ritorno economico. L’aumento delle vendite non è considerato direttamente dipendente dalla pubblicità nel breve periodo almeno dagli anni Settanta. Le azioni sono vendute e comprate nel breve termine sulla base dell’emotività, non dei dati di bilancio.
Per essere considerata “di posizionamento sociale” e quindi essere immessa nella “Hall of Fame della discesa in campo dei brand” un’azione di marketing deve comunicare a una fetta dei propri clienti “signori, andate a comprare da un competitor perché i vostri valori non sono i nostri”. Ma se invece questa fetta di clienti è irrilevante per il brand, dov’è l’eroismo? Quanti clienti di Nike, soprattutto delle sneaker premium-price, possono essere considerati “a rischio” dal viso in bianco e nero di Kaepernick e quanti invece “perfettamente in target”? Se prendere posizione è nient’altro che perfetta esecuzione di marketing strategico, con consolidamento della brand awareness – Nike ha guadagnato una extra-esposizione sui media di 43 milioni di dollari – dove starebbe l’atto eroico della presa di posizione tanto decantato dai marketer come elevazione morale di un’intera categoria?
All’opposto, prendere posizione non è utile a qualsiasi brand, e dipingersi per un agente di miglioramento del mondo non porta automaticamente fatturato: non è la bacchetta magica immaginata in Grow, anzi. Il caso Gillette è arrivato pochi mesi dopo, tramite uno spot in cui episodi di bullismo, molestie e sessismo tossico maschile erano messi sotto accusa. Ha scritto Mark Ritson su Marketing Week UK: “Questa settimana Gillette ha deciso che ciò di cui un uomo ha veramente bisogno nel 2019 non è solo una sbarbata e una brand image aspirazionale. No. Il brand ha deciso che ciò che fa continuare a comprare Gillette agli uomini è dirgli che non sono buoni abbastanza, e devono migliorare”.
“Invece di alienarsi una bella fetta di potenziali clienti insegnando cosa è giusto e cosa no, dovreste cercare di vendere rasoi”. Il commento alla campagna su YouTube, uno dei pochi casi in cui un video pubblicitario ha ricevuto due volte più dislike che like, ha ricevuto a sua volta quasi 5.000 like. Gillette ha rischiato sul posizionamento e ha probabilmente perso. Ha creato un messaggio “giusto” – anche se dall’esecuzione probabilmente troppo pesante e manichea, da pubblicità progresso – ma ha diviso in due i consumatori, e ne ha perso per strada una metà. Molti di quelli che acquistavano il brand di “il meglio di un uomo” non hanno gradito essere associati – sia pure indirettamente – a maschi cattivi. Un brand che si immola così, senza rete, sarà ancora inserito nella Hall of Fame dai pubblicitari? Probabilmente no, non ricorderemo come best practice questa campagna negli award di settore. Forse nella lista degli epic fail.
Se prendere posizione è nient’altro che perfetta esecuzione di marketing strategico, con consolidamento della brand awareness – Nike ha guadagnato una extra-esposizione sui media di 43 milioni di dollari – dove starebbe l’atto eroico della presa di posizione tanto decantato dai marketer come elevazione morale di un’intera categoria?
Trasversalità o polarizzazione
La risposta è forse più semplice del previsto: se il tuo cliente è trasversale e hai una grossa fetta di mercato non puoi permetterti di prendere posizione su temi politici. Inoltre, nonostante ricerche ci dicano che i consumatori sono sempre più interessati ai perché (Edelman porta come prova una ricerca in cui il 63% avrebbe provato un prodotto proprio a causa della posizione su di un argomento controverso), ci sono segnali contrastanti su come gli stessi clienti agiscono realmente. Fallimenti ripetuti di limitare la plastica nei supermercati con i detersivi re-fill, aumento dell’acquisto della verdura confezionata in plastica rispetto al sacchetto biodegradabile, stagnazione dei consumi del comparto equo-solidale, silenzio che regna sul fashion sostenibile: la “bontà” non sempre si trasforma in fatti, soprattutto quando significa rinunciare al prezzo migliore in assoluto. Anche i boicottaggi post social-fail hanno il fiato corto quando si cerca un riflesso nelle vendite: la gaffe sulla pallavolista nera nascosta dalla bottiglia di acqua minerale quanto ha influito? Di certo l’effetto è svanito quasi subito, e rimane solo nelle slide di chi si occupa di reputazione.
C’è un’eccezione – ed è il punto in cui il corto circuito tra risultati economici e messaggi sociali si rivela. Il messaggio “populista” può avere l’appoggio della maggioranza dei clienti di un brand, anzi, essere usato per incrementarne il numero. È il caso del crescente risalto dato all’italianità – bandierine italiane sui packaging, nelle insegne, nei volantini perfino di discount notoriamente tedeschi. È valorizzazione del made in Italy o appoggio morale alla chiusura verso l’estero che si inserisce in altri filoni meno politicamente corretti? Siamo d’accordo con questa comunicazione?
Il marketing vuole portarci a ragionare di valori, ma solo finché questo comporta un acquisto. Comprare una scarpa invece di un’altra ci fa sentire impegnati, come se avessimo fatto davvero qualcosa di concreto. Ma l’obiettivo di qualsiasi azienda e dei suoi azionisti rimane il conto economico e nessun consiglio di amministrazione controllerà mai quanto abbia influito una campagna sulla società. Anche quando le battaglie sono quelle che sentiamo nostre, anche quando diciamo che “è giusto”, anche quando pensiamo “è meglio che quel messaggio ci sia” piuttosto che nessuno ne parli. Un carrello colmo di prodotti che urlano cause per propria convenienza non sarà foriero di un mondo migliore: perché così la politica sembrerà ancora più sbiadita, se sostituita dagli interessati lustrini del marketing.
Gianluca Diegoli
Dalla Bocconi in poi osserva passare i trend dall’evanescente confine tra online e offline. Di giorno si occupa di marketing e digital, di notte ha scritto Svuota il carrello (2020) per UTET. È professore a contratto in IULM e in Master. Ogni venerdì alle 9 manda la sua newsletter.
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