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Beauty inferno, belle impossibili

Celebrità di ogni tipo, modelle su Instagram, conduttrici tv e persone comune, in Italia e nel mondo: tutti sono impazziti per la skincare e sui social si consuma il trionfo di tutorial e trucchi in vendita.

Nel 1992 usciva La morte ti fa bella di Robert Zemeckis. Nello stesso anno, quasi un trentennio fa, nascevo anch’io che sto scrivendo queste righe; sembra una coincidenza poco rilevante ai fini del discorso, ma non è così. Meryl Streep e Goldie Hawn, le due protagoniste del film, sono due donne disposte a tutto pur di non vedere alcuna traccia di tempo sulla loro pelle, persino a trangugiare un elisir che le renderà sì immortali, ma anche decadenti come un cadavere che cammina. “Well, it is the natural law…”, “Screw the natural law!”, risponde Isabella Rossellini in veste da pusher di filtri magici anti-età alla rassegnazione di Meryl Streep – “Legge della natura un cazzo!”, nella più eloquente versione italiana. La loro consapevolezza, il senso di invecchiamento e quella voglia irrefrenabile di mettere un freno a mano all’età che avanza facendosi spazio tramite solchi sul viso e pelle cadente è ciò contro cui sbatte la faccia – e il contorno occhi – ogni donna che abita il pianeta terra dalla notte dei tempi. 

Death Becomes Her è uno di quei film che, arrivata alla soglia dei trent’anni, come tutti i nati all’inizio degli anni Novanta, comprendi in un modo tutto nuovo, epifanico, e ti rendi conto che sì, anche tu faresti carte false per quella boccetta portentosa, a costo di cadere a pezzi nel corso dei millenni successivi. Purtroppo non c’è nessuna pozione magica, ahimè, ma esistono il retinolo, l’acido ialuronico, le maschere, i sieri. Non esistono i patti con il demonio, ma c’è un inferno pieno di gironi e anime in pena fatto di donne – e uomini, pochi – che vendono, spiegano, promuovono, inventano metodi per far sì che la propria pelle rimanga per sempre immutabile come una porcellana.

Skincare o morte

André Bazin nel saggio del 1945 Ontologia dell’immagine fotografica introduceva il cosiddetto “complesso della mummia”: l’uomo ha sempre avuto paura di morire, deteriorarsi, sprofondare in un oblio privo di qualsiasi aggancio con la memoria della sua esistenza, in altre parole di invecchiare, per questo, appunto, si immortala. Ciò che Bazin non poteva immaginare, ma certo aveva intuito, era che il secolo successivo sarebbe stato quello in cui la mummificazione del corpo, da pratica elitaria concessa a faraoni, nobili dipinti nei ritratti e divi del cinema in pellicole, sarebbe diventato un processo quotidiano alla portata di tutti. Gli smartphone si evolvono in modo da essere sempre più simili alla prosecuzione del nostro braccio che culmina in una fotocamera frontale, ormai dettagliatissima, utile al costante uso che ne facciamo: lavoro, vanità, intrattenimento, svago. Durante il 2020, e come ben sappiamo anche in gran parte del 2021, le occasioni di specchiarsi attraverso lo schermo di un computer o di un telefono si sono moltiplicate, tra conference call e telefonate di gruppo per simulare mesti aperitivi digitali. 

Donne dello spettacolo, molto o poco famose, usano il web per diffondere il verbo. Un verbo che nel peggiore dei casi si trasforma in un codice sconto da applicare sugli ordini fatti sotto prezioso e intimo consiglio, nel migliore invece in una vera e propria industria brandizzata che porta il loro nome.

Da una fugace visita al bagno dell’ufficio per aggiustarsi il rossetto a un perenne e infelice confronto con il nostro viso: il rapporto che abbiamo con l’immagine di noi stessi sta cambiando in modo radicale, e con lei il senso di decadimento e l’ansia per il deterioramento di una faccia con cui abbiamo contatto in ogni istante della giornata. Se invecchiare è sempre stato il cruccio dell’essere umano, in particolare radicato nel genere femminile per le pressioni sociali e culturali rispetto alla sua “data di scadenza” – Grimilde vuole far fuori Biancaneve perché è più giovane e più bella, mica perché è più ricca o potente – , nell’era del tardo capitalismo e della digitalizzazione la corsa contro il tempo ha subito una bella accelerata. La skin care arriva in nostro soccorso e ci dimostra che l’eternità è ottenibile attraverso una meticolosa pratica utilitaristica, bastano solo know how e tanti, tantissimi soldi da investire.

Mangia, prega, idrata

Quando mi sono resa conto che le rughe erano un tema che cominciava a occupare gran parte del mio pensiero ho fatto quello che fanno tutte le donne dotate di una connessione internet: ho cercato su Google. Non potevo sapere che ciò che si sarebbe spalancato sarebbe stato un vero e proprio universo sotterraneo, dal momento che finché non lo cerchi, puoi tranquillamente non sapere che esiste; e dal momento successivo a quello in cui lo hai cercato, ogni spazio di sponsorizzazione digitale a te mirata sarà riempito dal sapiente algoritmo che tutto sa e tutto muove. La tv e le riviste sono sempre costellate di spot per creme ringiovanenti con donne eteree immerse in uno sfondo bianco che si accarezzano dolcemente le guance. La nuova ondata di ossessione dermatologica ha una serie di elementi che fino a pochi anni fa si concludevano in un mercato sì enorme, ma non così frammentato: se prima una celebrità prestava il suo viso apparentemente giovane e tonico per uno spot di qualche minuto su una crema notte che promette di darci gli zigomi di Charlize Theron in poche settimane, ora non solo possiamo accedere alla conoscenza esoterica di formule chimiche con cui cospargerci il viso grazie alla quantità enorme di beauty influencer presenti sul mercato – ossia sui social – ma anche le celebrità stesse si premurano di condividere con noi ogni delicato step della cura quotidiana della propria pelle nel bagno di casa; un po’ invadente certo, ma qual è oggi il confine tra pubblico e privato? 

Da un lato, donne da tutto il mondo che dibattono animatamente sui social, nei forum e su uno dei thread più nutriti e attivi di Reddit, SkincareAddiction, giovani accumulatrici seriali di prodotti che grazie a comode slide preparate con Canva ci spiegano le interazioni tra nicotinamide e vitamina C, mostrandoci la recensione di ogni singolo brand di skincare – e credetemi, sono veramente tanti, quasi impossibile contarli, ce n’è per tutti i gusti, i green, gli aggressivi, i semplici, gli economici, i costosissimi. Dall’altro, donne dello spettacolo, molto o poco famose, non importa, usano il potente web per diffondere il verbo. Un verbo che nel peggiore dei casi si trasforma in un codice sconto da applicare sugli ordini fatti sotto prezioso e intimo consiglio, nel migliore invece in una vera e propria industria brandizzata che porta il loro nome. In entrambi i casi, l’obiettivo è lo stesso: garantire che l’involucro che ricopre muscoli e organi abbia un aspetto quanto più simile a ciò che vediamo quando applichiamo un filtro di Instagram sul nostro viso – il paradigma estetico contemporaneo, infatti, è quello della Instagram face.

Irreggimentare la nostra quotidianità in una marcia fatta di passi precisi, da non saltare né invertire, mosse da un atto di fede, soldatesse dei pori stretti e della texture vellutata. Nessuna di noi sa cosa sia l’acido ialuronico – tranne qualche eccezione costituita da chi studia queste cose, ma si sa, la chimica è noiosa, ed essere una fattucchiera nel 2021 richiede uno sforzo non da poco – né tantomeno è chiaro se davvero tutto ciò funzioni o se si tratti di placebo, o di truffa, ma l’importante è praticare con costanza e dedizione, mane e sera, le procedure che dal riquadro Instagram abbiamo appreso essere cruciali: esfolia, idrata, tonifica, massaggia, e poi ancora così, tutti i giorni, finché morte non ci separi. 

“Me lo avete chiesto in tanti”

Il rapporto diretto tra influencer e follower, il filo narrativo della sponsorizzazione relatable e di quel senso di distanza accorciata tra pubblico e celebrità è forse l’elemento centrale della svolta social. Se poi questa intimità persuasiva si focalizza su qualcosa di così individuale e unico come la pelle, l’unico abito che non potremo cambiare mai e su cui si proiettano una miriade di sfumature sociali – non a caso la scrittrice femminista Susan Sontag negli anni Settanta scriveva The Double Standard of Ageing a proposito di donne, pelle, società – la combinazione diventa sorprendentemente prolifica. Le celebrità, le donne da copertina, le divinità laiche verso cui nutriamo un senso di proiezione ed emulazione, hanno sempre utilizzato la loro immagine per venderci qualcosa che ci desse l’illusione di somigliare un po’ più a loro e un po’ meno a quell’inutile, non-famoso ammasso di cellule che siamo noi comuni mortali. Il trend è cominciato con i profumi: nei primi anni Zero, Britney Spears, idolo delle teenager, ragazza della porta accanto e icona pop con un percorso dell’epilogo abbastanza tragico, fu la prima celebrity a sbancare il mercato della cosmetica con la sua famosa linea di fragranze. Non abiti né accessori ma qualcosa di più subdolo, qualcosa da poter sentire, non a caso, a livello epidermico, l’odore stesso emanato dalla cantante poteva diventare nostro con una pratica boccetta che allegoricamente ne raffigurava l’essenza.

Con l’exploit della skincare, la faccenda si fa ancora più intima, e ogni celebrità che esiste sul globo conta il suo personalissimo video di beauty routine. Non si scampa, prima o poi dovrai dire a qualche rivista – Vogue sfrutta molto questo format con grande successo – o a qualche milione di seguaci sul tuo profilo Instagram di cosa è fatta la sostanza di cui è fatta la tua pelle perfetta; non di sogni, chiaramente, ma di semi-solide realtà che, in molti casi, non si limitano a essere semplici consigli in forma di lista per la spesa ma un vero e proprio brand che porta il nome della vip skin-conscious in questione. Dalle linee di make-up che portano il nome di attrici, cantanti e influencer – prosecuzione diretta dell’era del profumo – si fa un passo indietro, o forse più in profondità, con lanci di prodotti che agiscono sulla cura della pelle non più solo in termini di invecchiamento ma, soprattutto, di prevenzione. Anche le tiktoker in età puberale condividono con i milioni di follower tutti i passi della loro routine, perché ciò che oggi è un brufolo domani sarà una fine line del tempo, e non si è troppo giovani per una goccia di acido ialuronico. 

Siamo tutte skin positive con la pelle delle altre

In tutta questa storia fatta di creme e maschere coreane, c’è un sottotesto interessante: il messaggio pubblico sul corpo femminile si è spostato su concetti come l’inclusività, l’auto-accettazione, la body positivity e tutti i suoi derivati, compresi quelli epidermici. Aurora Ramazzotti, Matilda De Angelis, Giulia De Lellis – giusto per citare le italiane che oltreoceano hanno colleghe del calibro di Kendall Jenner – hanno fatto coming out sulla loro pelle acneica, squarciando il velo di Maia, che in questo caso prende le fattezze di un fondotinta o di un filtro nelle stories. Tutto il marketing cosmetico di oggi ruota attorno al mantra body positive, portando il concetto di “Perché io valgo” a un nuovo livello: Rihanna lancia la sua linea di grande successo Fenty Beauty – e Fenty Skin – che include nuove gradazioni di makeup per pelli nere, perché le minoranze sono pur sempre una fetta di mercato, così come le meno belle, le donne sovrappeso, le brufolose, le vecchiarde e tutte le figure che mancano all’appello della rappresentazione mainstream. Mentre il business si sposta su un piano di promozione basato sul senso di rappresentazione e inclusività che pesca a piene mani dai movimenti di attivismo online contemporanei sulla self-acceptance, sia che si tratti di corpo che di pelle, la realtà va tutta da un’altra parte. 

Nessuna di noi sa cosa sia l’acido ialuronico né tantomeno è chiaro se davvero tutto ciò funzioni o se si tratti di placebo, o di truffa, ma l’importante è praticare con costanza e dedizione, mane e sera, le procedure che dal riquadro Instagram abbiamo appreso essere cruciali: esfolia, idrata, tonifica, massaggia, e poi ancora così, tutti i giorni, finché morte non ci separi.

JLo ha lanciato la sua linea di skincare basata sull’olio d’oliva, Kylie Jenner ha lanciato la sua linea di skincare nuova e fresca da abbinare ai suoi prodotti Kylie Cosmetics, Emily Ratajkowski lancia Loops Beauty, Pharrel Williams Humanrace, ma anche Alessia Marcuzzi con Luce Beauty, sottotitolo “cosmetici clean e biologici”. Da un lato abbiamo schiere di celebrità che prestano nome e volto a nuovi brand su misura, rimescolando ingredienti e composizioni che, a conti fatti, non variano molto da tutti gli altri prodotti già presenti in commercio se non per una mera questione di packaging – e il web è pieno di esperti dermatologi che fanno le loro reaction a prodotti e consigli di skin care dei vip, è proprio un genere di YouTube a sé stante. Dall’altro, non siamo mai stati così tanto esposti a immagini ritoccate e filtrate, a un’esposizione del proprio viso e corpo così moltiplicata, capillare, costante. Ciò che Jennifer Lopez o Kylie Jenner però non dicono quando vendono al mondo i segreti della loro perfezione è tutto ciò che sta dietro alla manutenzione del loro aspetto fisico, di cui la beauty routine fatta con il cerchietto di spugna in testa nell’intimità del proprio bagno di casa è solo un minuscolo tassello. La chirurgia estetica, sempre meno invasiva e delicata che agisce con precisione certosina su dettagli microscopici del volto, è il grande non-detto dell’advertising per la skincare, e finita l’era delle labbra a canotto, del nasino alla francese e degli zigomi ripieni, siamo passati all’era del filler e della blefaroplastica. 
Ci diciamo che stiamo bene così come siamo, che le rughe sono un dono prezioso – per citare Anna Magnani, sapientemente parodizzata da Emanuela Fanelli nella finta fiction Simonetta – e che siamo tutte belle, a prescindere dalle taglie, dai brufoli, dalle smagliature, dalla vecchiaia che inesorabilmente viene a prenderci, e poi di nascosto spulciamo tra le pagine di Before – After delle celebrità che pullulano sui social, gongoliamo non appena viene fuori una nuova foto di qualche attrice divinità con i buchi della cellulite in vista, ci crogioliamo, tra una maschera all’avena e una boccetta di retinolo, nell’illusione che forse, stavolta, quella crema funzionerà. Sappiamo tutte che non è così, ma ci crediamo; sappiamo bene che a rendere Gwyneth Paltrow ciò che è non sarà stata certo una centrifuga con papaia e oli essenziali, ma magari la sua spugna esfoliante funziona. Sappiamo anche che i social distorcono, appiattiscono, livellano la realtà e che non è l’olio d’oliva che salva la pelle di una donna di cinquantadue anni, ma l’illusione rimane, e la speranza che una boccetta di veleno, qualunque cosa ci sia dentro, in qualche modo ci mummifichi in uno stato di perenne giovinezza un po’ la nutriamo. Anche se è la legge della natura, ma in ogni caso “Screw the natural law!”.


Alice Valeria Oliveri

Autrice e musicista, si è laureata alla Sapienza in anglistica con una tesi di teoria della letteratura. Scrive su diverse testate online di cinema, tv, serie televisive, musica e attualità. Ha collaborato con Dude Mag, VICE, Noisey, Motherboard, Prismo, The Towner e The Vision, dove è stata redattrice.

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