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Autofiction involontarie

Fenomenologia della gente comune che appare in televisione, dal semplice applauso a comando al più bieco protagonismo del pubblico parlante.

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Questo articolo è apparso per la prima volta su LINK Numero 19 - Gente dovunque del 12 novembre 2015

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L’apocalisse della gente comune è compiuta. È ovunque, sempre più numerosa, occupa ogni anfratto di palinsesto. Il pubblico si nutre di pubblico. Ma che fine fa? Con quali ruoli e quali funzioni? Come si inserisce all’interno della macchina televisiva, pronta a stritolare chiunque, soprattutto chi è meno attrezzato a resisterle? Tra la superficie faceta e una profondità molto seria, ecco una carrellata di figure ormai essenziali in ogni talk o reality.

La professoressa (democratica, naturalmente)

Scelta a caso tra gli amici degli autori del programma (di solito dell’ultimo arrivato che vuole farsi bello ed è disposto a sacrificare un conoscente), è invitata a ogni dibattito sulla scuola, cioè ogni tre mesi, per rispondere all’esigenza “sì, ma non sentiamo solo i sottosegretari all’istruzione che non hanno mai varcato il cancello di una scuola”. La professoressa esordisce sempre con una citazione di Pericle – se arriva dal classico – o di Bertrand Russell – se dallo scientifico. (Altri licei o istituti non vengono presi in considerazione con l’eccezione dei servizi a tema “scuole e degrado”). Dopo lo sfibrante ipse dixit inizia a dipanare un discorso che, fin dalla prima frase, appare evidente toccherà per sommi capi tutta la storia d’Italia dal primo dopoguerra in poi. Dopo un minuto viene interrotta dal disturbatore professionista da talk o, nei casi migliori, dal conduttore preoccupato per gli ascolti. La professoressa, abituata a non essere interrotta mai, da trent’anni, da nessuno, capisce improvvisamente che se i suoi studenti non la interrompono non è in virtù delle sue avvincenti spiegazioni ma perché temono di essere puniti. A quel punto cade in una cupa depressione e smette di intervenire, limitandosi a fare di no con la testa. Si riprende solo il giorno successivo quando, a scuola, studenti abili a mentire le dicono: “Prof, ieri sera le ha cantate a tutti”.

Il pubblico parlante in studio

Il tizio – o più spesso la tizia – a cui viene affidato il microfono in studio crede di rappresentare la voce del popolo. Si sente cucita addosso quell’investitura. È convinta che il conduttore – o più spesso la conduttrice – abbiano deciso di dargli parola perché il pubblico a casa è stufo dei vip e dei soliti noti e vuole sentire la gente comune. In realtà si sbaglia di grosso. Anzi, non c’è nulla di più falso e la sua funzione è esattamente opposta. Il pubblico parlante in studio serve a ricordare al pubblico a casa che, nonostante tutto, preferisce i vip, persino quelli più scadenti e raffazzonati.

Il pubblico parlante in studio serve a ricordare al pubblico a casa che, nonostante tutto, preferisce i vip, persino quelli scadenti e raffazzonati.

Quello che ha scritto un libro

È l’unico ad avere ancora fiducia nel potere della televisione. Più dei responsabili delle reti, degli inserzionisti pubblicitari e dei produttori di teleschermi. È l’unico che crede ancora che la tv regali notorietà e potere, quando ormai persino i concorrenti di talent e reality sono ben più scafati a riguardo. Il vero scrittore da tv lo riconosci perché sente il bisogno di avvisare tutti i suoi contatti sui social del fatto che sarà in tv. È convinto che davvero qualcuno metterà la sveglia alle sei del mattino o avvierà un player dal telefonino per ascoltare cosa starà dicendo in quel programma del pomeriggio a proposito della scomparsa del peperone imbottito dai menù dei ristoranti. Gli preme sempre precisare che lui con quella brutta scatola non si mischierebbe mai, però sente il forte impulso morale di dare le perle ai porci perché, in fondo, anche tirare fuori dal porcile un solo maiale per lui è importante. (L’idea di paragonare gli spettatori a maiali gli appare del tutto calzante). Esordisce sempre con una citazione di Marcuse totalmente fuori contesto e incoerente con quanto detto fino a quel punto in trasmissione. (A dirla tutta il più delle volte esordisce con una citazione di Vujadin Boskov attribuendola erroneamente alla Scuola di Francoforte). Se inserito all’interno di un talk in breve finisce rosso di rabbia a litigare con il più stupido in studio confermando il famoso adagio “non discutere con un cretino: la gente potrebbe non capire la differenza”. Giura e spergiura che non accetterà mai più un invito in tv, ma poi, poche ore dopo, di nuovo sui social condivide la clip. Precisando: “per chi se la fosse persa”. Si addormenta roso dall’esprit d’escalier immaginando tutte le fantastiche risposte che avrebbe voluto dare e non ha dato. Se le appunta convinto che, un giorno, scriverà un saggio, un articolo o magari perfino un romanzo seminale sulla televisione, e cambierà l’ordine delle cose.

L’ospite con il cibo

“Oggi è venuto a trovarci un gruppo di Caserta e ci ha portato la mozzarella. Grazieeee!”: basta questa frase, la maggior parte della volte a telecamere spente, perché un gruppo di persone che ha pagato il noleggio di un pullman per una giornata e si è presentato in studio gratuitamente facendo risparmiare la produzione del costo dei figuranti si convinca di aver speso bene tempo e soldi. La tv resiste prevalentemente grazie a loro, ma per le solite questioni freudiane sono detestati da chiunque: “non vorrei mai lavorare per un programma in cui il pubblico da casa porta i salami”, afferma, infatti, l’autore scafato che deve a loro il suo stipendio.

La vox populi

I lunghi montaggi di interviste per strada fingono di rappresentare il “cosa pensa davvero la gente” quando rappresentano in realtà un molto più narcisista “per apparire agli occhi degli altri simpatico e intelligente cosa dovrei dire?”. Qualsiasi servizio con la vox populi farebbe perdere fiducia nel genere umano anche a Tonino Guerra (come si fa a essere ottimisti con quella gente lì?). Il vero sogno sarebbe vedere una volta montate non le persone che rispondono ma tutti quelli che preferiscono evitare di dire la loro davanti alle telecamere perché non vogliono farsi un opinione sul referendum per l’abolizione dell’albo dei notai o perché – orrore – considerano la loro opinione sulla Grexit non meritevole di andare in tv. (Poi magari la condividono su Facebook ma va bene, non si può avere tutto). Vedere che per ogni persona disponibile a parlare ce ne sono altre venti che stanno correndo al lavoro, a casa, dalla manicure o semplicemente non vogliono alzare gli occhi dallo smartphone sarebbe vera “pubblicità progresso”.

Il medico

Negli Usa hanno American Horror Story, noi, per spaventare il pubblico, abbiamo il medico ospite. Finge di voler rassicurare chi è all’ascolto ma in realtà con tecniche subdole di seduzione prova a trasformare ogni spettatore in un forsennato ipocondriaco. Non guarda mai in camera perché è sempre impegnato a verificare dai monitor in studio se la regia sta mandando in onda il sottopancia con il suo nome e la sua specializzazione. Ha accettato di intervenire gratuitamente “per onore della scienza”, ma in realtà l’unica cosa che gli interessa sono le telefonate allo studio di quelli che sta terrorizzando suggerendo l’esistenza di malattie mortali che come sintomo hanno un leggero prurito. Quando invece interviene a pagamento non prepara nulla e risponde a ogni domanda come una nonna degli anni Cinquanta: “evitare le ore calde del giorno, bevete molta acqua, gelato sì ma privilegiate i gusti alla frutta, se si è mangiato troppo il bagno solo dopo tre ore”.

La claque del politico (percepita)

Ogni volta che un politico in studio riceve un applauso lo spettatore smaliziato salta su, pronto, a commentare: “vabbè, ma quello c’ha la claque!”. Perché quello della claque è un mito duro a morire per la semplice ragione che l’esistenza della claque è rassicurante. Pensare che il pubblico in studio applauda per una roba razzista, populista, per una stupidaggine, o perfino sapendo che quel politico solo un mese prima affermava l’esatto opposto, ci tranquillizza. Possiamo accettare gli applausi di uno che ha degli interessi per farlo, ma che lo si faccia per convinzione, quello no, ci farebbe incavolare. Allora diamo la colpa alla claque invece che all’irrazionalità della folla. E ricominciamo a fare la claque, però di quell’altro.

La claque del politico (reale)

A essere sinceri, il politico porta davvero in studio una qualche specie di claque che negli anni, però, invece di concentrarsi sugli applausi ha deciso di mimetizzarsi e si applica di conseguenza nell’arte del mimo (o nella gestione dei social in tempo reale che non sono altro che la prosecuzione della claque in studio con altri mezzi). Gli accompagnatori sono quelli che spesso vedi nell’inquadratura, schiacciati dietro al loro riferimento. Twittano per lui, controllano per lui come sta andando la faccenda e commentano con i sorrisi le sue parole e con le smorfie quelle altrui. Scrollano la testa, soffrono, hanno mal di pancia, si sbellicano per ogni stupidaggine (questo lo fanno pure gli autori bravi, ndr, e bisogna essere esperti per riconoscere le differenze). Cercano di fingersi spettatori occasionali ma poi, quando guardi il telegiornale, li riconosci perché sono lì con il braccio teso a reggere l’ombrello per proteggere il capo e l’abito del capo, mentre loro gocciolano zuppi d’acqua piovana.

La vittima della crisi

Lo spettatore guarda la scheda di presentazione della vittima della crisi, ascolta la sua triste storia e, prima ancora di sentirlo parlare, è già solidale. Di più anche. È carico. Pronto come una molla a indignarsi. A scendere in strada e a fare le barricate. Ad aiutare quell’uomo. Poi succede sempre dell’incredibile. Minuto dopo minuto, la vittima della crisi compie un’impresa immane e nel 99% dei casi trasforma lo spettatore nel più cinico dei cinici. Si rende talmente odioso e insopportabile da costringere lo spettatore a pensare che non vale la pena aiutare quella vittima della crisi visto che un po’, dai, diciamocelo francamente, siamo tra noi, pane al pane, quello lì la crisi se l’è meritata.

Lo straniero

Schema di conversazione che si ripete, almeno una volta al giorno, quando c’è uno straniero in un talk.

  • Se lo ricorda che anche gli italiani sono stati un popolo di emigrati?
  • Sì, ma gli italiani rispettavano le leggi.
  • E la mafia?
  • Vuole dire che gli italiani sono tutti mafiosi. E allora l’Isis? Lei è un simpatizzante? Lo ammetta!
  • Io rispetto le leggi. Pago le tasse, qui. E voi non mi fate neanche votare.
  • Lo dica ai suoi amici. È per colpa loro che le leggi sono così. Siamo a casa nostra.

Il viaggiatore

“È bello conoscere culture diverse, avere a che fare con tradizioni lontane da noi, mangiare cibi nuovi e vedere il mondo attraverso gli occhi di un bambino diverso da te”. Che sia andato a Buenos Aires in Vespa, a Shanghai in un hotel a sei stelle, che abbia vissuto con i cannibali per un anno o sia andato a Cesenatico il weekend di ferragosto, il viaggiatore riporta sempre la stessa testimonianza entusiasta e vacua del viaggio. Anzi, dovendo trovare un esempio preciso dell’impossibilità proprio esistenziale per gli uomini di comunicare non la si può trovare altrove che nel racconto dei viaggi. E, infatti, per quanto il viaggiatore si sforzi di far capire cosa ha provato non riesce mai a evitare nessuno dei luoghi comuni sul viaggio finendo solo per convincere gli spettatori a rifugiarsi in un villaggio dove i camerieri, pure in Polinesia, parlino italiano e servano fettine giusto con un filo d’olio.

Il salutista

Consiglia di nutrirsi di bacche, yogurt di caglio di capra marsicana e cereali molto usati ai tempi dell’imperatore Massimiano. Sponsorizza dita in titanio perché lui non usa buste di plastica dal 1993, suggerisce di fare le scale al posto dell’ascensore per tenersi in esercizio, fomenta l’organizzazione di collette per i gruppi di acquisto bio e solidale. Finge di avere una professione di cui poi cambia nome, parametri e specializzazioni a seconda delle necessità dello show. In realtà ha perso il suo vero lavoro dopo aver rimproverato il capo sull’inefficienza della raccolta differenziata della carta in ufficio. Rivitalizzato dal boom dei factual crede di essere un missionario, infatti solo i sacerdoti che appaiono in tv hanno il suo stesso afflato. Richiede sacrifici agli spettatori non diversi da quelli richiesti durante le preghiere mariane del pomeriggio. Solo che mentre quelli almeno promettono la vita eterna in ricompensa, il salutista della tv del pomeriggio ti chiede di andare al supermercato con 25 flaconi vuoti per non produrre altri polimeri (è il nome con cui chiama la plastica), così, per salvare le sue vacanze al Borneo.

Il giovane, nelle trasmissioni per vecchi (cioè, praticamente, tutte)

Ogni tanto in un talk show invitano un giovane in quanto giovane. A lui è consentito dire le cose che i vecchi – per non apparire pericolosi revanscisti – si vergognano di dire. Chi di fronte a un qualsiasi fatto di cronaca, oggigiorno, può avere così poco pudore da chiedersi: “ma dov’è la famiglia? Dove sono i valori? Dov’è il senso di appartenere a una comunità?”. Solo i giovani. In tv sono loro i veri retrogradi.

Il pensionato

Un signore già operaio in mobilitazione, poi operaio assembrato in protesta, quindi ex-cassintegrato e poi ex-esodato, ora – in base al cursus honorum – viene invitato in qualità di pensionato con la minima. Come l’applausometro di La sai l’ultima?, il pensionato si carica con gli applausi. Il suo scopo ultimo è farsi notare da altre trasmissioni tv e dai colonnini di destra dei quotidiani online. Negli ultimi anni, da quando è diventata di moda la decrescita, il conduttore si sente spesso in dovere di domandare al pensionato come riesce a vivere con così poco. A quel punto lui assume un’espressione da filosofo cinico del Peloponneso. Vanta uno stile di vita ridotto all’osso in cui, tuttavia, grazie alla sua saggezza e parsimonia, non manca nulla. Poi, come Ugo Tognazzi in Signore e signori buonanotte, si angoscia tetro appena parte la pubblicità e si vede gente felice.

Lo startupper

Il suo discorso parte sempre con l’esaltazione del garage in cui sono nate le grandi aziende americane e con il fatto che nelle grandi aziende americane si può giocare a ping pong durante l’orario di lavoro per produrre di più. Poi arriva alla spiegazione del business plan della sua start-up e tutto si annebbia. Costringe chi lo ascolta ad addentrarsi tra insopportabili calchi dell’inglese, verbi non coniugati e fallimentari metafore rivoluzionarie del tipo “questa app sarà la sedicesima rivoluzione industriale e cambierà il mondo in meglio come il QR-code”. Al termine della poco chiara esposizione che, ovviamente, rende palese perché nessuno investa nell’idea dello startupper si capisce, il 99% delle volte, che il piano industriale consiste nell’idea dell’ennesimo nuovo sistema per la consegna della pizza a domicilio.


Arnaldo Greco

Nasce a Caserta e vive a Milano, dove lavora per la tv. Ha scritto per Il Venerdì, IL, Rivista Studio, Il Post, Il Mattino.

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